La Francia in crisi e l’idea della guerra
La Francia naviga da anni in una crisi dai contorni, legata alla parabola di Emmanuel Macron. Il presidente, eletto per la prima volta nel 2017, ha perso la maggioranza parlamentare alle legislative del 2022; e se nel suo primo mandato aveva cambiato già due volte il primo ministro – da Edouard Philippe a Jean Castex a Elisabeth Borne – negli ultimi tre anni sono stati addirittura quattro gli avvicendamenti alla guida del governo, tutti in varia misura tempestosi. Se lo scenario nazionale resta fosco, con le opposizioni sia di destra che di sinistra incoraggiate dai sondaggi e degli indici di gradimento del presidente al minimo assoluto, Macron continua però a utilizzare la proiezione internazionale, che la carica di Presidente della Repubblica gli offre, per restituire senso e direzione alla sua figura. Questa azione, questa strategia, non sempre coerente, è sempre più condotta nell’ultimo periodo attorno alle coordinate della difesa, della sicurezza e della guerra.

Già all’inizio dell’anno Emmanuel Macron aveva dichiarato varie volte che la Russia costituisce “una minaccia esistenziale” per gli europei – parole che avevano colpito l’opinione pubblica sia perché si era già in clima di trattative con Mosca, per quanto illusorie o complesse si potessero definire. Sia perché la Francia era stata giudicata fino a quel momento il Paese che aveva aderito con meno entusiasmo alla linea più intransigente contro la Russia, al momento dell’invasione dell’Ucraina – posizione invece sostenuta con il maggior vigore da Washington, Londra e dagli Stati Baltici. Ricordati la fine che ha fatto Napoleone, fu l’aspra risposta del Cremlino.
Mentre in novembre è arrivato l’annuncio del ripristino di un servizio militare volontario, “di dieci mesi, a partire dal 2026, riservato a tremila diciottenni uomini e donne, con l’obiettivo di reclutarne 50mila l’anno nel 2035”. Il ridotto numero iniziale dipende dall’assenza di capacità, nell’esercito francese (e non solo in quello), di accogliere migliaia di nuove reclute da addestrare. L’annuncio seguiva quello del governo tedesco, di poche settimane prima. Non possiamo permetterci “né la paura, né il panico, né l’impreparazione, né la divisione”, commentava Macron per l’occasione il 27 novembre, parlando a una brigata di fanteria di montagna in Val d’Isère. Le parole del presidente si aggiungevano a quelle pronunciate pochi giorni prima dal nuovo Capo di Stato Maggiore dell’esercito Fabien Mandon – lui si rivolgeva al Congresso dei sindaci di Francia – secondo cui i francesi avrebbero dovuto riabituarsi all’idea di “perdere i figli” in guerra, e “di soffrire economicamente perché le spese militari devono aumentare”.
Il 20 novembre usciva a cura del Segretariato generale della difesa e della sicurezza, un dipartimento alle dirette dipendenze del primo ministro, un opuscolo intitolato “Tutti responsabili”, mirato a organizzare “la resilienza” dei civili in caso di crisi sanitarie, climatiche o geopolitiche. Nel libretto si invita la cittadinanza a prepararsi “a eventi che perturbino l’ordinato funzionamento della società”, e si danno consigli di vario genere, tra cui come costituire un kit di sopravvivenza composto di conserve, acqua potabile, medicine.

