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La linea quasi ininterrotta che segna la storia della Russia

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La guerra scatenata dalla Russia con l’invasione dell’Ucraina il 24 febbraio 2022 è un evento che ha cambiato il corso della storia europea. Di questo, tutti siamo certi, senza scomodare il riallineamento dell’Unione Europea sulle posizioni della NATO e degli Stati Uniti, anche solo con una rapida occhiata alle politiche di spesa militare e di investimenti energetici degli Stati del Vecchio Continente. D’altronde, l’attacco deciso da Vladimir Putin ha sconvolto gli europei perché è stato scagliato direttamente contro la UE e il suo sistema politico-economico (per evitare che l’Ucraina ne fosse assorbita), e ha riportato la guerra in una parte del mondo che a partire dalla fine della Seconda Guerra Mondiale ne era stata preservata. I pochi conflitti armati degli ultimi settant’anni, come quelli derivati dall’implosione della ex Jugoslavia, erano infatti stati considerati “eccezionali”, svoltisi d’altronde in un contesto come quello dei Balcani che non molti sono davvero disposti a considerare del tutto “europeo”, e comunque ritenuto “di frontiera”.

Ma le cose, se viste dal punto di vista di Mosca, sono ben diverse. L’invasione dell’Ucraina si colloca in maniera coerente nella storia della Russia e delle sue relazioni con i vicini, e ne segue in modo sorprendente alcune caratteristiche ricorrenti. E queste sono ricorrenti appunto fin dalla nascita dell’entità politica che oggi conosciamo come Russia, emersa alla fine del Medioevo dalle ceneri dell’Impero Mongolo attorno al principato di Mosca: situato in un territorio vasto, aperto e privo di centri di potere stabili e strutturati in grado di contrastarlo, era il punto di partenza ideale per un’espansione territoriale su base anche militare.

Tra i primi grandi vicini a fare le spese dell’espansionismo del principato moscovita fu la Repubblica di Novgorod, una delle grandi città-stato europee del Medioevo, costretta, come molte altre consorelle del resto del continente, a cercare protezione per mantenere una parte della propria indipendenza di fronte alla crescita degli Stati nazionali. Novgorod fu invasa in una doppia occasione: nel 1471 le forze di Ivan III si accontentarono di imporre la sovranità moscovita sulla città dopo una vittoria militare. Ma di fronte al rifiuto della Repubblica di piegare le proprie istituzioni al volere di Mosca, l’invasione fu ripetuta sei anni dopo, stavolta mirando direttamente alla capitale: Novgorod cessò di essere una repubblica, le sue istituzioni furono abolite; la famosa campana che chiamava i cittadini all’assemblea fu portata a Mosca come trofeo; Marfa Boretskaja (chiamata “la Sindaca”), guida della resistenza locale, fu presa in ostaggio e poi rinchiusa in un convento; e le grandi ricchezze della città furono confiscate e spartite tra i nobili russi. Un destino simile, possiamo immaginarlo, avrebbe atteso l’intera Ucraina se l’assalto a Kiev compiuto all’inizio dell’invasione (anche in questo caso la seconda, dopo quella del 2014), avesse avuto successo.

La battaglia di Orša (1514), in seguito alla quale Smolensk passò dal dominio polacco-lituano a quello moscovita, nel dipinto di Hans Krell (dettaglio).

 

Quella prima grande guerra del XV secolo, che blindò il nucleo del futuro impero zarista, stabilì anche un’altra linea fondamentale della geopolitica della Russia: la divergenza di interesse con stati e nazioni ai confini occidentali della Russia, e una parallela convergenza – anche se meno stabile – con i centri di potere al di là di quegli stati e nazioni.

Ad esempio, proprio la Repubblica di Novgorod, alla fine della sua storia centenaria, aveva ormai dovuto accettare il protettorato polacco-lituano, per garantire le difese della città. Quando le dinastie polacche e lituane si confederarono, nel secolo successivo, fu chiaro che l’espansione della Moscovia sarebbe passata per la distruzione della Confederazione polacco-lituana: quest’ultima al momento della massima espansione controllava grandi porzioni dell’odierna Ucraina, ben oltre Kiev, e la Bielorussia, oltre che molte città oggi in Russia. Il processo durò secoli, e si concluse storicamente con la spartizione della Polonia, che cancellò lo stato polacco dalle mappe geografiche alla fine del ‘700 e che avvenne in accordo con la Prussia e l’Impero Austro-Ungarico.

Germania, Austria e Ungheria si rivelavano così il perfetto punto di aggancio delle relazioni di Mosca con il continente europeo, alle spese degli Stati e delle nazionalità comprese tra i due poli. Stati e nazionalità dell’Europa centro-orientale – secondo questa “inerzia” politica, economica e geografica – erano destinati a cadere sotto l’influenza dell’uno o dell’altro polo, all’interno di una logica imperiale che considerava i loro diritti politici sempre negoziabili.

