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La battaglia elettorale in Rete: “emailgate” e il fattore FBI

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Difficile quantificare, in termini di consenso, quanto la tecnologia abbia influito sull’andamento di questa campagna elettorale americana. Quel che è certo è che ha orientato, nel bene e nel male, un clima politico già arroventato.

Barack Obama aveva usato Internet e i social media per amplificare il suo messaggio come mai era accaduto prima, e soprattutto per organizzare e coordinare con efficienza le sue forze durante la campagna. La battaglia tra la Democratica Hillary Clinton e il Repubblicano Donald Trump è stata invece un esempio, il primo in una presidenziale americana, di utilizzo della Rete come uno strumento di attacco e delegittimazione sistematici.

A farne le spese è stata soprattutto l’ex Segretario di Stato, che ha visto indagate tutte le sue attività precedenti e attuali: da quella di governo a quella di partito, passando per l’impegno nella fondazione di famiglia. Oltre ai timori di hackeraggio ai sistemi di voto, e dopo l’offensiva contro i server del Comitato Nazionale Democratico che ha reso note conversazioni riservate e che è stata attribuita dall’intelligence americana a hacker al soldo di Mosca, a riemergere in questi giorni è una storia non freschissima, ma che rischia di avere strascichi perfino dopo il voto.

L’affare viene svelato per primo dal New York Times, nel marzo del 2015: quando era a capo della diplomazia, la Clinton si sarebbe avvalsa di un indirizzo email personale – dunque non protetto. La notizia esce in seguito alla richiesta del Congresso di leggere tutte le comunicazioni elettroniche passate dalla Clinton negli anni trascorsi al Dipartimento di Stato: sarebbero serviti all’inchiesta sull’attacco terroristico in cui nel 2012, a Bengasi, perse la vita l’ambasciatore Christopher Stevens. Dei messaggi inviati o ricevuti dal suo indirizzo privato, l’ex Segretario trasferisce agli inquirenti poco più di 30mila, mentre un numero altrettanto cospicuo, definito privato, era già stato eliminato.

Proprio allora l’FBI avvia un’indagine esplorativa, per stabilire se il comportamento di Hillary Clinton, che grazie all’utilizzo della casella di posta personale avrebbe messo a repentaglio la sicurezza delle informazioni da lì transitate, sia da considerare lesivo della sicurezza nazionale.

A luglio 2016 l’indagine viene chiusa perché il Bureau ritiene che non vi siano sufficienti elementi per dare il via a un’inchiesta formale contro la Clinton per conto del Dipartimento di Stato. Il direttore dell’FBI, James Comey, definisce “estremamente superficiale” il comportamento dell’allora Segretario di Stato, ma tutto sembra concluso.

Il 28 ottobre, a soli 11 giorni dall’Election Day, Comey cambia idea. Con una missiva indirizzata al Congresso, il direttore del Bureau, lavorando su un altro caso – precisamente quello dell’ex Deputato Anthony Weiner, marito della collaboratrice della Clinton Huma Abedin – spiega di aver appreso dell’esistenza di email che appaiono “pertinenti” alle indagini effettuate su Hillary Clinton. Non solo, c’è un altro elemento a infittire la trama: secondo il Washington Post, Comey e i più alti ranghi della polizia federale americana avrebbero saputo di questa novità già dall’inizio di ottobre, ma avrebbero atteso a loro discrezione di attendere alcune settimane prima di comunicarlo al Congresso.

Il 6 novembre, infine, a due giorni dal voto, un ulteriore colpo di scena: Comey si rivolge nuovamente al Congresso. Stavolta dicendo che Hillary Clinton non rischia nessuna incriminazione perché, come a luglio, la polizia federale non ha riscontrato nelle nuove email materiale compromettente.

La prima lettera di Comey ha comunque generato una valanga di attacchi e fughe di notizie che indicano falle evidenti nei processi decisionali dell’amministrazione americana. Non sono mancate polemiche e tensioni e liti conseguenti sulle procedure di governo e su quelle di indagine.

