La guerra che assedia Rafah
Gli occhi del mondo da settimane sono puntati su Rafah, la cittadina nel sud della Striscia di Gaza la cui densità abitativa è aumentata esponenzialmente dall’inizio dell’operazione di terra israeliana sul territorio culla di Hamas. Gli abitanti del resto della Striscia, cacciati dalla distruzione portata dalla guerra, si sono infatti rifugiati lì. Da una località dove vivevano circa 250mila persone, Rafah è nei fatti diventata una tendopoli con oltre 1 milione di rifugiati. Si stima la presenza di circa 12.000 persone per ogni chilometro quadrato.
Dopo giorni in cui i bombardamenti aerei sembravano annunciare l’imminenza di un’operazione di terra, il 18 febbraio Israele ha invece emesso un ultimatum: se gli ostaggi detenuti da Hamas a Gaza non saranno rilasciati, l’operazione di terra partirà entro l’inizio del Ramadan, attorno al 10 marzo. Tale piano – che la diplomazia internazionale sta cercando di scongiurare con le trattative in corso tra Parigi e il Qatar – ha da un lato allarmato chi teme gli effetti umanitari di questa operazione di terra e dall’altro infiammato il fronte tra Israele ed Egitto. Il Cairo è arrivato a minacciare la fine degli Accordi di Camp David (i primi – nel ‘79 – tra Israele e un Paese arabo): la ragione è che la pressione militare israeliana su Rafah spingerebbe centinaia di migliaia di palestinesi a forzare il confine con l’Egitto per cercare rifugio.
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Per capire perché Rafah è un nervo scoperto nella complicata geografia politica della regione, bisogna ripercorrere la sua storia contemporanea, legata a doppio filo alla cronologia del conflitto israelo-palestinese che negli ultimi decenni ha avuto ripercussioni anche sulla topografia dei suoi luoghi. Quella che oggi chiamiamo “Striscia di Gaza” era infatti nota nei secoli precedenti come “la via dei Filistei” che collegava l’Egitto con la terra di Canaan.
All’inizio del XX secolo, su pressioni britanniche, Rafah venne divisa in due parti da una linea di confine tracciata tra l’Egitto e l’allora Palestina, amministrata dall’Impero Ottomano. E rimase tagliata a metà anche dopo il 1948, quando l’Egitto prese il controllo di Gaza. Fu con la guerra dei Sei giorni che Israele, occupando inizialmente sia il Sinai che la Striscia, eliminò la frontiera – che fu poi ripristinata dopo gli accordi di Camp David del 1979. Da quegli anni al 2005, fu Tel Aviv a controllare il movimento di persone da un lato all’altro di una frontiera dove negli anni precedenti era nata una fiorente attività commerciale.
Dopo il disimpegno unilaterale di Israele da Gaza, la gestione del valico fu condivisa tra Egitto, Autorità Nazionale Palestinese e Unione Europea. Quest’ultima se ne ritirò quando, nel 2007, Hamas prese in potere nella Striscia – a seguito di uno scontro violento con le forze di al Fatah, che rimase invece in controllo almeno parziale della West Bank, più a nordest. Israele ed Egitto decisero allora di bloccare il libero passaggio da e per il piccolo territorio. Da quel momento, il valico viene aperto a intermittenza, permettendo esclusivamente il transito di persone il cui nome compare in una lista stilata appositamente. Sia Hamas che Egitto possono dire l’ultima parola sui nomi che vi compaiono.
Come tante altre frontiere, Rafah è diventata quindi un luogo di commerci e scambi più o meno legali, alla luce del sole o letteralmente sotterranei, grazie alla rete di tunnel costruiti da Hamas per collegare la Striscia all’Egitto – ma anche per muoversi al riparo dagli occhi delle forze armate israeliane. La decisione è stata quella di separare la penisola del Sinai – dove l’esercito egiziano faticava a mantenere il controllo – dalla Striscia, attraverso la costruzione di due muri.
