international analysis and commentary

Israele vista dal prisma degli schermi

di Fabio Amato e Ruth Hanau Santini

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Da oltre due decenni, le serie televisive stanno vivendo una stagione d’oro: si tratta del genere che meglio racconta la complessità della contemporaneità. Sono prodotti con strutture narrative articolate e profili psicologici dei personaggi approfonditi, cui si è aggiunto un contributo crescente di registi e attori famosi (come aveva dimostrato in anticipo sui tempi David Lynch con Twin Peaks nel 1997). Si è assistito così al tramonto di visioni semplicistiche da “buoni contro cattivi”, anzi, come ci ricordano, ad esempio, i casi di Dexter, Breaking Bad e i Soprano, il villain a volte diventa il protagonista, favorendo la visione di un pubblico più sofisticato rispetto a quello dei classici “telefilm”.

Secondo l’impressione di molti, i media o i prodotti culturali di massa come appunto le serie rappresentano situazioni informali o quotidiani per costruire e perpetuare letture sociali e geopolitiche dominanti e schemi interpretativi di comunità, eventi, luoghi. Tentiamo qui di decostruire e far emergere quanto tende a essere rappresentato come neutrale, dato per scontato, post-ideologico e apolitico. L’attenzione e l’analisi dunque si spostano dalla sfera pubblica delle élite anche a quella privata, senza che le due siano poste in alternativa, ma legate da reciproca influenza. In questo senso, le serie televisive sono una miniera infinita di possibili interpretazioni della società che raccontano.

L’affermazione di nuove forme di fruizione, in particolare la possibilità di vedere episodi attraverso le piattaforme, ha liberato il pubblico dai vincoli temporali del palinsesto, creando prodotti di nicchia che sviluppano i fandom in rete e lunghe sessioni di binge watching. L’avanguardia è rappresentata dalle serie americane che si sono indirizzate, soprattutto quelle via cavo, verso prodotti di elevata qualità in grado di competere con le opere cinematografiche. Ma la vera novità è la disponibilità di una ricca offerta da diversi paesi europei, mediorientali, asiatici, latinoamericani e africani che, grazie alla moltiplicazione degli “schermi”, diventa ora fruibile al grande pubblico.

Non fa eccezione Israele la cui produzione ha permesso, oltre che fidelizzare i fruitori verso alcuni personaggi e attori fino a qualche anno fa misconosciuti, di diffondere una sensibilità verso alcune letture della società israeliana e delle sue politiche. Dall’inizio del nuovo millennio, la liberalizzazione delle frequenze televisive e un maggior pluralismo nel mondo israeliano delle comunicazioni ha permesso un miglioramento qualitativo e quantitativo delle serie stesse, favorendone la presenza sul mercato globale.

Che si trattasse di una produzione di alto potenziale lo si poteva capire dal successo di alcune serie americane che non sono altro che remake di lavori israeliani su tematiche differenti: la spy story Homeland, in origine Hatufim; la serie sul lavoro di uno psicoterapeuta In treatement che trae spunto da BeTipul; Euphoria/Oforia, sulle crude vicende di un gruppo di adolescenti.

È impossibile una rassegna sistematica anche solo di quanto oggi è conosciuto in Italia, ma meritano di essere citate le più famose. La profonda riflessione sull’estraneità, sui pregiudizi e il ribaltamento di prospettive che chi regala The Attaché, che racconta la vicenda dell’uomo al seguito della moglie diplomatica. Sempre sul filone dell’intrigo internazionale, abbiamo Tehran, che racconta le vicende di una giovane hacker israeliana di origini iraniane mandata dal Mossad nella sua città natale per disinnescare un reattore nucleare, ribaltando il canone classico dell’atmosfera mediorientale. Sempre di genere drammatico in contesto di guerra, un discreto successo lo ha ottenuto anche No Man’s Land che segue invece un registro più tradizionale. Sul genere politico-poliziesco, la serie Fauda, che ha riscontrato un successo globale, dice molte più cose delle contraddizioni della società israeliana di quanto non appaia a una visione superficiale.

