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La guerra civile “silenziata” in Myanmar

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E’ un Paese sprofondato nel buio il Myanmar dei generali che il 1° febbraio 2021 hanno instaurato una dittatura militare. Hanno imprigionato tutti i leader della Lega nazionale democratica di Aung San Suu kyi, richiusa in una prigione di Naypyidaw, la capitale, dove deve scontare una condanna che equivale a un ergastolo. Mentre attraversiamo il Paese non è difficile notare che i blackout elettrici sono costanti e che, in certi villaggi minori, la luce c’è meno di cinque ore al giorno. Il nuovo governo militare dal bizzarro nome di Consiglio dell’Amministrazione di Stato (Sac) non riesce a garantire il minimo indispensabile a una vita dignitosa mentre un’inflazione rampante ha già fatto salire tutti i prezzi dei generi di prima necessità del 30%. Anche la moneta, il Kyat, è così svalutata che il cambio persino negli aeroporti statali è di poco più basso rispetto al mercato nero dove la divisa viene scambiata a 3.000 kyat per dollaro americano, contro il “cambio ufficiale” di 2.200.

Sono gli indizi evidenti dell’avvitamento di un Paese isolato e che ha pochi amici: i cinesi, che in nome degli affari, tollerano i militari ora al potere, con cui non hanno mai avuto buoni rapporti; e i russi, che hanno trovato nel governo del generalissimo Min Aung Hlaing (per esteso si fa chiamare Thadoe Maha Thray Sithu Thadoe Thiri Thudhamma), un alleato che non soltanto evita di criticare Mosca ma le compra aerei e blindati per la sporca guerra contro il suo stesso popolo. Un popolo che non ha perdonato a Tatmadaw, come l’esercito birmano è noto, il passo con il quale ha trascinato indietro gli ingranaggi della Storia riportando il Myanmar nell’orbita decennale delle dittature militari.

La parata del 27 marzo scorso, l’ultima occasione per mostrare una forza almeno apparente, è stato uno sfoggio di armi e soldati ma anche di velivoli da guerra (elicotteri russi MI35, caccia cinesi Guizhou JL-9 e Hongdu JL-8). La sera Min Aung Hlaing ha festeggiato con i militari stranieri presenti alla parata. I russi in prima fila. Ma è appunto una forza solo apparente. Secondo Andrew Selth, della Griffith University, Brisbane, all’epoca del golpe del febbraio 2021 l’esercito poteva contare su circa 300mila effettivi che sarebbero scesi ora di almeno 100mila unità cui vanno aggiunti circa 80.000 agenti della polizia nazionale. Sebbene, dicono fonti locali, Tatmadaw abbia aperto le maglie di un reclutamento che prima aveva regole molto rigide (una casta cui era difficile accedere e che garantiva privilegi), oggi sono pochi a voler rischiare la pelle in un esercito visto come l’emblema del tradimento della promessa di sviluppo. Solo le diserzioni conterebbero almeno 12mila soldati, secondo l’opposizione, senza contare chi scappa per non essere adescato: “Io sono fuggito dal mio villaggio – racconta un giovane maestro che a Yangon si è rifugiato in un monastero per evitare il reclutamento – e non voglio andare in guerra”.

Il generale Min Aung Hlaing in parata militare

 

E’ un refrain, accanto a quello che riguarda le scuole. Chi può non manda più i propri figli negli istituti pubblici dove molti insegnanti sono stati sostituiti da militari dopo la “diserzione” di molti maestri. Intanto, il numero di studenti birmani che quest’anno ha sostenuto gli esami di laurea è sceso a un quinto rispetto al periodo del governo civile. Lo stesso ministero dell’Istruzione, che ha fissato gli esami dall’8 al 18 marzo, ha ammesso che 160.000 studenti lo hanno sostenuto contro gli oltre 900mila dell’ultima sessione pre-Covid e pre-golpe del marzo 2019.

Il Paese è in guerra. Una guerra solo apparentemente di bassa intensità, fatto dovuto più alla mancanza di copertura mediatica che non alla realtà sul terreno. “L’invasione su vasta scala dell’Ucraina da parte della Russia – ha scritto  Armed Conflict Location & Event Data Project (ACLED) nel suo rapporto di fine 2022 – ha provocato un forte aumento della violenza politica che ha superato di gran lunga tutti gli altri Paesi… l’elenco (del rapporto) include Paesi che soffrono di conflitti su larga scala, come nel caso di Ucraina, Myanmar e Siria”.

