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La fragile tela diplomatica sull’Ucraina

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«La fine della guerra in Ucraina potrebbe essere vicina» ha dichiarato Donald Trump, «o forse no» e dipende da quanto i due belligeranti saranno disposti ad accettare compromessi. Persino il presidente degli Stati Uniti ha dovuto imparare, suo malgrado, che trattare con Vladimir Putin e Volodymyr Zelensky non è semplice come prometteva durante la sua campagna elettorale. Altro che «fine della guerra entro 24 ore», tre mesi o sei. Non sono serviti neanche gli ultimatum, sempre ritirati o non applicati, al Cremlino. Per realizzare il sogno della Casa Bianca di intestarsi un accordo storico tra Mosca e Kiev ci si muove a piccoli passi e senza più credere troppo come nei mesi passati alla tracotanza verbale fatta di minacce via social network, di punti esclamativi, di lettere maiuscole o di dichiarazioni velenose.

 

Ad agosto Trump ha indossato la veste inedita di statista paziente, ha accettato l’invito di Putin a incontrarsi e ha organizzato il vertice di Anchorage, in Alaska. Pochi giorni dopo ha invitato Zelensky, i dirigenti europei e i vertici UE e NATO a Washington per tentare di trovare un compromesso accettabile con Mosca, soprattutto sui territori che si dovranno cedere. Perché, è evidente e scontato per Washington, che l’Ucraina dovrà cedere più della Russia. Ora si parla di «garanzie di sicurezza» e di incontro bilaterale o trilaterale (in base alla presenza o meno di Trump). In altri termini, la diplomazia ha ricominciato a muoversi, seriamente, come non accadeva dalla primavera del 2022. Ma Trump sa che il fallimento è sempre dietro l’angolo, insidiato dal massimalismo delle richieste di Mosca e dall’impossibilità per Zelensky di accettare determinate concessioni.

Quando dalla base militare di Elmendorf-Richardson, in Alaska, Putin ha parlato di «risolvere le cause profonde della guerra» accanto a un Trump che è parso stanco e insolitamente remissivo, non ha detto nulla di nuovo. L’espansione a est della NATO, il disarmo dell’Ucraina, la “denazificazione” (ovvero il cambio di governo e la riforma in senso federale dello Stato), la neutralità imposta, il ridimensionamento dell’esercito di Kiev e la protezione della lingua e della cultura russa sono temi che abbiamo ascoltato decine di volte. Ma ora che Putin si è convinto che sul campo la Russia sta vincendo, e che non potrà che andare meglio, la questione dei territori diventa protagonista.

A partire dal martoriato Donbass, al centro degli scontri tra Kiev e i separatisti filo-russi fin dal 2014 e ancora oggi teatro delle battaglie più sanguinose. I due oblast che compongono questa regione, Lugansk e Donetsk, sono i primi ad aver visto l’ingresso delle colonne russe il 24 febbraio 2022 e comprendono una serie di centri sconosciuti ai più prima dell’invasione, ma diventati tristemente celebri per le battaglie campali che vi si sono combattute. I campi intorno a Mariupol, Severodonetsk, Lisychansk, Bakhmut, Avdiivka, Chasiv Yar e ora Pokrovsk nei tre anni e mezzo di questa guerra si sono riempiti di migliaia di cadaveri.

Il Lugansk è caduto mesi fa, ma per la conquista del Donetsk manca ancora circa il 30% del territorio pre-bellico della regione. Si combatte già in diversi insediamenti con l’obiettivo di arrivare al capoluogo, Kramatorsk, ma le linee ucraine non si sono sfaldate, le ritirate sono state ordinate e, ad oggi, non si è verificato lo sfondamento che i generali russi tentano di portare a termine da oltre un anno. I soldati di Mosca avanzano costantemente, ma a rilento e a un costo altissimo in termini di vite umane. Per completare la conquista del Donetsk potrebbero dunque volerci ancora dei mesi. Ed è qui che Putin ha avuto l’intuizione diabolica: se l’Ucraina acconsentisse a cedere la parte dell’oblast che ancora controlla, per Mosca si potrebbe trovare un accordo.

