La Cina nella nuova equazione petrolifera globale
Il prezzo del petrolio è tornato ad aumentare, passando dai circa 60 dollari al barile di inizio anno a quasi 80 a fine maggio. Tra le cause di questo aumento si possono sicuramente includere eventi recenti quali l’annuncio da parte degli Stati Uniti di abbandonare l’accordo sul nucleare iraniano (che potrebbe portare, con nuove sanzioni, ad una sensibile diminuzione dell’output di greggio da parte di Teheran), e l’aggravarsi della crisi politica venezuelana (un altro grande produttore non-OPEC).
Tensioni geopolitiche nei paesi produttori possono senza dubbio, sul breve periodo, comportare aspettative negative sul mercato dei future, con ulteriori aumenti simili a quello in atto. Ma la formazione del prezzo del petrolio, e gli elementi che lo influenzano sul lungo periodo, sono il risultato di una serie più complessa di fattori. Il crollo più significativo del prezzo del petrolio di fine 2014-inizio 2015, ad esempio, è avvenuto prima che l´accordo sul nucleare iraniano del luglio 2015 permettesse al greggio di Teheran di rientrare sul mercato e quindi avere un effetto al ribasso sul prezzo. A converso, l’attuale aumento si inserisce in un trend al rialzo in corso già da agosto 2017.
In effetti, il prezzo del petrolio è in maniera crescente un vero prezzo di mercato, che reagisce da un lato alle trasformazioni sul lato dell´offerta e della domanda, e dall´altro alla speculazione finanziaria e all´andamento del dollaro. L’apprezzamento della valuta americana, ad esempio, è da includere fra le cause che hanno condotto al lento rialzo degli ultimi mesi, culminato nell´improvviso picco delle ultime settimane.
Tra tutti questi fattori, tuttavia, il peso della domanda dei paesi in via di sviluppo e soprattutto quella cinese ha giocato negli ultimi due decenni un ruolo chiave nel determinare l´andamento del prezzo.
La domanda globale di petrolio ha raggiunto più di 99 milioni di barili al giorno nella prima metà del 2018, con un significativo aumento rispetto al 2017, quando essa raggiungeva i 97 milioni. Di questa domanda, circa la metà proviene dall’Asia in via di sviluppo (quota che ovviamente sale ancora se si includono anche Giappone e Corea del Sud nel calcolo): è da ricondursi in gran parte al fabbisogno indiano e ancor più cinese. Spinta da questi due paesi, la domanda di greggio dell´Asia in via di sviluppo supererà i due terzi del fabbisogno mondiale nel 2040 (dati International Energy Agency).
Pechino è divenuta importatrice netta di petrolio nel 1993 e, dal 2015, è la maggiore importatrice di petrolio al mondo, avendo superato gli Stati Uniti, assumendo così avendo un ruolo preminente sul mercato e su prezzi globali. A metà 2018, la domanda cinese oscilla fra i 9 e i 12 milioni di barili al giorno – dunque il 10% dell’intera domanda globale.
Già nel decennio 2000-2010, la Cina contribuì alla crescite dei prezzi del petrolio da 30 a 150 dollari al barile, con l’aumento sostenuto della sua domanda. Particolarmente nel periodo sino al 2008-2010, , la domanda cinese, come quella di molti paesi in via di sviluppo, si è dimostrata inelastica nel breve periodo perché spinta dal fabbisogno industriale. Ossia, benché i prezzi continuassero a crescere, anche la richiesta di energia cresceva, spinta dal parallelo aumento del prodotto interno lordo.
E anche quando il prezzo del petrolio è crollato da 115 dollari al barile nel 2014 a poco meno di 30 nei primi mesi del 2015, la domanda cinese, in presenza di una ripresa economica ancora anemica nei paesi sviluppati OECD, ha garantito ai produttori tradizionali (OPEC e non OPEC) uno sbocco in un mercato globale in sovrapproduzione.
Il contesto energetico internazionale è però mutato in questi anni. Il mercato del petrolio si trova, rispetto al decennio 2000-2010, in una fase di transizione: da un mercato definito solo dai produttori, dalle grandi major e dalla speculazione (in cui la domanda aggregata giocava un ruolo passivo e di price-taker), siamo passati ad una situazione più direttamente influenzata dal comportamento dei consumatori, soprattutto nelle economie emergenti dell’Asia. Ciò dipende da una trasformazione in corso sul lato dell’offerta e della produzione, come anche sul lato della domanda nelle economie emergenti, in cui appunto la Cina gioca un ruolo da protagonista.
