La logica dietro le istituzioni di Bretton Woods: Einaudi e la tela di Penelope delle riforme
Di riforme del Fondo Monetario internazionale (FMI) si continua a parlare incessantemente sin da quando l’organismo fu creato a Bretton Woods (località di villeggiatura in una zona boschiva del New Hampshire) nel 1944. E il Fondo, grazie alle successive riforme, è oggi diventato fondamentalmente diverso dal disegno originario, mostrando in ciò grande adattabilità e capacità di innovazione. Ha incrementato il bilancio e in parte redistribuito le quote, sviluppato i prestiti e la sorveglianza, migliorato le reti di protezione finanziaria, assunto posizioni più pragmatiche in materia di cambi capitali, fisco e moneta, abbracciato la causa della lotta alla povertà e all’inquinamento ambientale, ecc.
Ma come la tela di Penelope, tanto più il FMI avanza negli aggiustamenti, tanto più sembra allontanarsi il traguardo. Gli obiettivi della libertà degli scambi e dei pagamenti, del finanziamento degli squilibri e di una gestione ordinata e condivisa della moneta e della finanza globale paiono perciò restare confinati in un orizzonte inafferrabile. Nel frattempo – per guardare all’ultimo decennio circa – crescono protezionismo e frammentazione, rimane inadeguata la risposta finanziaria alle crisi, si ingigantiscono i problemi di gestione del debito pubblico, cresce il ritardo nelle transizioni verdi e tecnologiche strutturali, mentre il rancore e la sfiducia dei paesi emergenti e in via di sviluppo alimenta la ricerca di sistemi finanziari alternativi (da parte, ad esempio, dei Paesi BRICS +).
Sui nodi da sciogliere e le proposte di soluzione, la lista del cahier de doléance è lunga, ben nota e da tempo al centro della discussione tecnica. Proverò allora a vedere se al di sotto delle technicality non ci siano in gioco impostazioni fondamentali che richiedono più coraggiosi cambiamenti di paradigma. Mi farò guidare in questa ricostruzione dal pensiero di Luigi Einaudi che ha a suo tempo con forza sostenuto il programma e l’adesione dell’Italia alle istituzioni di Bretton Woods, spiegandone sempre con chiarezza al grande pubblico il significato e le implicazioni.
Einaudi – scrivendo negli anni tra il 1944 e il 1947 – correttamente fissa l’essenza di quelle istituzioni nella cessione da parte degli Stati nazionali della sovranità monetaria ad un’autorità sovranazionale globale che l’avrebbe gestita in modo multipolare e consensuale affidando alla potenza egemone, gli USA, le maggiori responsabilità per la stabilità e lo sviluppo del sistema monetario globale. La libertà e la stabilità degli scambi anche a livello internazionale, come a quello nazionale, dovevano essere nell’impostazione di Bretton Woods coerenti con la piena occupazione contribuendo alla ricostruzione del dopoguerra e allo sviluppo economico e sociale, obiettivi questi che rappresentavano, e ancora rappresentano, i principali beni pubblici globali di cui il mondo aveva bisogno.
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Con Bretton Woods, e dopo quelle scelte di fondo, nascono nel dopoguerra istituzioni sovranazionali e multipolari che mirano ad archiviare il prepotere delle sovranità nazionali della prima metà del ‘900, prepotere che era stato responsabile del protezionismo, delle svalutazioni competitive, del prevalere degli interessi nazionali e dei rapporti di forza, e quindi anche dei totalitarismi e della guerra. “La vittoria degli alleati è vittoria dell’idea della interdipendenza reciproca degli Stati [contro quella della non-interferenza], del principio che nessuno stato può considerarsi sicuro se non esiste nel mondo intero un comune modo di pensare e operare nei rapporti tra individuo e stato e fra stato e stato…”.