Per Putin sarebbe una vittoria incontrovertibile, perché oltre a riportare le tanto propagandate «regioni russofone» sotto il controllo russo, obbligherebbe il nemico a cedergliene una parte senza combattere, con l’avallo degli Stati Uniti per giunta. Tuttavia, per Kiev, si tratterebbe di una vera e propria resa. Il Donbass in Ucraina non è solo un territorio, è un simbolo. Zelensky rischierebbe l’ammutinamento dei soldati e degli ex-vertici dei gruppi di milizie nazionaliste – Azov, Dnipro, Pravy Sektor tra gli altri, tutti integrati nell’esercito – che lo accuserebbero senz’altro di aver svenduto il Paese alla Russia.

 

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Per questo a Washington Trump ha voluto discutere direttamente anche con i capi di Stato e di governo europei più vicini a Kiev. L’intenzione era quella di trovare un modo per convincere Kiev a cedere territori e gli europei a non protestare – mentre da parte loro gli europei erano lì proprio per spingere il presidente USA a non cedere troppo alla Russia. Certo, i termini dell’accordo possono essere ancora limati, ma la sostanza è difficile che cambi.

Si ritorna così al punto di partenza di questa analisi, che è diventato emblematico della fase attuale del conflitto: Trump sa che un accordo non è affatto scontato, i fragili ponti costruiti tra Mosca e Kiev potrebbero crollare da un momento all’altro. Durante la giornata, che ha comunque definito «storica», Trump si è mostrato disposto a parlare con tutti ma senza mai rinunciare all’auto-esaltazione e agli elogi degli ospiti. I quali, sia che si tratti di Zelensky sia degli europei, ormai si sono rassegnati al fatto che per trattare con Trump bisogna ringraziarlo di continuo, quasi come fosse un intercalare. Sotto il cielo basso dell’Alaska l’atmosfera era stata completamente diversa. Fin dal momento in cui Putin aveva messo piede sul suolo americano e camminato a lunghe falcate sui tappeti rossi stesi ai suoi piedi per spiegare all’omologo statunitense quali sono le condizioni per interrompere il conflitto subito.

Eppure l’ultima volta che Zelensky aveva varcato le porte della Casa Bianca, Trump, Elon Musk e i vertici di Washington avevano lanciato una vera e propria campagna diffamatoria contro il presidente ucraino definendolo prima «dittatore e comico mediocre» poi «presidente illegittimo». Sulle prime Zelensky aveva incassato: «Trump non è stato simpatico nei mei confronti, ma non me la prendo, c’è ben altro in gioco» aveva dichiarato il 23 febbraio, con un’alzata di spalle. In quel clima aveva insistito per un incontro ed era atterrato a Washington cinque giorni dopo. Lì si era consumato il tentativo di umiliarlo in mondovisione, con il concorso del vice-presidente JD Vance e di qualche giornalista compiacente che lo aveva criticato anche per il suo vestiario. Vance l’aveva accusato direttamente di essere «irrispettoso» verso i cittadini degli Stati Uniti. E poi c’era stato il famoso «non hai le carte» pronunciato da Trump col fare di un vecchio boss di fronte a una matricola. «L’imboscata» la chiamarono e poco dopo Trump ammise che era stata preparata a tavolino per tentare di «mettere pressione» all’omologo ucraino.

Ma Zelensky si è rivelato un buon negoziatore, sangue freddo e risposta pronta solo quando necessario. È evidente che l’avevano sottovalutato. Poi c’è stato il funerale di Papa Francesco e l’incontro a San Pietro, l’annuncio dell’ultimatum a Putin di 50 giorni, ridotto poi a 10, le telefonate cordiali, i complimenti pieni di punti esclamativi.

Stavolta è stato diverso: il presidente ucraino non era solo ed era evidente che gli europei fossero stati invitati per rassicurarlo e non dare l’impressione di una nuova trappola, orchestrata per consegnare un aut-aut o additarlo come chi non voleva la pace. Quando Zelensky si è presentato in sala stampa con il completo nero, Biran Glenn, lo stesso giornalista che a febbraio lo aveva ripreso pubblicamente per non aver indossato un completo, accusandolo di «mancare di rispetto al presidente degli Stati Uniti» ha preso la parola per complimentarsi e scusarsi dei toni della volta precedente. «Mi ricordo di te» ha detto Zelensky, impassibile, «io mi sono cambiato però tu sei sempre vestito uguale». Trump ha approvato, sorridente e tra i due si sono tenuti diversi scambi di battute in un clima di grande cordialità.

