Isolazionismo e internazionalismo: alla ricerca di un equilibrio
L’isolazionismo ha reso grande l’America, creando le condizioni per lo sviluppo della nazione durante il XIX secolo. Oggi tuttavia l’ammonimento dei padri fondatori, che mettevano in guardia dallo stabilire alleanze, è caduto in disgrazia e l’aggettivo “isolazionista” è diventato un insulto. Senza più limiti alle ambizioni sul piano internazionale, la “Grand Strategy” americana si è sobbarcata sforzi eccessivi ed è diventata politicamente insostenibile.
La nazione si trova ora ad affrontare una serie apparentemente infinita di impegni esteri, due decenni di guerre fallimentari in Medio Oriente e una pandemia che sta provocando un disastro economico come non se ne vedevano dai tempi della grande depressione. Gli Stati Uniti devono riscoprire la storia dell’isolazionismo e applicarne la lezione, ridimensionando la propria proiezione e riportando gli impegni esteri a una dimensione compatibile con i propri mezzi e i propri obiettivi.
ECCEZIONALISMO E ISOLAZIONISMO. Fin dalle origini, l’eccezionalismo americano si è combinato all’obiettivo di diffondere la libertà in ogni angolo del pianeta. Ancora prima della fondazione degli Stati Uniti, Thomas Paine, fautore appassionato dell’indipendenza dal Regno Unito, esortava così i coloni americani: “È in nostro potere rifare il mondo daccapo”. Herman Melville, il romanziere, concordava: “Noi americani siamo il popolo eletto, l’Israele del nostro tempo. Portiamo l’arca delle libertà del mondo”.
Dai tempi della fondazione fino alla guerra ispano-americana del 1898, tuttavia, la maggior parte degli americani non aveva nessuna intenzione di estendere le proprie mire strategiche al di fuori del Nord America. I coloni si espansero nel continente, travolgendo i nativi, fecero alcuni vani tentativi di impossessarsi del Canada, si aggiudicarono una parte considerevole del Messico, combattendo una guerra fra il 1846 e il 1848, e comprarono l’Alaska dalla Russia nel 1867. Sia le élite che il popolo auspicavano che il successo del loro esperimento democratico potesse essere di esempio per altri paesi; ma pensavano che per proteggere il carattere eccezionale della propria nazione fosse necessario tenere alla larga il resto del mondo.
Di conseguenza, gli americani non si spinsero oltre le coste del Pacifico, limitando le proprie ambizioni estere al commercio internazionale. Avevano immaginato fin dall’inizio un’unione che si estendesse a tutto il continente ma non aspiravano a governare il resto del mondo; anzi, tendevano a isolarsene. Si attenevano alla politica delineata da George Washington nel 1796, in occasione del suo discorso di commiato dalla presidenza: “Per noi la grande regola di condotta, nei confronti delle nazioni straniere, è che, nell’estendere le nostre relazioni commerciali, si abbiano con loro le minori relazioni politiche possibili”.
L’isolazionismo funzionò. Dopo la guerra anglo-americana del 1812, gli americani trascorsero il resto del XIX secolo prosperando indisturbati mentre le potenze imperiali europee si ritiravano dall’emisfero occidentale. L’economia prese il volo, in modo particolare dopo la guerra di secessione, grazie agli investimenti in canali, porti, strade e ferrovie anziché in navi da guerra e colonie. Fra il 1865 e il 1898 la produzione di carbone crebbe dell’800% e i chilometri di strade ferrate aumentarono del 567%. Intorno al 1885, gli Stati Uniti diventarono il primo produttore al mondo di beni industriali e di acciaio, superando il Regno Unito. La marina americana si schierava occasionalmente a difesa degli interessi commerciali del paese; ma gli Stati Uniti, quale che fosse il partito al potere, teneva a freno le ambizioni geopolitiche. È in questo modo che l’America è diventata una grande potenza.
