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La contestata leadership di Lula e la democrazia brasiliana

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Dopo circa quattro ore di caos è tornata la calma a Brasilia, dopo l’assalto di alcune migliaia di supporter dell’ex presidente Jair Messias Bolsonaro alle sedi istituzionali della capitale: il Parlamento, la Corte Suprema federale e il palazzo presidenziale. Potendo contare su una protezione quasi nulla da parte delle forze di polizia, i bolsonaristi, che rifiutano di riconoscere la vittoria elettorale di Luiz Inacio Lula da Silva alle presidenziali di ottobre, hanno invaso e vandalizzato i palazzi del potere, situati nei celebri edifici disegnati da Oscar Niemeyer, durante la giornata dell’8 gennaio, in un atto che non può non ricordare l’assalto al Congresso degli Stati Uniti compiuto dai sostenitori di Donald Trump il 6 gennaio 2021, con motivazioni e modalità piuttosto simili. Una differenza di qualche rilievo è però che il Parlamento di Brasilia non era in seduta, Bolsonaro era all’estero (in Florida) e lo stesso Lula non era in città.

I bolsonaristi intorno alle sedi istituzionali brasiliane

 

Dopo alcune ore di confusione le forze dell’ordine hanno infine evacuato gli assalitori; non si contano, però, le accuse di favoreggiamento al governo del Distretto Federale di Brasilia, additato come complice dell’atto insurrezionale per non aver saputo difendere le sedi istituzionali del Paese. Infatti, elemento piuttosto inquietante, gli assalitori hanno dovuto superare soltanto un cordone di una dozzina di poliziotti per raggiungere il loro obbiettivo, e ci sono volute diverse ore prima che le forze dell’ordine intervenissero. In un video, il governatore regionale di Brasilia si è scusato con Lula per “aver sottovalutato” l’eventualità di un evento del genere; ciononostante, la Corte Suprema ha ordinato la sua rimozione per 90 giorni, mentre la Procura nazionale ha chiesto l’arresto del responsabile per la sicurezza della capitale (ministro della Giustizia durante gli ultimi sette mesi di mandato di Bolsonaro) e per ordine di Lula le forze dell’ordine locali sono passate sotto il controllo statale.

Lula solo una settimana fa aveva assunto ufficialmente l’incarico del suo terzo mandato, in una cerimonia salutata da migliaia di sostenitori festanti che sembrava aver spento le tensioni montanti da mesi; è arrivato nella capitale brasiliana in tarda serata per constatare i danni alle sedi istituzionali, ma già nelle ore precedenti aveva denunciato l’azione di “vandali e fascisti fanatici”. Aveva poi promesso che gli assalitori sarebbero stati tutti “trovati e puniti”, perché sia chiaro che “nessuno, soltanto perché porta sulla schiena una bandiera o ha indosso una maglietta della nazionale di calcio, possa chiamarsi patriota e abbandonarsi a simili atti”. Gli stessi assalitori hanno caricato sui social media un gran numero di video che coprono tutti i momenti dell’attacco alle sedi istituzionali brasiliane, cosa che permette una facile identificazione dei partecipanti; in effetti, molti di loro sventolavano la bandiera o indossavano una divisa della Seleção, diventata negli ultimi anni una specie di uniforme non ufficiale delle proteste di piazza contro il governo, poi assunta più di recente dai bolsonaristi come segno di identificazione.

Selfie durante l’assalto

 

“Anche chi ha finanziato queste manifestazioni pagherà per gli atti antidemocratici e irresponsabili commessi dai rivoltosi”, aveva precisato Lula, lasciando intendere che l’assalto a Brasilia fosse stato chiaramente organizzato e pianificato nelle scorse settimane. Alcuni, in Brasile, ipotizzano che a sostenerlo siano stati persino dei membri dell’esercito; d’altronde, lo stesso Bolsonaro per tutta la durata del suo mandato aveva ripetutamente “tirato la giacchetta” ai militari, facendo capire che sarebbero dovuti intervenire “in caso di elezioni truccate”.

Dopo l’ordine di intervento della polizia, che ha portato a centinaia di arresti, molti degli assalitori erano rimasti nelle vicinanze delle sedi istituzionali, appellandosi all’intervento dell’esercito (contro Lula, per deporlo). Per tutte le scorse settimane, i bolsonaristi si erano accampati davanti alle caserme dell’esercito brasiliano nella capitale per provocare una presa di posizione dei generali contro il risultato elettorale. Presa di posizione che non c’è stata né nelle scorse settimane, né ora. Proprio dall’accampamento di fronte al quartier generale dell’esercito a Brasilia sono partiti in corteo gli assalitori diretti alle sedi istituzionali l’8 gennaio.