 

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Il numero dei morti nella guerra birmana è incerto ma ACLED lo valuta in decine di migliaia. Una proiezione ben lontana da quella più citata e che riguarda la certificazione quotidiana di Assistance Association for Political Prisoners (AAPP) secondo cui al 26 aprile 2023 i morti civili erano “solo” 3.43. La differenza risiede nel fatto che mentre AAPP fornisce un elenco delle vittime civili di cui si conosce il nome, il luogo e la data del decesso, la raccolta di dati di ACLED riguarda anche i militari (su cui Tatmadaw non dà numeri) e gli scomparsi dopo le operazioni di terra, con l’incendio di interi villaggi e la loro evacuazione, e i bombardamenti aerei, una scelta che recentemente è stata usata sempre più spesso proprio per la difficoltà di controllo del territorio. L’ultimo episodio è dell’11 aprile: un bombardamento che ha ucciso 168 persone in un villaggio del Sagaing (Myanmar centrale): 159 erano civili. Secondo Human Rights Watch i militari birmani avrebbero utilizzato bombe termobariche (ordigni che usano l’ossigeno dell’aria circostante per generare un’esplosione ad alta temperatura con due cariche separate; la prima disperde carburante sotto forma di nuvola e la seconda lo fa esplodere, risucchiando ossigeno e formando una palla di fuoco). Non sono vietate in guerra, ma il loro uso contro i civili è proibito dalle Convenzioni di Ginevra e costituisce un crimine di guerra.

Secondo lo Special Advisory Council for Myanmar (SAC-M), un gruppo internazionale di ricerca,  nelle 330 municipalità bimane (township) “in solo 72 (22%) la giunta gode di un controllo stabile” il che non significa – dice un loro rapporto del settembre 2022 –  che l’esercito abbia “un’influenza efficace sulla popolazione, ma semplicemente che le sue forze di sicurezza e le infrastrutture di base non hanno bisogno di essere attivamente difese”. E’ un’area che “costituisce solo il 17% della superficie del Paese” mentre “127 municipalità (il 39% del totale) sono contese”. E ancora: “Il controllo della giunta è contestato nel 94% di tutte le municipalità di confine”. Naturalmente si tratta di dati variabili e va tenuto conto del fatto che l’opposizione al regime non ha una sola bandiera. Anzi. In molti casi, specie lungo le frontiere, si tratta di un controllo antico da parte delle organizzazioni etniche armate che hanno vere e proprie milizie organizzate e rappresentano Shan, Karen, Kachin e così via: comunità non Bamar, il gruppo maggioritario nel Paese. Le milizie rappresentano le diverse autonomie periferiche che non sempre sono alleate col National Unity Government (NUG), il governo clandestino formatosi dopo il golpe che ha come propria organizzazione armata le Forze di difesa popolare (PDF), che in molti casi – ma non in tutti – collaborano con le EAO.

Il nostro viaggio nel Paese ci è sembrato confermare che la direttrice che dall’ex-capitale Yangon arriva a Mandalay passando per Naypyidaw è relativamente tranquilla anche se sono sconsigliati i viaggi notturni: il controllo di Tatmadaw appare infatti evidente soprattutto nelle città lungo il fiume Irrawaddy, tragitto che corrisponde ai centri urbani maggiori, facilmente raggiungibili e che si trovano sull’unica strada (un’autostrada) che viene percorsa anche dai rari turisti per raggiungere i luoghi relativamente tranquilli (Bagan, lago Inle). Qui la giunta cerca di intercettare un po’ di contante in valuta pregiata. Inutile forse dire che bancomat e carte di credito non funzionano nel 90% del Paese in un settore – quello bancario – facilmente colpito dalle sanzioni internazionali: gli emissari sono spesso ricevuti all’estero nelle sedi istituzionali, pur senza molto clamore, ma Unione Europea, Stati Uniti e altri Paesi come Australia o Giappone – anche se in forma minore – hanno colpito il regime con una raffica di sanzioni estese a diversi settori dell’economia e a singoli ufficiali dell’esercito.

 

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L’ultimo atto di una farsa che vorrebbe dimostrare che il Myanmar oltre che in pace è anche un Paese democratico, riguarda le elezioni che, nel secondo anniversario del golpe il febbraio scorso, sono state rinviate benché la Costituzione ne dettasse l’obbligo secondo un canone voluto nel 2008 proprio da Tatmadaw. L’operazione di rinvio è stata alimentata dalla decisione a fine marzo di estromettere la Lega di Aung San Suu Kyi e altri 39 partiti dalla corsa elettorale, per non essersi reiscritti nelle liste della Union Election Commission (UEC), immediatamente riformata col golpe di febbraio nato proprio dopo le elezioni del novembre 2020 in cui la Lega si era riaffermata con un consenso popolare ancora più esteso di quello uscito dalle urne nel 2015 (le elezioni che avevano sancito la vittoria di Aung San Suu Kyi). Ciò non di meno, benché la decisione della Commissione sia stata condannata da tutti i Paesi che hanno osteggiato il golpe sin dall’inizio, nessuno ha finora riconosciuto il NUG come legittimo interlocutore in Myanmar.