international analysis and commentary

Joe Biden e l’idea prematura del “declino americano”

1,179

 In coincidenza con il discorso sullo “State of the Union” 2023, si può fare un punto sulla politica estera dell’amministrazione Biden da una specifica prospettiva: quella del presunto, atteso, inevitabile declino americano.

Joe Biden

 

Una necessaria premessa è che gli Stati Uniti continuano a soffrire di gravi problemi interni: questi investono l’intero apparato istituzionale, dal clima politico molto polarizzato nel Congresso, ma anche nei singoli Stati, fino alla Corte Suprema. Non sono le singole scelte di un’amministrazione a poter invertire una tendenza così marcata: è carente quel fattore cruciale per ogni democrazia che è la fiducia dei cittadini (o almeno di una larga maggioranza) negli organi di governo, e purtroppo la campagna presidenziale per il 2024 rischia di vedere ancora dibattiti durissimi contro un generico “establishment” che di fatto coincide proprio con le istituzioni. Il virus del trumpismo – a sua volta versione estrema del populismo in stile americano – non è affatto debellato e caratterizzerà ancora la vita del Paese, a meno che altri leader riescano ad emergere nel campo repubblicano e si prendano la grande responsabilità di portare il GOP fuori dall’avvitamento culturale in cui si trova. Non è impossibile, ma richiede notevole coraggio politico.

Intanto, anche il campo democratico è piuttosto frammentato al suo stesso interno, con un’ala sinistra del Partito che non ha alcuna simpatia per il Presidente in carica e poche affinità culturali con il suo team.

Vi sono, in realtà, anche alcuni segnali di resilienza del sistema istituzionale e di un certo riequilibrio politico, come lo stesso esito del voto di midterm del novembre 2022 che ha in pratica frenato bruscamente la prevista avanzata repubblicana – che sarebbe stata, secondo quasi tutte le previsioni, soprattutto un’ondata trumpista; lo scorso agosto l’amministrazione è inoltre riuscita a far approvare una legge (l’Inflation Reduction Act, tanto controverso in Europa) che rilancia il ruolo del governo federale in una fase importante della trasformazione economica americana.

Comunque, proprio a partire dalla configurazione del Congresso, con Camera e Senato sostanzialmente spaccati, è evidente lo scontro duro e spesso frontale in atto tra i due partiti tradizionali.

 

Leggi anche: La resistenza di Joe Biden

 

E’ inevitabile che una situazione del genere abbia riflessi in politica estera. Tuttavia, il rapporto tra dinamiche interne agli Stati Uniti e proiezione internazionale del Paese è stato sistematicamente frainteso, anche nel passato meno recente, come se l’unico esito fatale di qualsiasi sviluppo interno dovesse essere una forma di “ritiro” americano dal mondo.

Chi scrive non ha, francamente, mai avuto questa tentazione – per brevità si rimanda a quanto pubblicato qui all’indomani dell’insediamento di Joe Biden.

Parte del problema, e della sorpresa che sembra cogliere ogni volta tanti osservatori, sta in un’analisi confusa del sistema internazionale, prima ancora che dei punti di forza e debolezza degli USA.

Molti ritengono che, per i regimi autoritari più assortiti, una qualsiasi fonte di potenza economica, o la capacità di usare in modo disinvolto lo strumento militare, o ancora la volontà di impiegare tecniche “ibride” (tra cui quelle cyber, che di fatto consistono soprattutto in propaganda digitale) siano sufficienti a cambiare gli equilibri planetari. Vengono dimenticati, in questa interpretazione molto diffusa, importanti caveat: esistono vari tipi di crescita economica (quella cinese, ad esempio, è stata finora dovuta alla più classica combinazione dei fattori della produzione, a cominciare da ampia disponibilità di forza lavoro a basso costo); uno strumento militare utile in conflitti a basso livello tecnologico non è affatto garanzia di successo nell’invasione di un vasto e complicato territorio, sia esso l’Ucraina o Taiwan; infine, le tecniche “ibride” tendono a stimolare negli avversari altre tecniche altrettanto ibride, soprattutto quando questi si sentono direttamente minacciati, hanno la volontà di resistere e magari decidono di farlo a oltranza.