IL NOVECENTO E I RISCHI DELL’ISOLAZIONISMO. La “grande regola” del disimpegno geopolitico di Washington funzionò così bene che gli americani, per un breve periodo, scoprirono il fascino delle ambizioni internazionali. Nel corso degli anni Novanta dell’Ottocento gli Stati Uniti, sensibili alle pressanti sollecitazioni ad abbinare alla prosperità un peso geopolitico commisurato, costruirono una flotta di navi da guerra. Nel 1898 utilizzarono le nuove corazzate nella guerra ispano-americana e presero il controllo di Cuba, Portorico, Hawaii, Filippine, Guam, Samoa e isola di Wake. Nel 1917 entrarono nella Prima guerra mondiale.
Nonostante la vittoria ottenuta in entrambi i conflitti, però, gli americani persero presto entusiasmo per le loro nuove ambizioni estere. Non si inorgoglirono per l’acquisizione dei territori d’oltremare nel 1898 né tantomeno gradirono la perdita di vite umane e di denaro sui campi di battaglia europei. Sentivano che la nazione si era spinta troppo oltre e cominciarono a desiderare un ritorno al distacco strategico. Fu poi la débâcle economica della grande depressione a gettare le basi per “America First”, l’isolazionismo del periodo fra le due guerre.
Mentre fascismo e militarismo dilagavano in Europa e in Asia, gli Stati Uniti scelsero di tenersi al riparo nel proprio continente. Solo quando il Giappone portò la guerra in casa loro, attaccando Pearl Harbor, gli americani superarono l’avversione per il coinvolgimento internazionale e si unirono alla causa degli alleati. Durante la seconda guerra mondiale, la più sanguinosa della storia, morirono ottanta milioni di persone, fra cui più di 400.000 americani. Se il XIX secolo ha rappresentato il momento d’oro dell’isolazionismo, il periodo fra le due guerre è stato sicuramente il suo momento più buio.
IL RISCHIO DI UNA RITIRATA AVVENTATA. Gli americani devono tenere a mente questa storia quando progettano il loro corso futuro nel mondo. La Grand Strategy degli ultimi decenni, per come è evoluta dal secondo dopoguerra in poi, è ormai politicamente insostenibile. Dopo vent’anni di guerre infinite in Medio Oriente e nel mezzo della pandemia, è ora che gli Stati Uniti ridimensionino la loro presenza all’estero. Allo stesso tempo, l’America deve evitare di ripetere l’errore fatto negli anni Trenta. Sarebbe un grave errore se il paese si ritirasse in maniera istintiva e avventata dal mondo di oggi.
Una ritirata rischiosa è tuttavia possibile; per evitarla, gli Stati Uniti devono riuscire a ridimensionare razionalmente la loro proiezione internazionale, ormai eccessiva, e a riequilibrare il loro grado di coinvolgimento estero rispetto ai mezzi a disposizione. La soluzione migliore sarebbe una strategia di ritiro graduale. Gli americani dovrebbero recuperare il concetto dei padri fondatori, secondo cui agli Stati Uniti conviene tenersi alla larga da un eccesso di coinvolgimento internazionale. La riscoperta dei vantaggi strategici dell’isolazionismo – pur senza perderne di vista gli svantaggi – potrebbe offrire agli americani la via migliore per definire un giusto mezzo fra fare troppo e fare troppo poco.
COME HOME, AMERICA? Il termine “isolazionismo” ha assunto una connotazione negativa il 7 dicembre del 1941, il giorno in cui il Giappone ha attaccato Pearl Harbor. Evitando di opporsi alle potenze dell’Asse negli anni Trenta, gli Stati Uniti avevano perseguito l’illusione – rivelatasi controproducente – di potersi conquistare un’immunità strategica. Come il senatore Arthur Vandenberg, da sempre un convinto isolazionista, scrisse nel suo diario dopo l’attacco dei giapponesi, “per tutti i realisti, l’isolazionismo è morto quel giorno.”