L’analisi di Einaudi sulle cause dei conflitti è dura, semplice e chiara: il “mito dello stato sovrano” è il “solo vero nemico del progresso e della libertà” e la “vera sola causa della guerra”. “L’uomo di stato il quale crede all’autonomia perfetta dell’idea di stato è costretto a battagliare senza tregua per toccare la meta ultima irraggiungibile del dominio universale, alla stregua di colui che, cavalcando la tigre non può – ammonisce la leggenda indiana – balzare a terra per la paura di essere divorato”. Viene naturale qui il riferimento all’aggressione russa cui oggi assistiamo e ai suoi propositi inconfessabili.
Il FMI nasce dunque come modello di istituzione multipolare e sovranazionale da affiancare a istituzioni similmente ispirate, come l’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO) con la sua “base di regole” (rule-based) e i suoi meccanismi indipendenti per la risoluzione delle controversie. Le stesse Nazioni Unite, in contrapposizione alla “Società delle Nazioni” che la ha precedute e ai suoi fallimenti, si costruiscono come “organizzazione di popoli”, non di Stati, fondata su una Carta di principi, sulla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, dotata di meccanismi di enforcement, di peace-keeping, di tribunali internazionali (più tardi di “ingerenza umanitaria”) e garantita da un Consiglio di Sicurezza guidato dalle potenze egemoni vincitrici della guerra al nazi-fascismo.
“L’equilibrio tra stati sovrani – spiega Einaudi – che era un tempo mero rapporto di forze contrastanti, deve oggi nascere dalla limitazione dei poteri degli stati sovrani. La limitazione – aggiunge – vorrà tuttavia dire esaltazione”: una chiosa questa che illustra chiaramente che cosa voglia dire “ordo-liberalismo”, uno Stato, cioè, forte ma limitato o, meglio, forte proprio in quanto limitato dalla necessità di condividere le prerogative della sovranità con gli altri Stati a livello sovranazionale. È interessante notare come Einaudi, in un articolo del dicembre 1945 su Risorgimento Liberale intitolato “Sovrannazionale, non internazionale”, spieghi questo concetto con riferimento ad un dotto discorso di Pio XII sulla “soprannazionalità della Chiesa”, che non è mera sommatoria di Chiese nazionali. Einaudi applica il concetto alla governance globale post-bellica: “gli stati nazionali non possono durare se non rinunciando a qualcosa di sé … se vogliamo coltivare il nostro giardino, dobbiamo rinunciare a difenderlo colle sole nostre forze; e rassegnarci ad affidare ad altri, posto più in su di noi, il compito della difesa comune del nostro e degli altrui giardini”.
Ma non si pensi che questo modo di sentire, pur largamente diffuso, fosse all’epoca unanimemente e incontrovertibilmente condiviso, neppure a Bretton Woods. Proprio in quello stesso periodo veniva infatti consolidandosi una teoria dell’ordinamento internazionale fondata sul principio delle sovranità nazionali, dell’uguaglianza di tutti gli Stati-nazione, e sul bilanciamento dei poteri come meccanismo automatico di equilibrio nei rapporti di forza tra gli stati e di mantenimento della pace. Il sistema venne, e viene tuttora definito “Vestfaliano” per dargli dignità e spessore storico, ed è diventato “mainstream”, cioè l’approccio dominante nella letteratura e nelle opinioni correnti fino ai nostri giorni.
È a quello stesso periodo che viene fatta risalire la nascita della cosiddetta “Scuola realista delle relazioni internazionali” (l’articolo fondante di Hans Morgenthau è del 1948) che corregge in senso conservatore l’impostazione wilsoniana dell’internazionalismo liberale, al punto che – come scriverà Kissinger nel 2014 “i principi Vestfaliani sono a tutt’oggi la sola base generalmente riconosciuta di tutto ciò che esiste come ordinamento globale”, tanto che gli stessi movimenti indipendentisti dal colonialismo li utilizzano come base per le loro rivendicazioni nazionali. È ovvio poi che questo “modello”, alternativo a quello descritto in precedenza, diventi il punto di riferimento obbligato e di successo di chi rifiuta ogni forma di sovra-nazionalismo e resiste ad ogni tentativo di condividere a livello globale poteri e responsabilità degli Stati nazionali. Gli studi degli storici, particolarmente a cavallo degli anni Novanta del secolo scorso e il primo decennio del XXI si incaricheranno di dimostrare che il modello Vestfaliano in realtà ha ben poco a che vedere con la Pace di Vestfalia, Grozio, Bodin, Suarez e i contributi filosofici e concettuali che segnano il passaggio dal Medio Evo all’età moderna. Esso ha molto di più a che vedere con le impostazioni isolazioniste, unilateraliste e giustificazioniste dei periodi più recenti. Insomma, come la sovranità nazionale anche l’ordinamento internazionale Vestfaliano è in definitiva “un mito”, ma soprattutto si tratta di un mito che lungi dall’assicurare la pace la stabilità e lo sviluppo, diventa invece – come direbbe Einaudi – “sinonimo di guerra” perpetua.
