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La costituzione egiziana come strumento di regime

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Anche la matematica, in Egitto, è diventata spudoratamente autoritaria. E’ questa l’ultima denuncia lanciata dagli analisti del Carnegie Endowment for International Peace: i conti del recente referendum indetto in fretta e furia dal regime egiziano, per approvare gli emendamenti costituzionali redatti da quel parlamento che sarebbe più corretto chiamare l’Istituzione che vidima le richieste dell’esecutivo, non tornano.

Secondo gli organizzatori, durante la convocazione (indetta 72 ore dopo l’approvazione del Parlamento e durata dal 22 al 24 aprile) sarebbe andato alle urne il 44 % degli elettori egiziani, che nell’88% dei casi avrebbe detto “sì”, cambiando la Costituzione in maniera tale da garantire la permanenza al potere del presidente Al-Sisi per i prossimi dodici anni. Quello che sorprende gli analisti non è la maggioranza bulgara del successo – ormai una costante delle “elezioni” egiziane – ma il dato sull’affluenza, che sarebbe stata addirittura più alta di quello storico 42% registrato nel referendum del 2011, all’indomani della caduta di Hosni Mubarak, nel breve periodo di entusiasmo e illusione democratica attraversato dal paese. Quell’appuntamento elettorale è ancora vivo nella memoria degli egiziani per le lunghe file davanti alle urne, affrontate dai più anziani con sgabelli portati da casa.

Un enorme stendardo promozionale per il referendum costituzionale egiziano

 

Stavoltà però, nonostante le derrate alimentari distribuite davanti ai seggi e le notizie di autobus organizzati appositamente per portare la gente a votare, le lunghe file davanti ai seggi non ci sono state – la maggior parte degli elettori ha dichiarato di aver votato in meno di un minuto. Numeri fantasiosi danno quindi legittimità all’evento elettorale che ha nei fatti incoronato il presidente Abdel Fattah Al-Sisi come uomo solo al comando, consacrando il predominio dei militari, erodendo l’autorità della Magistratura e il principio della separazione dei poteri.

Gli emendamenti più controversi sono infatti quelli che riguardano il presidente della Repubblica. La versione finale del discusso nuovo articolo 140 prevede un massimo di due mandati presidenziali di sei anni, invece che di quattro. Dopo una querelle che in prima battuta aveva paventato la possibilità – per Al-Sisi – di rimanere al potere fino al 2034, si è infine arrivati alla data limite del 2030. L’articolo 140 è stato accoppiato al 214, ovvero quello che governa la transizione e stabilisce che il mandato iniziato dal presidente Al-Sisi nel 2018 duri sei anni – senza bisogno di nuove elezioni – e che l’ex generale (che nel 2018 ha già terminato il suo primo mandato) possa essere rieletto per un altro mandato. Questi emendamenti sono stati particolarmente discussi non solo perché ogni estensione del mandato presidenziale risveglia il fantasma della tradizionale longevità dei vecchi presidenti-faraoni, ma anche perché sembra essere in rotta di collisione con la Costituzione del 2014, ovvero quella concepita dopo il golpe. Secondo la Carta infatti, ogni modifica degli articoli relativi ai poteri presidenziali deve essere accompagnato da maggiori garanzie di libertà politiche.

Anche se questi articoli relativi al futuro di Al-Sisi (ma varranno anche per i presidenti successivi) sono stati tra i più raccontati dai media internazionali, ve ne sono altri che mettono fine alla separazione dei poteri in Egitto. La Magistratura viene messa sotto controllo con il nuovo articolo 185, che affida formalmente a ogni entità giudiziaria il compito di gestire i propri affari, riservando però al presidente della Repubblica il compito finale di nominare i vertici del potere giudiziario. Gli articoli 189 e 193 danno al presidente anche il potere di selezionare i vertici della Corte Suprema Costituzionale e il procuratore generale.

Ad accrescere è anche il potere dei militari, che arrivano ad assumere una posizione sopra la legge e la Costituzione. L’articolo 200 affida infatti all’esercito il dovere di proteggere la Costituzione, la democrazia e la natura civile dello stato. Una formula che conferisce legittimità a un’eventuale interferenza dell’esercito nel processo politico.Queste modifiche al testo Costituzionale erano in parte prevedibili già all’indomani della stesura della nuova Carta nel 2014, un documento nato per essere emendato. L’elemento più applaudito all’epoca – ovvero il limite ai mandati presidenziali che doveva scongiurare il ritorno di presidenti-faraoni (un quindicennio per Nasser, un ventennio per Sadat, un trentennio per Mubarak tra il 1956 e il 2011) – era scritto in modo tale che molti costituzionalisti avevano già scommesso su modifiche che avrebbero annullato la portata rivoluzionaria di quell’articolo. Ora che questo è avvenuto, con una sola mossa sono stati cancellati non solo gli scarsi successi incassati da Piazza Tahrir nel 2011, ma anche quelli della cosiddetta rivoluzione correttiva del 1971, evento che costrinse l’autoritarismo egiziano di matrice socialista e panarabista, inaugurato da Nasser, a circoscrivere il ruolo dell’esercito, decentralizzare e garantire – almeno formalmente – una certa autonomia alle istituzioni. Ora di tutto ciò è stata fatta tabula rasa.

Il referendum, però, ha segnato anche la ripresa – pur faticosa – dell’attività dell’opposizione, che negli ultimi sei anni è stata schiacciata dalla quotidiana repressione. Già lo scorso gennaio, oltre mille egiziani – tra i quali celebri personaggi pubblici – hanno firmato una dichiarazione per dirsi contrari a ogni eventuale estensione del mandato di Al-Sisi.  Questo ha portato alla nascita del  Movimento civico democratico – una coalizione che include figure come Hamdeen Sabbahi, l’ex sfidante del presidente islamista Mohammed Morsi (in carcere dopo il golpe del 2013), e l’ex deputato Mohammed Anwar Sadat dimessosi anni fa per protesta. Dopo che il regime gli ha impedito di organizzare una manifestazione pubblica, il Movimento ha indetto una conferenza stampa durante la quale ha descritto gli emendamenti come un assalto alla democrazia. Non potendo farsi strada nelle piazze, né tanto meno sui media tradizionali, la campagna per il “no” ha cercato quindi di diffondersi nell’arena virtuale, dove i cittadini sono stati invitati a votare, piuttosto che a boicottare. Su siti e pagine Facebook come l’ormai celebre Al-Mawqif al-Masry è circolata la petizione Batil, una raccolta firme che definendo invalidi gli emendamenti proposti ha raccolto in pochi giorni 700 mila firme. Un successo non tollerato dal regime che ha ordinato la chiusura di migliaia di siti dove la petizione stava circolando.

L’opposizione si è fatta sentire anche nella diaspora. A Washington, egiziani ed egiziani-americani hanno lanciato il 24 e il 25 marzo una campagna di advocacy atta a spiegare ai legislatori del Congresso USA i rischi derivanti dagli emendamenti proposti. Ai circa 200 eventi organizzati hanno partecipato cittadini, attivisti e anche artisti. Tra loro anche i celebri Amr Waked e Khaled Abol Naga, attori che hanno pagato la loro presa di posizione con l’espulsione dal loro ordine professionale e con l’ennesima campagna diffamatoria andata in onda sui media lealisti.