Parecchi esponenti della foreign policy community continuano ad agitare lo spauracchio dell’isolazionismo per attaccare chiunque osi mettere in discussione il ruolo dell’America come “guardiano” del mondo. Il presidente Trump è stato accusato di antiamericanismo da diplomatici e accademici per aver messo in dubbio il valore delle alleanze americane all’estero e per avere cercato di ritirare le truppe dalla Siria e dall’Afghanistan. Alla fine del 2019, la Camera – in un raro momento di concordia bipartisan – ha dato un brusco stop a Trump approvando, con 354 voti a favore e 50 contrari, una risoluzione di condanna della sua decisione di ritirare le truppe americane dal nord della Siria. Il defunto senatore John McCain aveva dato del pazzo al senatore Rand Paul, nel 2013, per avere chiesto, insieme a pochi altri dei suoi colleghi, che gli Stati Uniti si liberassero dei loro impegni internazionali.
Una condanna tout court delle posizioni isolazioniste non offre solo una visione distorta della storia americana, rende anche un pessimo servizio ai cittadini. Il paese non può e non deve tornare alla strategia di distacco geopolitico attuata nel XIX secolo. L’interdipendenza economica e le minacce globali – missili intercontinentali, terrorismo transnazionale, pandemie, cambiamenti climatici e cyber terrorismo – rendono evidente il fatto che gli oceani che bagnano le nostre coste non ci proteggono più come un tempo.
Tuttavia, la nazione ha un disperato bisogno di un dibattito franco e aperto, alla luce di una piena comprensione delle lezioni della storia, su come ridimensionare in maniera responsabile gli impegni internazionali. Le guerre infinite dell’America non sono molto gradite all’elettorato. Ed è per questo che il presidente Obama provò a ritirare le truppe americane dal pantano mediorientale, insistendo durante la campagna per la rielezione sulla necessità di “concentrarsi sul nation-building a casa”. Ma il Medio Oriente non glielo ha permesso: Obama ha dovuto lasciare i soldati americani in un Afghanistan ancora troppo instabile e inviare altre truppe in Iraq e in Siria per combattere lo Stato islamico.
Trump ha ereditato un elettorato stanco degli sforzi militari americani in Medio Oriente. Secondo un sondaggio del 2019, una netta maggioranza di cittadini desidera vedere ridimensionato o addirittura cancellato il ruolo dell’America nel mondo. La pandemia ha di fatto rafforzato questa tendenza. Un sondaggio effettuato nel luglio scorso indica che tre quarti degli americani vogliono il ritiro delle truppe dall’Afghanistan e dall’Iraq, e non sorprende quindi che Donald Trump si sia mosso in questo senso nelle settimane che gli restavano alla Casa Bianca.
Trump è sempre stato favorevole al ritiro delle truppe dal Medio Oriente. “In campagna elettorale ho promesso che avrei riportato a casa i nostri soldati ed è quello che farò”, ha spiegato quando ha dato l’ordine di evacuare le truppe degli Stati Uniti dal nord della Siria. Persino alcuni indefessi esponenti della foreign policy elite hanno cominciato a defilarsi dal consenso internazionalista, arrivando addirittura a chiedere il ritiro degli Stati Uniti dall’Europa e dall’Asia, oltre che dal Medio Oriente. La copertina di un numero recente di Foreign Affairs, la rivista che riflette le opinioni della foreign policy community, era intitolata così: “Come Home, America?”
UNA TENDENZA BIPARTISAN E POPOLARE. Questa tendenza al ripiegamento raccoglie consensi in entrambi gli schieramenti, non solo fra gli elettori di Trump. Il programma democratico per il 2020 propone di “voltare pagina su due decenni di dispiegamenti militari su larga scala e di guerre senza fine in Medio Oriente” e afferma che gli Stati Uniti “non dovrebbero imporre il regime change ad altri paesi”. George Soros, generoso finanziatore di cause liberal, e Charles Koch, filantropo conservatore, hanno recentemente unito le forze per dar vita a un nuovo think tank con sede a Washington – il Quincy Institute for Responsible Statecraft – che ha lo scopo di “promuovere idee che sottraggano gli Stati Uniti a guerre senza fine”. L’istituto prende il nome dall’ex segretario di stato e presidente John Quincy Adams, che nel 1821 dichiarò che gli Stati Uniti “non vanno all’estero in cerca di mostri da distruggere”.