Dopo molte ore dall’attacco, anche Bolsonaro aveva commentato, con ambiguità, che “saccheggi e invasioni di edifici pubblici non fanno parte della democrazia”, mettendoli però sullo stesso piano di altre manifestazioni della sinistra anti-governativa del 2013 e del 2017. E aveva rigettato le accuse di Lula (“senza prove”) di essere il mandante dell’assalto. Mentre i suoi sostenitori invocavano il colpo di stato militare, Bolsonaro già alla fine dell’anno aveva lasciato il Brasile, destinazione Florida, dove pare si trovi tuttora, e aveva dunque mancato la cerimonia del passaggio dei poteri al suo successore Lula, di cui non ha mai riconosciuto direttamente la vittoria elettorale. Una decisione descritta come una fuga, una negazione della realtà, o un tentativo di togliere legittimità al vincitore: il presidente uscente, intanto, non trascurava però di elencare ogni giorno sui social media, ossessivamente quanto polemicamente, i traguardi raggiunti dal suo governo.

Anche per la loro somiglianza con l’assalto al Congresso di Washington, gli eventi brasiliani hanno avuto una grande eco in tutto il mondo, in particolare negli USA. Tra le reazioni più decise c’è stata subito quella del presidente americano Joe Biden, che ha definito “scandalose” le violenze dei bolsonaristi e ha condannato l’attentato alla democrazia portato dagli assalitori, offrendo tutto il suo sostegno alle istituzioni brasiliane e a Lula. Il Partito Repubblicano, a cominciare dal nuovo Speaker della Camera Kevin McCarthy, ha scelto invece un imbarazzato silenzio, a testimonianza di come la destra americana non abbia ancora fatto i conti con i fatti del 6 gennaio 2021. Steve Bannon, l’ex consigliere di Donald Trump e punto di riferimento per la galassia internazionale della destra nazional-populista, non ha nascosto la sua soddisfazione per l’assalto alle sedi istituzionali brasiliane, accusando il “marxista-ateo Lula” di aver “rubato le elezioni” e augurandogli di fare “la fine di tutti i dittatori comunisti”.

Il Washington Post aveva già ricostruito come Trump e vari suoi consiglieri, insieme a Bannon e alla famiglia Bolsonaro mantenessero continui contatti in Florida, fin dai giorni successivi al voto brasiliano, nella scia di una vicinanza politica solida e duratura. Oggi, i deputati Democratici Alexandria Ocasio-Cortez e Joaquin Castro chiedono l’estradizione di Bolsonaro dal territorio degli Stati Uniti.

Soprattutto dai paesi latinoamericani governati dalla sinistra democratica (come Messico, Colombia, Cile, Argentina) sono piovuti gli attestati di solidarietà a Lula e le accuse di fascismo, golpismo e terrorismo a Bolsonaro e ai suoi. Prese di posizione in favore di Lula e per il rispetto delle istituzioni democratiche e di condanna per le violenze commesse sono arrivate anche dalle istituzioni UE e dai principali governi europei, oltre che tra gli altri dal presidente indiano Narendra Modi e da quello canadese Justin Trudeau, e persino dai rappresentanti di Russia e Cina. Ma anche molti politici brasiliani alleati di Bolsonaro, come il presidente del Partito Liberale Valdemar Costa Neto, si sono dissociati dall’assalto di Brasilia, sebbene il Partito Liberale avesse finora seguito Bolsonaro sulla strada della contestazione della regolarità delle elezioni.

Lula sui luoghi dell’assalto

 

“Ora ricominciamo a lavorare. Democrazia sempre”, ha chiosato Lula su Twitter. Paradossalmente, la rete sociale acquistata da Elon Musk ha riabilitato nelle sorse settimane molti account bolsonaristi o complottisti chiusi per diffusione di notizie false e ha smantellato la divisione speciale che a Sao Paulo si occupava di contrasto alla disinformazione e all’incitazione alla violenza. Musk stesso l’aveva presa di mira direttamente in un tweet, accusandola di “essere di sinistra”; pochi mesi prima, dopo averlo incontrato, Bolsonaro aveva definito Musk “da sposare”.