Ma, cosa più importante e del resto prevedibile, nonostante la nuova chiusura delle indagini, la mossa ha ottenuto l’effetto opposto a quanto avrebbe desiderato il Department of Justice, cioè il ministero che si occupa in parallelo della questione. L’FBI è precipitato al centro della contesa elettorale, e il polverone che ne è seguito ha finito per coinvolgere anche la Casa Bianca.

Le accuse reciproche e sempre più dure, e il recupero di Trump nei sondaggi, hanno spinto lo stesso Barack Obama a prendere posizione. Pur avendo in passato definito Comey un uomo “di integrità, di principio e di buon carattere”, Obama ha condannato la scelta di inviare quella comunicazione al Congresso a pochi giorni dal voto: “Non agiamo con informazioni incomplete. Non agiamo alimentando fughe di notizie. Agiamo basandoci su decisioni concrete”.

Molti vertici del Department of Justice hanno affermato che il comportamento di Comey viola una prassi interna ormai consolidata. Quella stessa prassi l’estate scorsa ha spinto l’FBI a non rendere di dominio pubblico un caso altrettanto scottante, riguardante le attività in Ucraina di Paul Manafort, ex direttore della campagna elettorale di Donald Trump.

Cosa abbia convinto Comey a scatenare questa bufera non è ancora chiaro. In una nota inviata dal capo dell’FBI ai suoi agenti – diffusa da Sari Horwitz sul Washington Post – lo stesso direttore si era detto consapevole della possibilità che tali rivelazioni, a ridosso delle elezioni, potessero dare una “impressione fuorviante”, data la loro vaghezza. Ciononostante non si è fermato; perché?

Mentre i suoi detrattori lo accusano di aver voluto offrire un irripetibile assist a Trump e di essersi voluto “posizionare” politicamente, i suoi difensori cercano di comprenderne le ragioni. Michele Gorman e Matt Cooper hanno rimarcato su Newsweek che Comey “non ha avuto scelta” poiché “le nuove informazioni erano successive alla sua testimonianza giurata sul caso: le regole del Dipartimento di Giustizia gli imponevano di mantenere le commissioni competenti al corrente”. Un comportamento contrario sarebbe equivalso a mentire sotto giuramento.

Tuttavia, sottolinea Vox, non si capisce perché il capo dell’FBI non abbia deciso di attendere per passare le informazioni al Congresso, essendo consapevole delle conseguenze politiche. Secondo la Horwitz, Comey potrebbe aver previsto che la fronda interna anti-Clinton, presente nell’FBI, avrebbe fatto in ogni caso trapelare le informazioni prima delle elezioni.

Non solo. A rafforzare questo punto di vista, opposto alla visione più ovvia, ci sono le parole di un alto funzionario di polizia, che ha parlato con Nbc News. Comey, che al Department of Justice con l’amministrazione di George W. Bush fu Procuratore aggiunto (la seconda carica per importanza del ministero), e dunque molto vicino ai Repubblicani, avrebbe inviato la lettera al Congresso per un “eccesso di cautela”. La sua scelta di chiudere le indagini a luglio gli era costata dure critiche dal Gop e anche Donald Trump  si era lamentato su Twitter che la mancanza di accuse nei confronti della Clinton rivelava un sistema “truccato”. Dunque la mossa di Comey sarebbe stata dettata non dall’intento di sfavorire la Clinton, ma di non scontentare troppo i Repubblicani prima del voto.

D’altra parte, c’è ancora un dato da considerare. Se dopo le elezioni fosse emerso che Comey era al corrente di informazioni sensibili per l’inchiesta e che deliberatamente le avesse tenute nascoste, sarebbe stato accusato di insabbiamento. Un pericolo che il direttore dell’FBI ha così inteso scongiurare, salvaguardando la sua reputazione e quella del Bureau, ma scatenando giocoforza l’ira e il “fuoco” dei Democratici.