Anche se nello scenario attuale Germania, Austria e Ungheria corrispondono a delle entità politiche ben diverse, anche territorialmente, rispetto a quelle che spartirono la Polonia e regioni baltiche con la Russia nel ‘700 (e d’altronde tornarono a farlo nel 1939), non è un caso che questi tre Paesi siano risultati nello scorso decennio al centro della fruttifera diplomazia politico-energetica di Vladimir Putin. Il fattore dell’approvvigionamento di gas ha offerto a Mosca una leva di grande potenza per ravvivare quell’inerzia geopolitica che spinge in favore di un’intesa tra Mitteleuropa e Russia a discapito degli Stati “di mezzo”. Un’inerzia che nemmeno l’invasione dell’Ucraina e la poderosa spinta politica americana in favore di Kiev sono riuscite a fermare del tutto, se consideriamo le pressioni ancora presenti in Germania e Austria per la ri-attivazione completa dei gasdotti Nord Stream (d’altro canto, furono imprese tedesche e austriache a costruirli insieme a Gazprom), o la posizione dell’Ungheria, molto lontana dal coro atlantista e filo-ucraino di quasi tutto il resto del continente europeo.

Come molti altri Stati europei, anche quello russo è nato grazie a continue campagne militari. Ma nel caso russo, la permanenza nei secoli dell’obbiettivo dell’espansionismo verso occidente ha davvero formato le caratteristiche della politica estera del Paese, fin quasi a farne l’essenza della Russia, considerando l’importanza fondamentale della storia nazionale sia nella formazione delle classi dirigenti nazionali, sia negli orientamenti del pensiero politico-religioso nello scenario interno, sia nella formulazione delle “giustificazioni” dell’imperialismo moscovita.

Assicurata con cura una situazione di superiorità militare assoluta, e garantita la presenza forte di sostenitori nelle zone da sottomettere, le campagne orchestrate dalla Russia hanno sempre poggiato su temi culturali e ideali di grande rilievo. Negli anni ’20 del ‘500, gli intellettuali moscoviti produssero un trattato genealogico, la Storia dei Principi di Vladimir, in cui sostenevano che la casa regnante a Mosca fosse imparentata con l’imperatore romano Augusto, attraverso un suo poco conosciuto fratello, Prus, che abbandonò Roma per le province orientali. Se questa versione non convinceva, ce n’era un’altra secondo cui la linea dinastica aveva seguito l’asse Roma-Costantinopoli-Kiev-Mosca. A provarlo, caso fortunato, c’era la “Corona di Monomaco”, passata come segno di continuità di potere, diceva la “Storia”, dai regnanti di Bisanzio ai conti di Kiev e poi ai principi di Mosca. In realtà era stata fabbricata in Asia Centrale pochi anni prima. Ma nel 1547, in un evento paragonabile per importanza a quella di Carlo Magno, l’incoronazione di Ivan IV (il Terribile) avvenne proprio con la Corona di Monomaco e il nuovo regnante assunse il titolo di zar, derivato da quello romano di Caesar: normale, se sei il pronipote di Augusto.

 

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Temi come questo dovevano essere capaci di parlare in profondità all’anima del più semplice dei sudditi (oltre che ad essere compresi con facilità all’estero). Naturalmente il più delle volte continuò a trattarsi di pretesti privi di ogni fondamento o di assiomi legati a una verità ideologica fittizia e prefabbricata. La Russia doveva espandersi per offrire una patria ai russi “di tutte le Russie” – ossia russi di Russia, d’Ucraina e di Bielorussia – e poco importava che ciò significasse l’annessione di interi altri popoli, o la loro sostituzione etnica con dei “russi” più entusiasti di esserlo, altra pratica piuttosto resistente al passare del tempo. Oppure doveva farlo per offrire una casa a tutti i fedeli di religione ortodossa, perché al declino di Costantinopoli doveva seguire l’ascesa del Patriarcato di Mosca – e se qualcuno si ostinava a preferire altri patriarchi o il papa, c’erano le conversioni forzate. O per offrire una casa a tutti gli slavi del continente europeo – che ci volessero abitare o no. O per garantire la vittoria del marxismo-leninismo. O infine per sconfiggere – si è detto stavolta – il “nazismo” ucraino.

 

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Il grande stato costruito da Ivan il Terribile e consolidato e completato da Pietro e Caterina divenne dunque una nazione imperiale con tutti i crismi. Come ogni vero impero, seppe mantenere le proprie caratteristiche fondamentali, la cui comprensione è necessaria per comprenderne i meccanismi e il funzionamento, e fu destinata a condizionare per sempre le vicende del continente europeo.