Il primo corre lungo tutto il confine egiziano e si estende non solo in superficie, ma anche sei metri sotto terra, proprio per scongiurare la costruzione di tunnel. Il secondo ha torri di sorveglianza ed è stato rafforzato da novembre ad oggi. Temendo che l’eventuale operazione di terra su Rafah renda impossibile tenere chiusa la frontiera, l’Egitto ha costruito in questo periodo una terza barriera, che servirebbe a contenere un eventuale esodo di profughi in una porzione confinata del territorio egiziano. Secondo fonti di stampa difficili da verificare a distanza, il Cairo starebbe comunque costruendo nella regione unità abitative che potrebbero essere utilizzate da eventuali sfollati. Una mossa – secondo alcuni analisti – che potrebbe aiutare il Cairo a beneficiare del sostegno internazionale per ottenere magari un aumento dei prestiti del Fondo Monetario Internazionale (di cui la sua economia ha un bisogno quasi disperato), senza però dover davvero ospitare i profughi palestinesi nel proprio territorio.
Finora il Cairo non ha aperto Rafah non solo perché politicamente – come la Giordania – vuole scongiurare una nuova Nakba e la nascita di una nuova generazione di profughi palestinesi impossibilitati a tornare a casa, ma anche per il timore della pressione migratoria e per la paura di infiltrazioni di miliziani in una regione dove a lungo il Cairo ha combattuto le cellule jihadiste (dal sedicente stato islamico ad Al-Qaeda nel Sinai). Proprio a tale scopo, dal 2014, a fronte di un’ondata insurrezionale nel Sinai, il Cairo iniziò una campagna per inondare i tunnel che dagli anni ‘90 erano corridoi di contrabbando, vie di traffico di persone e di merci. In primis armi, esplosivi e munizioni.
A distanza di anni, oggi è l’Egitto ad essere accusato da Israele di contrabbandare armi nel territorio palestinese attraverso il corridoio di Philadelphia, la zona cuscinetto tra la Striscia e il Sinai di cui Tel Aviv – a inizio anno – ha minacciato di voler riprendere il controllo. Sabato 24 febbraio l’aviazione israeliana ha colpito proprio su questa linea due obiettivi descritti come snodi di traffico illegale di armi. Anche per questo l’esercito egiziano ha mandato al confine truppe e carri armati.
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In questi mesi, il commercio che più è cresciuto a Rafah è quello dei trafficanti che organizzano il transito di persone da Gaza al territorio egiziano. Questo valico è stato aperto sempre in modo discontinuo, tre o quattro volte al mese, solo per il passaggio di egiziani, palestinesi o cosiddetti VIP: donatori internazionali, staff delle Ong e delle organizzazioni internazionali. Il compito di aprire la frontiera spetta all’Egitto, mentre a compilare la lista di chi può attraversare sono agenzie di viaggio che lavorano tra Gaza e Il Cairo per facilitare – previa ricompensa – le pratiche burocratiche. Un meccanismo che da sempre alimenta un mercato nero che negli ultimi mesi è esploso. Se prima bastava qualche centinaio di euro per garantire l’avanzare delle procedure, ora i disperati che vogliono scappare dalla Striscia si sentono chiedere anche 5000 dollari. La testata britannica Guardian ha parlato di un vero e proprio sistema di mazzette che coinvolgerebbe anche un giro di persone collegate ai servizi di intelligence. Accuse difficili da provare, ma ricorrenti nei diversi report giornalistici che anche dall’interno della Striscia raccontano la battaglia dei palestinesi di Gaza per raccogliere i soldi da pagare a chi ha il potere di inserire il loro nome nella lista appesa sulla barriera del confine di Rafah. Sono sempre più numerose le campagne di crowdfunding lanciate dai parenti già all’estero dei palestinesi di per aiutarli a scappare.
Insomma, la tragica vicenda di Gaza ha ora il suo epicentro lungo una stretta linea di confine in cui si ammassano civili disperati e attorno a cui operano le forze armate di tre attori che dovranno fare scelte delicatissime.