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La calda estate di Donald Trump

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Granitico al suo interno. Molto più fragile, e volatile, all’esterno. Donald Trump esce dalla Convention repubblicana di Milwaukee, pochi giorni dopo l’attentato subito in Pennsylvania, con un controllo pressoché totale sul Partito Repubblicano. Molto più incerta è la tenuta del suo messaggio al di fuori delle truppe dei militanti repubblicani. La scelta del vice, JD Vance, e il confronto con una nuova candidata democratica (a meno di nuove sorprese, con il vantaggio non indifferente di essere Vicepresidente), sembrano infatti complicare la sua avventura elettorale. Trump resta, come ha recentemente detto lo stratega democratico David Axelrod, “favorito in modo piuttosto sostanziale alla Casa Bianca”. Sicuramente, gli ultimi giorni di luglio frenano la sua corsa e rivelano alcuni elementi critici.

 

La Convention di Milwaukee del 15-18 luglio ha sancito soprattutto una cosa. Il vecchio G.O.P. non esiste più. Esiste il partito di Donald Trump. Non è solo l’arrivo a Milwaukee dei suoi ex nemici, per rendergli omaggio – da Nikki Haley a Ted Cruz a Ron DeSantis – a mostrare come Trump abbia vinto. C’è molto di più. Oggi Trump controlla la macchina amministrativa e finanziaria del partito: chair, co-chair, finance chair del Republican National Committee, Michael Whatley, Lara Trump, Duke Buchan, sono sue emanazioni. Trump controlla la selezione di deputati, senatori, governatori. Chi non si sottopone alla sua autorità, difficilmente riesce a essere eletto. Ma Trump controlla anche il messaggio del G.O.P., che è qualcosa di ormai profondamente diverso dagli elementi conservatori sul piano fiscale, moderati sui diritti, saldamente atlantisti, che sono stati importanti per decenni nel partito. Il populismo isolazionista in economia, il suprematismo dell’America First, il feroce radicalismo contro gli immigrati, la prudenza sull’aborto si sono allargati dal programma di Trump a tutti i settori repubblicani.

Da questo punto di vista, girare per il Fiserv Forum di Milwaukee, dove si è tenuta la Convention, è stata un’esperienza singolare. Spariti tutti i vecchi segni fisici, materiali, della galassia repubblicana. Difficile trovare una spilletta con uno slogan pro-choice. Impossibile scorgere la bandiera di un libertarian. Praticamente assenti cartelli o manifesti perfino sulla difesa del Secondo Emendamento, quello sulle armi. Nessun riferimento ai “grandi” del passato, da Lincoln a Reagan. Tutta la gadgettistica, tutta l’immagine repubblicana si risolve ormai nel volto di Trump e nel suo messaggio per l’America.

Quel ciclone ha fatto piazza pulita di vecchie correnti e storiche tradizioni del pensiero conservatore USA, e ha costruito un partito che, sotto il controllo del leader supremo, si è fatto molto più interclassista e interetnico rispetto al passato. Massiccia la presenza, tra i delegati soprattutto del Sud e dell’Ovest, di esponenti della working class. E totalmente inedita, per una Convention repubblicana, la presenza di così tanti afroamericani, sia tra i delegati sia tra i semplici militanti. Il recente tentato omicidio del 13 luglio ha accentuato poi l’immagine di Trump “uomo del destino”, graziato da una sorta di intervento divino. Come spiegava un delegato dell’Arkansas, poco prima del discorso di fine Convention di Trump: “È Dio che ha sviato quella pallottola. È Dio che lo vuole presidente degli Stati Uniti”.