I francesi “hanno voglia di impegnarsi”, piace rimarcare a Macron – lo dice in diverse occasioni. Ma se l’esercito resta – come accade un po’ ovunque in Occidente, di fronte al contemporaneo declino della popolarità delle istituzioni e delle forze politiche – molto popolare, più di qualcuno si è già chiesto a cosa serva esattamente una forza volontaria di qualche migliaio di giovani inesperti, mentre l’esercito francese conta già duecentomila effettivi professionali e cinquantamila riservisti. Lo ha fatto ad esempio l’ex deputato di centro-destra François Cornut-Gentille, esperto e consigliere su questioni di difesa, che rimarca il pericolo dell’illusorietà quanto della strumentalità di misure simili, inadeguate all’effettiva dimensione e qualità delle minacce.
Minacce che sono sempre “crescenti”, nella narrativa presidenziale. Ma perché tanta insistenza? Perché con l’idea del servizio militare volontario Macron ha finalmente trovato qualcosa che piaccia ai francesi: che gli si sono rivoltati contro per anni un po’ su tutto, ma che su questo sono concordi quasi al 90%, secondo i sondaggi. Attenzione però: i consensi si riducono alla metà se questo diventa “obbligatorio”, e solo al 40% tra i minori di 35 anni, che dovrebbero farlo. Un orientamento, dunque, più nostalgico e teorico che concreto. A testimoniarlo sono le reazioni dell’opposizione – da Marine Le Pen che da destra punta il dito contro l’esagerazione delle accuse rivolte alla Russia, a Jean-Luc Mélenchon che da sinistra denuncia la volontà di “fare paura” con l’obiettivo nascosto di ridurre la spesa sociale. Ma anche le notizie che arrivano dagli altri Paesi dove proposte simili sono entrate nel dibattito: il governo britannico ha insabbiato lo stesso progetto, dopo averlo proposto, e il governo tedesco si è già diviso al riguardo. Il che probabilmente significa che anche all’interno delle forze armate non mancano le perplessità.
In effetti, per quanto riguarda il concreto, pochi entrano nel dettaglio di come affrontare le minacce di cui si parla. L’opinione pubblica, al di là del consenso alle forze armate o all’idea disciplinante del servizio militare, reagisce all’ipotesi di una guerra soprattutto non credendoci – con l’indifferenza. La frattura tra i diversi orientamenti è data specialmente dalla visione della posizione internazionale del proprio Paese: per usare delle etichette generaliste, i più europeisti considerano credibile l’individuazione della Russia come minaccia e l’identificazione tra la Francia e l’Ucraina. I più nazionalisti, invece, rifiutano l’idea di doversi sacrificare per un conflitto di carattere estraneo, che non riguarda affatto il proprio Paese.
E così, mentre Emmanuel Macron avverte che “le prossime generazioni non godranno più del dividendo della pace”, cioè il beneficio del poter ridurre le spese militari alla fine della guerra fredda, il Rassemblement National di Marine Le Pen e Jordan Bardella si pone al contrario come partito “della trattativa”.
Il dibattito, come altrove, rischia di essere davvero lacerante per la Francia. La sinistra è divisa, con la parte più radicale più convintamente pacifista, contraria soprattutto all’aumento delle spese militari e alla riduzione di quelle sociali, e capace di mobilitare con efficacia il Paese su queste parole d’ordine, come è avvenuto a ripetizione negli ultimi anni. La sinistra moderata, in cui spicca l’esponente socialista Olivier Faure, deve mantenere l’equilibrio tra la difesa delle politiche sociali, principio su cui si basa l’accordo politico con l’ala radicale, accordo senza il quale entrambe sarebbero ridotte all’irrilevanza, e l’obbedienza alla linea ufficiale della UE (della cui maggioranza fa parte a Bruxelles), russofobica e favorevole al riarmo.
A destra, l’elettorato del Rassemblement National è senz’altro più compatto. Ma Le Pen e Bardella hanno bisogno di allargarlo, se vogliono vincere le presidenziali del 2027. Ciò significa dover coniugare la difesa delle politiche sociali, maggioritaria nel Paese, con il sostegno alle forze armate, tipico del fronte conservatore, mantenendo l’atteggiamento conciliante con Mosca. Nemmeno questo è semplice, perché il quadro europeo vede crescere, in queste convulsioni terminali della guerra aperta in Ucraina, le tensioni con la Russia. Tensioni a cui la destra radicale francese non può restare indifferente, soprattutto considerando i promettenti spazi di collaborazione che a Bruxelles si stanno aprendo con la destra moderata e con la Commissione von der Leyen. Poche settimane fa, la riforma delle politiche di transizione energetica UE è passata proprio grazie ai voti delle due destre: una prima volta storica. Ma la continuazione di questa intesa può soltanto passare per un allontanamento della componente radicale dalle posizioni filo-russe.

Il presidente, da parte sua, insistendo su questi temi, può sperare che le contraddizioni tra i suoi avversari aiutino l’area centrista a recuperare consensi in vista, appunto, delle presidenziali del 2027: sono già in molti a contendersi lo scettro di successore di Macron. Non tutto però è nelle mani dei protagonisti: a scrivere il seguito di questa vicenda sarà anche il contesto nazionale ed europeo, sospeso tra bellicismo e speranze di pace, necessità di marcare autonomia e impegni internazionali con gli Stati Uniti, in uno stato d’animo di generale incertezza e sfiducia aggravato dalla guerra che scuote il nostro continente da quasi quattro anni.