Si è troppo spesso dimenticato anche che il controllo e lo sfruttamento di risorse naturali, di per sé, non trasforma un “rentier state” in un gigante economico, e che un ricatto energetico può incontrare un muro di sanzioni oltre che una classica strategia di rapida diversificazione – come stiamo vedendo da parte dell’Europa.

Tutto ciò è importante perché in politica il potere è relativo; in altre parole, il potere di qualcuno dipende da quello degli altri, e ha poco senso misurarlo in astratto o soltanto rispetto al passato. Inoltre, il potere è complesso, cioè multi-dimensionale.

Negli ultimi anni – e in realtà perfino in questi ultimi mesi, pur a fronte di evidenze contrarie – si è continuato a guardare quasi soltanto ai fattori che possono indebolire i Paesi democratico-liberali di mercato, scegliendo di ignorare i segnali che vanno nella direzione opposta. Al centro di questa visione del mondo, che possiamo definire catastrofista, c’è una specifica visione degli Stati Uniti, che è più preciso definire “declinista”.

 

Leggi anche: Cosa non è la geopolitica

 

E’ ricorrente, e anzi immancabile, la previsione che ogni nuova presidenza americana sarà totalmente assorbita da priorità interne: lo si è detto almeno dai tempi di Bush padre (il presidente che in realtà si trovò a gestire il collasso dell’URSS, la fine della Guerra fredda, e dunque l’avvio della ormai mitizzata fase di “unilateralismo” americano). Lo si è detto di Bill Clinton, ex-governatore del piccolo Stato dell’Arkansas, che a posteriori viene dipinto come il paladino di una globalizzazione senza freni accompagnata da una forma di interventismo “wilsoniano”/idealista. Lo si è detto di G.W. Bush, che reagì agli attacchi dell’11 settembre 2001 con l’invasione prima dell’Afghanistan e poi dell’Iraq, oltre che con un’intera “dottrina” di politica estera solitamente etichettata come “esportazione della democrazia”. Naturalmente, lo si è detto di Barack Obama, che in realtà non aveva affatto una visione isolazionista ma invece un approccio multilaterale “a raggiera” in politica estera, e che peraltro ha avviato il massiccio spostamento del baricentro americano verso l’Indo-Pacifico.

Come ho scritto molte volte, la presidenza di Donald Trump è davvero un’eccezione, nel senso che è impossibile analizzarla secondo parametri razionali, visto il deliberato caos organizzativo in cui veniva condotta anche la politica estera. In quel caso si è rischiato un effetto simile a quello di un vero “declino” americano accelerato, a causa proprio della gestione del tutto inefficiente delle leve del potere da parte di Washington. E’ stata, appunto, un’eccezione.

Arriviamo così all’amministrazione Biden. Avendo – correttamente – impostato la politica estera e di sicurezza sulla questione cinese, perché sfida “sistemica” e multidimensionale, Biden ha dovuto gestire l’invasione russa di un importante Paese vicino. Nell’arco di poche settimane, la NATO è tornata ad avere un ruolo di primo piano, la UE si è in parte svegliata da un lungo torpore sulle politiche di sicurezza, il G7 è stato riattivato in pieno come organo di coordinamento. E’ chiaro che la difficile coesione di un fronte così ampio (non solo transatlantico) richiede anzitutto una forte leadership americana, che infatti è stata finora garantita dall’amministrazione in carica, a livello diplomatico, militare, finanziario. E’ giusto notare che l’Assemblea Generale dell’ONU ha riflesso un’adesione tutt’altro che completa al contrasto diretto delle azioni russe, in particolare nel continente africano: si sono registrate molte astensioni, e comunque l’impianto delle sanzioni contro Mosca è certamente indebolito da varie forme di connivenza o accondiscendenza semi-ufficiali. Il fatto però è che un sostegno esplicito e sostanziale della stragrande maggioranza dei Paesi alle posizioni americane non c’è stato praticamente mai nella storia; neppure nella famosa era dell’oro del cosiddetto “unilateralismo” post-Guerra fredda. Gli USA non sono oggi i padroni del mondo, ma non lo sono mai stati.