Un successo e una fascinazione non prevista nel pubblico italiano li hanno avuti i racconti del mondo degli ebrei ultraortodossi: dal microcosmo di Brooklyn (Unorthodox) alle vicende della famiglia Shtisel, su cui ci soffermeremo di più, che pure avendo prospettive differenti, in entrambi i casi raccontano i conflitti e le resistenze nei confronti della tradizione. Il rapporto tra tradizione e modernità sembra centrale in questi racconti, e se in alcuni casi si assiste a semplificazioni quasi dicotomiche (è il caso del recente La Famiglia dei diamanti, capace di riprodurre lo stereotipo dell’uomo fuggito dall’oppressione della tradizione che ritorna a risolvere i problemi di famiglia come un cowboy), in generale le contraddizioni emergono in ogni personaggio e le tinte della narrazione si arricchiscono di sfumature.

Fauda (che significa ‘caos’ in arabo, sarebbe ‘balagan’ in ebraico, ma il caos si presume sia generato sempre da parte araba), prodotta nel 2015 e uscita nel 2016-17, è un thriller politico che si concentra su un’unità di Mistarvim (‘quelli che diventano arabi’) – unità anti-terrorismo israeliana undercover – in Cisgiordania e Gaza. Al cuore del racconto troviamo il dilemma, e l’ossessione, della sicurezza israeliana. Di questa serie sono state prodotte quattro stagioni e se ne annuncia un’altra, assicurando ai produttori un successo nazionale e internazionale con la vittoria di diversi Israeli Academy Awards, potendosi anche fregiare del titolo di miglior serie del 2017 secondo il New York Times.

Doron, il protagonista di “Fauda”

 

Nella serie, gli agenti israeliani durante le loro operazioni, grazie alla loro perfetta conoscenza dell’arabo, si fanno passare per palestinesi. Come emergerà nella seconda stagione, gli agenti non parlano arabo perché lo hanno dovuto studiare, ma perché sono israeliani di origine araba, o Mizrahi, i cui genitori hanno lasciato paesi arabi, spesso del Golfo (come Amos, il padre di Doron, personaggio principale israeliano della serie, il cui padre era emigrato da Baghdad) o della Palestina multi-confessionale pre-mandato britannico.

Ma Fauda non è una serie sulla coesistenza, e gli arabi sono il ‘nemico’, non solo l’altro. I palestinesi, comunque, non vengono disumanizzati, i personaggi palestinesi principali sono impersonati da attori palestinesi famosi, e i combattenti palestinesi sono mostrati anche nel loro lato affettivo e umano, in particolare nel loro attaccamento alle rispettive famiglie. La serie si guarda bene dal criticare la brutalità e le scelte spesso moralmente problematiche dell’unità israeliana, giustificata anche nei suoi eccessi per spirito vendicativo verso la morte di israeliani a opera di palestinesi. Non si problematizzano i danni collaterali arrecati alle comunità palestinesi, e tantomeno si getta luce sulla natura sistemica dell’ingiustizia causata dall’occupazione e dalla violenza più superficiale che questa non può che generare.

 

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Un elemento molto interessante che emerge nella serie è la dimensione araba: in alcuni episodi, oltre il 70% dei dialoghi avvengono in arabo, e in generale l’arabo è la lingua franca, in un momento in cui, con l’adozione della legge sullo stato-Nazione del 2018 lo status della lingua araba era stato retrocesso da ufficiale a ‘speciale’. Come sono rappresentati lingua e cultura araba? Come meri strumenti utili per camouflage di cittadini mizrahi che, in virtù della padronanza linguistica, della vicinanza culturale alla società palestinese – trasformata in arma – e della facilità a utilizzare forza bruta, sono stati reclutati come agenti operativi nell’unità d’élite anti-terrorismo. Questi agenti sono all’avanguardia dell’occupazione israeliana, e utilizzano la loro ‘arabicità’, che nel mondo del lavoro israeliano potrebbe pregiudicarne l’ascesa sociale, per ricavarsi uno spazio socio-politico, prospettive di carriera e sicurezza economica. Forse anche, in termini di sicurezza ontologica, per distanziarsi dai palestinesi che reprimono, per cancellare quella parte della loro genealogia e della loro identità e ridurla a un insieme di strumenti utilizzabili a fini lavorativi, svuotata di senso, depoliticizzata e de-contestualizzata.