Lo stesso giorno, poco prima delle 9 della mattina del 19 agosto (le 15 in Italia) l’inviato speciale della Casa Bianca per l’Ucraina, Keith Kellogg, era stato visto varcare la soglia dell’Hay-Adams Hotel. Non è un caso che sia Kellogg, e non Steve Witkoff, ad aver ricevuto il compito di preparare Zelensky. L’ex-generale e consigliere di Trump durante il suo primo mandato è stato l’ideatore della strategia del tycoon per l’Ucraina. Il piano di Kellogg, in estrema sintesi, prevedeva di diminuire le forniture ucraine (fino a interromperle) se Kiev si fosse rifiutata di trattare, ma di aumentarle progressivamente se a rifiutarsi fosse stata Mosca. Se guardiamo ai fatti e alle dichiarazioni pubbliche di Trump degli ultimi mesi è evidente come quel piano sia stato l’unico faro delle mosse diplomatiche degli USA, seppure con alcune variazioni che non hanno stravolto l’obiettivo finale.

Purtroppo per Washington, però, Kellogg non è mai piaciuto a Mosca e infatti, fin dalla prima riunione al Cremlino Trump ha deciso di mandare Witkoff, che in teoria sarebbe l’inviato speciale per il Medio Oriente, ma in pratica è diventato l’uomo delle situazioni più delicate. Inoltre, Witkoff era la figura giusta per poter trattare di affari, così come chiedono i vertici russi fin dal primo colloquio. La controparte è stata talmente contenta che in meno di sei mesi Witkoff è stato a Mosca ben cinque volte, accolto sempre a braccia aperte. La scelta di inviare Kellogg da Zelensky, dunque, nasce dalla volontà di tenere separati i piani e di non indispettire quest’ultimo.

Putin accoglie Witkoff a Mosca il 6 agosto.

 

Nell’incontro preliminare tra Trump e Zelensky i due inviati speciali erano presenti entrambi. Bisognava spiegare bene al leader ucraino tutto il quadro. Cosa avrebbe potuto ottenere e cosa, invece, gli costerebbe continuare la guerra. Al momento non è stata presa alcuna decisione ma si tratta sulle modalità in cui il gruppo dei “volenterosi”, guidato da Francia, Germania, Gran Bretagna, Italia, a cui si è aggiunta a Washington la Finlandia in rappresentanza dei paesi baltici, intendono organizzare le garanzie di sicurezza.

 

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Al momento sembra che ci siano due opzioni: quella caldeggiata da Parigi, Londra e Berlino, ovvero l’invio di truppe europee direttamente sul territorio ucraino, con la protezione aerea USA. E la via italiana che prevede l’applicazione di una sorta di Articolo 5 della NATO (ovvero l’intervento dei Paesi alleati al fianco di chi è attaccato, che comunque non è di tipo automatico secondo il Trattato Nordatlantico) a Kiev in caso di una nuova aggressione russa.

Putin ha sempre e categoricamente dichiarato che non accetterà la presenza di soldati occidentali in Ucraina, quindi la prima ipotesi sembra di difficile attuazione. Intanto si tratta per decidere la sede dell’eventuale incontro bilaterale tra Zelensky e Putin, quello in cui «discuteremo davvero dei territori» come ha dichiarato il presidente ucraino. Il presidente francese Macron ha proposto Ginevra, in Svizzera, e il ministro degli Esteri della Federazione elvetica si è affrettato ad appoggiare la candidatura, dichiarando che Berna garantirà l’immunità a Putin. Il problema ulteriore, infatti, è che la Corte Penale Internazionale ha emesso un mandato d’arresto per il presidente russo e se questi dovesse atterrare in uno dei Paesi che riconoscono la CPI (come la Svizzera, ma non gli USA), la polizia locale sarebbe tecnicamente obbligata ad arrestarlo e a consegnarlo a L’Aja.

Da Kiev a Mosca, passando per Bruxelles e Washington, tutti sono consapevoli che gli accordi per la fine della guerra in Ucraina ridisegneranno gli equilibri nel Vecchio Continente. I membri dell’UE, Francia in testa, cercano in ogni modo di non essere condannati all’inconsistenza e per questo sono costretti ad alzare la posta. Mosca attende, forte del buon esito dei recenti colloqui con Trump e di eventuali sponde impreviste, come quella della Cina.

Washington fa da tramite, già pronta ad addossare la colpa al capro espiatorio di turno se le trattative dovessero arenarsi. Nel mezzo resta l’Ucraina, dove i civili continuano a morire a causa dei bombardamenti russi e i militari cadono a migliaia ogni settimana per conquistare o difendere un nuovo pezzo di terra che i loro presidenti potranno, forse, pesare quando sarà il momento vero di firmare un trattato.