A fronte di ciò, alcuni critici a oltranza dell’America hanno trovato un nuovo punto di attacco, dopo aver vaticinato la fine dell’era americana a seguito del mancato intervento militare in Siria (Obama) e l’umiliante ritiro dall’Afghanistan (Biden): dietro il sostegno all’Ucraina contro la Russia, si celerebbe una tragica minaccia proprio per l’Europa, cioè un geniale piano di Biden (sì, proprio lo stesso presidente che quei critici hanno considerato fin dall’inizio l’ennesimo isolazionista, oltre che un leader debolissimo) per stritolare quel poco che resta della presunta “autonomia” europea. Forse è opportuno sorvolare sulla totale incoerenza interna tra queste posizioni, e guardare oltre.

Eppure, le analisi sul ruolo americano nel sistema internazionale prossimo futuro continuano a sorprendere. Addirittura, c’è chi ripropone a intermittenza lo scenario dei BRICS come alternativa all’egemonia USA (dimenticando probabilmente il senso di quella “S” finale, che si riferisce a un Paese, il Sud Africa, di cui nessuno parla più come una vera “economia emergente”). La tesi viene avanzata mentre l’India gioca naturalmente da battitore libero, propendendo comunque verso gli USA per questioni decisive nel campo della sicurezza, la Cina fa poco o nulla per sostenere la sconsiderata avventura suicida di Putin in Ucraina, e il Brasile guarda come sempre alla regione latinoamericana piuttosto che al mondo. A proposito di Brasile, qualche analista ha perfino ipotizzato la fine del ruolo del dollaro in Sud America a seguito dell’annunciato lancio del “Sur” che combinerebbe le valute di due economie squilibrate e dissestate come quelle brasiliana e argentina – se mai questa valuta vedrà la luce, per sfidare il dollaro si dovrà aspettare parecchio.

Il punto generale è che gli Stati Uniti devono fronteggiare sfide ogni volta nuove e diverse al loro ruolo internazionale; ma ciò accade nel contesto di fenomeni globali contraddittori, non di una sorta di inesorabile marcia verso un mondo post-americano.

Quanto alle ambizioni “autonome” di noi europei su questo sfondo, sono del tutto legittime e anche realistiche se e quando avremo la volontà di mettere in comune praticamente tutte le leve del potere e della governance. Fino ad allora, è chiaro che l’unica scelta sensata è l’attuale compromesso, un po’ bislacco come le stesse istituzioni UE, di atlantismo quasi obbligato ed europeismo “incompleto”. Attenzione però a non incolpare Joe Biden, o il presidente di turno, di una carenza che è tutta europea e di problemi che sono tutti auto-inflitti. Fu una nostra autonoma decisione, soprattutto tedesca e italiana, di legarci a doppio filo al gas russo, come fu una decisione comune europea quella di siglare con l’Ucraina un Accordo di Associazione nel 2014 (peraltro giusta e strategicamente sensata) che fece infuriare Putin. Gli Stati Uniti non sono la “Spectre” né un Angelo dell’Apocalisse, siamo seri; sono tuttora la maggiore potenza globale, e anche uno specchio politico-culturale, per quanto distorto, in cui l’Europa guarda se stessa, i propri pregi e i propri difetti.

Per tornare all’osservazione fatta all’inizio, è fuor di dubbio che il sistema politico americano sia invecchiato in termini istituzionali e sbilanciato da forze politiche anti-establishment; tuttavia, questa realtà va posta a confronto con la situazione dei regimi politici con cui gli USA devono competere. Pur con tutte le critiche legittime al sistema americano, chi è disposto ad esprimere maggiore ottimismo per il Partito Unico con leader unico su cui si regge la Repubblica Popolare Cinese? O anche, per restare ai BRICS, per la strana combinazione di democrazia elettorale costituzionale e nazionalismo settario su cui si regge l’India di Narendra Modi? O ancora, per le illuminate leadership dei Paesi del Golfo? Per non parlare del gruppo dirigente attorno a Vladimir Putin, che sogna una nuova fase imperiale nel suo Russkiy Mir (mondo russo).

 

Leggi anche: Goodbye Liberalism: the triumph of Russia’s “slavophiles”

 

Chi immagina un futuro alternativo rispetto alla posizione preminente degli Stati Uniti deve insomma identificare qualche tipo di “soft power” che risulti minimamente attraente perché altri lo adottino. Al momento non se ne vedono tracce evidenti.

Se ci sono altri modelli di riferimento in circolazione, sarei davvero interessato a discuterne. Intanto, con Joe Biden presidente, il definitivo “declino americano” rimane collocato in un futuro imprecisato.