Fauda e prodotti di alto consumo culturale israeliano costituiscono rappresentazioni di ‘everyday culture’ del paese che raccontano, producono e riproducono narrazioni dominanti politiche e geopolitiche, reificandole, esattamente come è stato illustrato nella prima parte dell’articolo. Molte altre dicotomie potrebbero essere estrapolate e problematizzate in Fauda, come quella tra ‘dentro’ (Israele) e fuori (territori occupati in Cisgiordania e striscia di Gaza); ordine politico e sociale versus caos, progresso versus arretratezza, benessere versus violenza; ma anche tra ‘esterno’ e ‘casalingo’. Pur fornendo una prospettiva di osservazione ideologica da insider del mondo ebraico, come detto, i profili dei personaggi arabi e la complessità della narrazione (soprattutto nelle prime due stagioni) consentono uno spettro interpretativo meno semplicistico del conflitto con il mondo arabo di tanta produzione artistica israeliana.

Il racconto della famiglia ultraortodossa Shtisel, invece, guarda a una parte sempre più rilevante, anche ma non solo demograficamente, della società israeliana. Questa serie – che conta ad oggi tre stagioni – ha iniziato la distribuzione in patria nel 2013 anche se, grazie alla distribuzione via Netflix, solo nel 2018 si è fatta notare dal pubblico internazionale.

 

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Grazie a questa famiglia, la serie ci immerge nel quartiere di Guela, vicino alla città vecchia, nel mondo haredi, un gruppo ultraordosso che, in opposizione ai valori e alle pratiche moderne, sceglie la stretta aderenza alle tradizioni e alla legge halaka. L’aspetto intimo ed emotivo dei vari personaggi si dipana nel corso della storia: questa chiave narrativa rappresenta una novità perché di solito le comunità ortodosse, nelle finzioni artistiche, sono raccontante in una prospettiva eminentemente politica, dando enfasi alle ripercussioni delle loro scelte sul governo e sulla modernità del paese.

Shulem e Akiva, protagonisti di “Shtisel”

 

Shulem Shtisel è il capofamiglia vedovo che, nel suo ruolo di rabbino, veglia sul quartiere affinché si rispettino i precetti religiosi che regolamentano l’abbigliamento, l’alimentazione, la separazione fra i sessi e il rifiuto della tecnologia. Lui e la sua famiglia si trovano in continua tensione tra le vicine comunità più reazionarie (il vicino quartiere di Mea Sharim che ospita ultraortodossi più oltranzisti) e i tentativi di alcuni membri della famiglia di aprirsi alla modernità. I tormenti esistenziali e amorosi del figlio Akiva, principale protagonista, che vive ancora con il padre, sono uno degli assi portanti del racconto, ma le contraddizioni attraversano tutta la seconda generazione del patriarca, dagli affanni della figlia Gita che si confronta con la fragilità di un marito che prima scappa e poi ritorna, al figlio Zvy Arye che cerca, senza grande successo, di seguire le orme del padre. Le scelte professionali, le frequentazioni di Akiva, come le vicende di altri componenti della famiglia (dalla nonna alla nipote) rappresentano un continuo confronto e conflitto con la modernità e la laicità che permette lenti e impercettibili cambiamenti, ma non rivoluzioni e happy end semplificatori e autoassolutori. Secondo alcune interpretazioni, Shtisel, grazie al profilo psicologico dei personaggi, ha permesso un riavvicinamento tra il mondo ultraortodosso e quello laico abituato a leggere le regole haredi come un arcaismo di cui sbarazzarsi.

Come per i film, la visione delle serie tv fornisce una grande ricchezza per leggere e interpretare le società in trasformazione. Siamo abituati a pensare, in una prospettiva geografica più tradizionale, che questo tipo di osservazioni possano favorire l’esercizio nella semantica spaziale, dalla semplice lettura del paesaggio e della sua evoluzione, alla distribuzione (nella finzione) delle inquadrature dei corpi e degli oggetti e all’uso che viene fatto dello spazio da parte del regista. Questi elementi sono ancora validi: anche in Fauda e Shtisel il paesaggio non è un mero fondale ma un attore che spiega i sentimenti dei protagonisti e l’atmosfera del posto, dai quartieri della città vecchia ai vicoli di Gaza. Nondimeno, diventa rilevante decostruire questi primi livelli per svelare i processi di trasformazione e le conflittualità presenti in una società complessa come quella israeliana.