Se i leader americani non dovessero rispondere a queste pressioni politiche, il rischioso overreach internazionale potrebbe suscitare una reazione opposta ancora più pericolosa, l’underreach: una tendenza al ripiegamento assoluto su stessi, analoga a quella che si è prodotta negli anni Trenta. La situazione in cui si trova l’America oggi assomiglia in maniera preoccupante a quella che ha prevalso nel periodo fra le due guerre mondiali. I cittadini percepiscono e temono una condizione di overstretching, come all’epoca dell’acquisizione dei territori d’oltremare nel 1898 e della successiva entrata nella prima guerra mondiale. La diffusione del virus Covid-19 sta creando notevoli difficoltà economiche e gli americani chiedono che gli investimenti si facciano in Arkansas, non in Afghanistan, proprio come avveniva negli anni Trenta. Il protezionismo e l’unilateralismo sono tornati di moda e stanno spingendo la diplomazia americana verso lo stesso atteggiamento che chiuse la porta alla solidarietà fra democrazie nel periodo fra le due guerre. Inoltre, tendenze nazionaliste e illiberali sono in crescita in Europa e in Asia, proprio come lo erano negli anni Trenta, quando gli Stati Uniti voltarono le spalle al mondo.
“America First”, lo slogan in voga fra le due guerre e ripreso da Donald Trump, è stato un sintomo più che una causa del ripiegamento della nazione su sé stessa. Secondo un recente sondaggio del Center for American Progress – un think tank orientato a sinistra – gli internazionalisti liberali rappresentano solo il 18% della popolazione, mentre la maggioranza è a favore di “America First” oppure di un disimpegno globale. Gli elettori più giovani sono molto meno favorevoli a un’agenda internazionalista tradizionale rispetto ai loro genitori: è quindi molto probabile che la tendenza al ripiegamento aumenterà nei prossimi anni.
L’isolazionismo torna in voga perché le strategie internazionali degli Stati Uniti non corrispondono più alla volontà popolare. Un aggiustamento strategico, che ripristini l’equilibrio fra obiettivi e mezzi a disposizione, è inevitabile. La domanda fondamentale è se questo aggiustamento prenderà la forma di un ritiro prudente o di uno strappo pericoloso.
UNA STRATEGIA PER UN RIPIEGAMENTO INTELLIGENTE. Il passato isolazionista dell’America non deve essere il suo futuro. L’interdipendenza globale rende impraticabile e poco saggio un ritorno degli Stati Uniti alla condizione di una fortezza nordamericana. Certo, con le forze statunitensi sparse in centinaia di basi ai quattro angoli del mondo, una ritirata precipitosa non sembra facile né immediata. E tuttavia potrebbe verificarsi, se gli Stati Uniti non riusciranno a giocare d’anticipo e a formulare una strategia di ritiro più prudente.
L’isolazionismo è la condizione naturale degli Stati Uniti: l’ambizioso internazionalismo degli ultimi otto decenni è l’eccezione. L’aspirazione a un distacco geopolitico è stata parte integrante dell’esperienza americana e ne ha permeato, fin dalle origini, le convinzioni. Oggi le pressioni isolazioniste stanno di nuovo crescendo e continueranno a rafforzarsi. Trump è riuscito a incanalare quelle pressioni ma lo ha fatto nel modo sbagliato. Il disimpegno da Siria, Afghanistan e Iraq era la cosa giusta da fare; ma Trump si è mosso in questo senso senza adottare una strategia coerente, e quindi cedendo terreno agli avversari. La sua decisione di ridimensionare la presenza americana in Germania ha colto di sorpresa non solo gli alleati della nato ma anche lo stesso Pentagono.
Questo è esattamente ciò che va evitato. Al contrario, il nuovo Presidente dovrebbe avviare un dibattito nazionale per elaborare una Grand Strategy aggiornata, che permetta impegni molto più selettivi nel mondo. Invece di polemizzare fra loro, internazionalisti e fautori del “come home” dovrebbero discutere in modo razionale ed elaborare un piano sostenibile per un disimpegno responsabile e graduale degli Stati Uniti.