Il ritorno graduale e tendenzialmente crescente dell’ideologia dello Stato sovrano incide significativamente sull’evoluzione del FMI, così come del resto incide su tutte le organizzazioni dell’ordinamento internazionale del dopoguerra, determinando un progressivo allontanamento dall’impostazione sovranazionale e multipolare originaria. Dopo l’inflazione della fine degli anni Sessanta, salta il sistema dei cambi fissi ma aggiustabili e l’agganciamento all’oro e si entra nell’era dei cambi flessibili e del fiat money. La clausola della “scarsità della moneta” non viene mai applicata e l’aggiustamento agli squilibri diventa asimmetrico, tutto a carico dei debitori e con un inerente bias deflazionistico. Salta anche con la “supply-side economics” l’impostazione keynesiana del sostegno alla domanda aggregata e alla piena occupazione che avrebbe dovuto garantire il finanziamento dello sviluppo e dei beni pubblici globali. Si riduce lo spazio di manovra per la cooperazione internazionale nel riequilibrio dei problemi di bilancia dei pagamenti e di risanamento dei debiti sovrani. Anche nel WTO progressivamente entrano in stallo i round negoziali per la liberalizzazione degli scambi (si pensi al fallimento del Doha round) e si bloccano i meccanismi di enforcement delle regole comuni e di risoluzione delle controversie (pensiamo all’Appellate Body del WTO), e così via, fino alle crisi degli ultimi decenni che faticano a trovare risposte comuni a libello globale e con interventi sovranazionali, fino alla sfiducia sugli assetti correnti di governance e alla sfida aperta lanciata dai paesi emergenti alla rappresentatività e alla credibilità del sistema.
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L’Europa ha seguito invece una traiettoria diversa, anche se con alti e bassi, “stop and go”, e crisi ricorrenti, ma tenendo sempre fermo il timone verso l’integrazione sovranazionale come risposta alle crisi, il Piano Marshall prima e poi il mercato unico e l’unione monetaria, fino all’appuntamento ineludibile nel periodo corrente con la sfida dell’unione politica tirata dalle esigenze di una politica estera e di difesa veramente comune.
Per resettare il sistema monetario internazionale e renderlo adeguato alle sfide del XXI secolo è imperativo contrastare le resistenze degli Stati nazionali alle necessarie cessioni di sovranità. Ma per farlo occorre sgombrare il campo dai miti e dalle ideologie del cosiddetto Modello Vestfaliano di relazioni internazionali fondato sul principio della sovranità degli Stati e della indipendenza delle politiche economiche nazionali. Il paradosso della “scuola realista” dominante nelle relazioni internazionali è che i suoi teoremi, invece che su di un’analisi “realistica” di ipotesi e prospettive, sono fondati sui “miti” e sull’accettazione acritica di un assetto anarchico e militarizzato delle relazioni interstatali dove il bilanciamento dei poteri (che dovrebbe fornire le condizioni necessarie e sufficienti per mantenere o ristabilire gli equilibri) non fa che fornire occasioni o pretesti di guerra. Il fatto è che non c’è nessuna “mano invisibile” capace di assicurare la coesistenza pacifica e il recupero dei divari di sviluppo economico e sociale. Questi obiettivi si possono raggiungere solo con il dialogo, la cooperazione e la condivisione dei poteri e delle responsabilità, sapendo che le economie e le società più forti e stabili sono anche quelle che possono e debbono assumersi maggiori responsabilità per guidare e governare il sistema.