Sul lato dell’offerta e della produzione, si è avuta una sensibile riduzione del peso del cartello OPEC (che controlla oggi solo circa un terzo della produzione mondiale di petrolio), a favore di produttori non OPEC e segnatamente Russia, Paesi dell’Asia Centrale, Venezuela, Nigeria. L’OPEC da sola, non può, cioè, aumentare la produzione in maniera tale da coprire larga parte della domanda globale e, dunque, non può più da sola, influenzare il prezzo del petrolio; vi sono poi fattori finanziari quali l’andamento del dollaro (il cui apprezzamento si riflette in un aumento simmetrico del prezzo del petrolio), e la speculazione sui mercati future delle materie prime, (che ha caratterizzato la fase del boom incontrollato culminato nella crisi del 2008); infine, dal 2014, si è avuto l´ingresso sul mercato globale delle imprese produttive americane di shale oil. I margini di profitto di queste imprese, inizialmente ridotti a causa degli alti costi di produzione, richiedevano un prezzo del petrolio intorno agli 80-90 dollari al barile. In un periodo di prezzi ancora alti, prima dello shock del 2015, esse con la loro produzione hanno inizialmente contribuito ad una “iperofferta”, che di conseguenza ha portato al seguente crollo del prezzo.
Questa spirale è stata rafforzata dalla decisone dell´Arabia Saudita, dell´OPEC e, solo in seguito, anche dei produttori non OPEC come la Russia, di non tagliare la produzione. In presenza di un crescente numero di produttori e competitor e di una impossibilità da parte dei produttori OPEC e non OPEC di influenzare unilateralmente l’andamento del prezzo, il taglio, anche congiunto, alla produzione avrebbe, infatti, avuto, nell’immediato, un effetto abbastanza modesto sul prezzo ma avrebbe però portato a perdite di quote di mercato a vantaggio proprio dei nuovi arrivati.
Il crollo del prezzo del petrolio nel 2014-2015 è giunto quindi a seguito di una crisi di sovrapproduzione: molte imprese di shale oil sono in effetti fallite o hanno sapientemente sospeso la produzione (provocando una ulteriore diminuzione dell´output globale che ha, questa si´contribuito a ricalibrare verso l´alto il prezzo), mentre altre hanno ottimizzato e ridotto i costi di produzione, potendo così rimanere sul mercato anche a un prezzo medio di circa 60-65 dollari al barile.
In tal modo gli Stati Uniti dal 2016 sono diventati esportatori netti di petrolio – con 2,6 milioni di barili al giorno. Sul lato dell´offerta, dunque, si è creata una situazione quasi paradossale: sono ora i produttori con le condizioni produttive più svantaggiate, quali le imprese di shale oil, a contribuire maggiormente alla formazione del prezzo – e non quelle che producono a costi per barile più bassi, come l´Arabia Saudita.
A questa aumentata competizione su prezzo e quote di mercato, dal lato dell´offerta, si affianca poi la trasformazione nella composizione della domanda aggregata di petrolio, soprattutto nel più grande mercato, cioè quello cinese.
Qui una serie di cambiamenti strutturali stanno anche rendendo il prezzo del petrolio più volatile nel breve periodo. Infatti, nel decennio 2000-2010, la crescita della domanda cinese di petrolio è stata trainata dalla domanda industriale (in un periodo di grande espansione della manifattura cinese), generalmente poco elastica rispetto alle variazioni di prezzo. Oggi invece la domanda cinese proviene in buona parte dai consumatori privati e dalle raffinerie. L´aumento esponenziale della mobilità a combustione tradizionale, accompagnata tuttavia da incentivi massicci alla diffusione dell´auto elettrica o a carburanti clean, rendono la domanda cinese allo stesso tempo più variegata e più sensibile alle variazioni di prezzo. Un trend che si registra già da tempo nelle economie più avanzate.
Contemporaneamente, si è realizzato un aumento delle capacità di raffinazione in Cina, il cui export di prodotti petroliferi si è accresciuto insieme alla vendita di prodotti raffinati in patria, mentre resta sostenuta anche la domanda nel settore industriale-petrochimico. Siamo di fronte, dunque, a un forte aumento nell´import cinese di greggio in una fase di contrazione dell´export dai paesi OPEC: in sostanza, la diversificazione delle vie di approvvigionamento e dei paesi fornitori ha ridotto la dipendenza dal Medio Oriente e rafforzato alternative continentali (Russia e Paesi dell’Asia centrale) più flessibili. L´effetto combinato di queste trasformazioni spinge ulteriormente il mercato verso un maggior ruolo dei consumatori e una crescente competizione fra produttori.
La domanda cinese, in conclusione, sarà ancora decisiva nel garantire un prezzo medio relativamente alto nel corso dei prossimi decenni. Ma la sua crescente elasticità e capacità di sostituzione funzionerà in parte anche come correttivo in fasi di picchi particolarmente elevati, come nel caso di shock geopolitici o finanziari, grazie alla maturazione del suo mercato interno e alla diffusione di alternative all’uso del petrolio – come le auto elettriche e le fonti rinnovabili di energia per alimentare il sistema industriale.