Punto di partenza di questo dibattito dovrebbe una realtà molto semplice: sia l’isolazionismo che l’internazionalismo hanno conseguenze strategiche positive e negative. L’isolazionismo è riuscito, nel xix secolo, a garantire sicurezza e prosperità all’America; ma ha anche condotto alle rischiose illusioni degli anni Trenta. Il paese ha poi maturato un internazionalismo efficace e sostenibile durante la guerra fredda, ma in seguito la vocazione internazionalista ha prodotto gli eccessi strategici di cui siamo stati testimoni.
LA GIUSTA VIA DI MEZZO TRA ISOLAMENTO E OVERREACH. Il necessario riesame delle priorità e degli obiettivi di una nuova Grand Strategy americana deve concentrarsi sui fondamentali. Anzitutto, e la maggioranza degli americani concorderà su questo punto, è razionale partire dal ridimensionamento degli impegni periferici e non dal ritiro delle forze americane da aree strategiche dell’Europa e dell’Asia. Il principale errore compiuto da Washington, dopo la fine della guerra fredda, è stato quello di lasciarsi coinvolgere inutilmente nelle guerre in Medio Oriente. Al contrario, il ritiro dall’Eurasia di fronte alle minacce russe e cinesi sarebbe esattamente il tipo di reazione eccessiva che gli Stati Uniti devono evitare. La nazione ha imparato a proprie spese questa lezione nel periodo tra le due guerre mondiali, quando gli Stati Uniti non si sono opposti all’aggressività della Germania e del Giappone.
Secondo punto: l’unilateralismo nel mondo di oggi non può funzionare, come sa del resto l’opinione pubblica. Gestire il commercio e la finanza internazionali, contrastare il cambiamento climatico, smantellare le organizzazioni terroristiche, prevenire la proliferazione nucleare, garantire la sicurezza informatica, affrontare pandemie globali: rispondere a ciascuna di queste sfide richiede cooperazione internazionale. Inoltre, per potere abdicare al ruolo di “poliziotto globale”, gli Stati Uniti avranno bisogno della collaborazione di partner solidali, che colmino i vuoti che si verranno a creare. Dal momento che il Senato degli Stati Uniti sarà un cliente ostico quando si tratterà di ratificare trattati internazionali, i nuovi strumenti della diplomazia americana dovranno essere accordi informali e coalizioni ad hoc.
Gli americani si rendono certamente conto del fatto che un mondo sempre più illiberale avrà un disperato bisogno degli Stati Uniti per difendere i valori democratici; la marcia della storia verso il progresso in questa direzione potrebbe bloccarsi senza l’apporto dell’America. La priorità assoluta, tuttavia, deve essere quella di fare ordine in casa propria in termini politici ed economici, e non di proiettarsi all’esterno “in cerca di mostri da distruggere”. Gli Stati Uniti non possono essere un esempio per il mondo se le loro istituzioni repubblicane non funzionano.
Operare per diffondere la democrazia grazie all’esempio e grazie a un’azione di sostegno selettiva, invece che attraverso interventi internazionali invasivi, aiuterà gli Stati Uniti a trovare la giusta via di mezzo fra isolamento e overreach. Questa giusta misura richiederà che gli americani imparino a confrontarsi con il mondo per quale è, e non per come vorrebbero che fosse.
Per gran parte della loro storia, gli Stati Uniti si sono tenuti a distanza dal mondo, concentrandosi sull’esperimento americano e proteggendolo rispetto all’esterno. A partire dalla Seconda guerra mondiale, hanno assunto un atteggiamento opposto, cercando di rifare il mondo a propria immagine e somiglianza. In futuro dovranno affrontare un mondo disordinato e imperfetto, resistendo sia alla tentazione di sottrarvisi che a quella di cambiarlo. Gli Stati Uniti dovranno insomma riuscire a fare un passo indietro; ma senza isolarsi del tutto.
Questo articolo è stato pubblicato sul numero 91 di Aspenia