La platea della Convention

 

Trump è dunque uscito da Milwaukee con il vento in poppa, soprattutto se raffrontato al dramma senza fine di Joe Biden. Nel giro di qualche ora, le cose sono però cambiate. L’addio di Biden, il rapido ricomporsi dei Dem attorno a Kamala Harris hanno rimescolato le carte. La campagna di Trump era preparata a dare battaglia contro un presidente uscente di 81 anni, debole, rigido, incapace non solo di indicare un percorso verso la vittoria ma anche di rivendicare quanto fatto in tema di economia, inflazione, lavoro, armi, uscita dalla pandemia, politica estera. Improvvisamente, appunto, Trump si è trovato di fronte una candidata (di 59 anni, nel pieno della carriera politica) capace di risollevare entusiasmi e speranze dei democratici, ma anche di usare contro di lui un argomento polemico di particolare forza retorica: quello di Trump “criminale”, braccato da Harris prosecutor, che lo vuole mettere dove merita. Non alla Casa Bianca, ovviamente, ma in una prigione federale.

 

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Di fronte a questa improvvisa svolta, la risposta di Trump, come ha fatto notare Michael Steele, ex chair del Republican National Committee, è stata quanto meno “incoerente”. Trump ha affibbiato a Harris l’etichetta di bugiarda. Durante i suoi comizi, in modo plateale, pronuncia male il suo nome e la descrive come una “folle radicale”, soprattutto in tema di aborto e immigrazione, attribuendole il titolo di “border czar”, zarina del confine di Biden, responsabile dell’arrivo di migliaia di criminali e stupratori dal Sud (Harris peraltro non è mai stata la “border czar” di Biden, era soltanto la persona demandata a coordinare i rapporti in tema di flussi migratori con i governi dell’America centrale e meridionale). Sappiamo che l’immigrazione e la gestione del confine sono tra i temi centrali di Trump, su cui batte con più insistenza e ferocia. Si tratta di attacchi violenti ma ancora estemporanei, non fissati in una strategia organica, e che peraltro rischiano di far perdere al candidato repubblicano quell’aura di “padre nobile” della nazione, vittima della furia persecutoria dei democratici, che Trump aveva saputo costruirsi nelle ore immediatamente successive all’attentato. Secondo un sondaggio Yahoo News/YouGov del 24 luglio, solo il 28% degli americani pensa che Trump sia uscito migliore, più aperto e capace di ascoltare, dopo il tentato omicidio di Butler, Pennsylvania.

Se le ore e i giorni successivi alla Convention di Milwaukee mostrano quindi un Partito Repubblicano saldamente riunito sotto la leadership di Trump, la figura pubblica del candidato resta praticamente la stessa: divisiva, incapace di “unire” l’America, inseguita dai soliti problemi con la giustizia. È un’immagine che ha il potere di infiammare ancor di più i suoi sostenitori, ma che fa molto poco per avvicinare a Trump quel mondo di moderati e indipendenti, senza i quali non può vincere queste elezioni.

C’è poi un altro problema, relativo alla figura di J.D. Vance. Alcuni repubblicani e conservatori – il senatore Lindsay Graham e l’editore Rupert Murdoch – avrebbero voluto come vice un personaggio capace di parlare proprio ai moderati, in grado di portare a Trump un elettorato che non ne ama caratteri e modi. Così non è stato con la scelta di Vance, la cui immagine politica e personale si sovrappone a quella di Trump (che infatti guarda a lui come possibile successore alla guida del MAGA) e che dunque “parla” più o meno agli stessi americani cui si rivolge Trump.

 

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Alla Convention di Milwaukee, l’autore di Hillbilly Elegy è apparso sobrio nei toni, durante il discorso di accettazione della candidatura a vice. Ma dal suo passato, stanno emergendo toni molto meno moderati: per esempio, quando ha definito Kamala Harris, e tutte le donne che non procreano, delle “gattare senza figli” (“childless cat lady”), incapaci quindi di battersi per il futuro dell’America. Probabile che altre battute come queste emergano, che vadano ad aggiungersi a ulteriori scoppi retorici di Trump, rendendo particolarmente “esplosivo”, e per nulla rassicurante, il percorso del ticket repubblicano vero il 5 novembre.