Per invertire la rotta è necessario quindi un “recommitment”, un rinnovato impegno sui principi originari di Bretton Woods, la sovranazionalità e il multipolarismo, da realizzarsi col concorso di tutti e la guida responsabile delle maggiori potenze dell’economia internazionale. In questo compito il dialogo al G7 potrebbe avere un ruolo fondamentale. Ma non il G7 degli ex, di quelle che erano le grandi potenze mezzo secolo fa, ma di un G7 allargato a tutti i Paesi che oggi rappresentano una parte significativa dell’economia mondiale, a cominciare da Stati Uniti, Cina e India, e idealmente della UE che in quanto area economica integrata è esattamente nella stessa categoria di USA e Cina, mentre i suoi singoli membri non lo sono.
Le riforme del FMI dovranno probabilmente continuare a procedere come nel passato con aggiustamenti graduali e compromessi faticosi, ma per produrre i loro effetti incisivi e determinanti sulla fiducia e sul dialogo tra i popoli, sul sistema della governance globale e sull’integrazione economica e sociale dovranno essere inquadrati nella logica della sovranazionalità e del multipolarismo, accettando il principio della condivisione di poteri e di sovranità e della corrispondenza tra ruoli di leadership e di responsabilità. Come dicevamo le proposte non mancano, e se si crea e si consolida un nuovo clima di fiducia tra i maggiori player, e tra questi e i Paesi più vulnerabili, ci sarà spazio anche per compromessi e gradualismo.
In questo quadro l’Europa dovrà assumere un ruolo guida che non solo possa corrispondere al suo peso e alla sua rilevanza nell’economia e nella politica internazionale, ma soprattutto che sappia trarre frutto dalla sua esperienza e conoscenza dei meccanismi di integrazione sovranazionale. Perché l’Europa si è costruita e si sta costruendo proprio in base ai principi della sovranazionalità e del multipolarismo. Troviamo un esempio lampante del potenziale di leadership che l’Europa può esprimere nel successo dell’iniziativa del “Summit per un nuovo Patto Finanziario Globale” che si è tenuto a Parigi nel giugno 2023. Copresieduto dalla Francia e da Mia Mottley, la combattiva ed autorevole leader delle Barbados, il Summit nasce dalla cosiddetta “iniziativa di Bridgetown” per la riforma del sistema finanziario internazionale ed è stato sostenuto dall’Unione Europea, dal FMI e da molti Paesi emergenti e in via di sviluppo. Anche il G7 a guida italiana, opportunamente allargato, potrà orientare i suoi lavori in questa direzione contribuendo a dare concretezza al “Patto per i Popoli e per il Pianeta” lanciato nel 2023. I prossimi Summit dell’agenda multilaterale rappresentano a tal proposito appuntamenti da non mancare: dal G20 a guida brasiliana alla COP29 in Azerbaijan, al Summit per il Futuro dell’ONU del settembre 2024. Farsi trovare preparati e in posizione di leadership a questi appuntamenti sarà un importante banco di prova per la nuova Commissione e per il nuovo Parlamento Europeo che si formeranno dopo le elezioni del giugno 2024.
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Un’indicazione in proposito ci viene ancora una volta da Luigi Einaudi che, ricordandoci emblematicamente la tigre in agguato, ci interpella sulla pace con una domanda provocatoria: “Chi vuole la pace?”. Einaudi fornisce un avvertimento ed un utile benchmark per la risposta: “Non fermiamoci alle professioni di fede … chiediamo invece: volete voi conservare la piena sovranità dello stato nel quale vivete? Se sì, costui è nemico acerrimo della pace. Siete invece decisi a dare il vostro voto … soltanto a chi prometta di dar opera alla trasmissione di una parte della sovranità nazionale ad un nuovo organo [a livello europeo]? Se sì, e se alle parole seguono i fatti, voi potete veramente … dirvi fautori di pace”.