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Il vecchio continente e lo spettacolo elettorale americano

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Da una campagna seguita con invidia ed entusiasmo, a una osservata con sconforto e paura. Lo stato d’animo con cui gli europei guardano al duello tra Donald Trump e Hillary Clinton è cambiato di netto rispetto non solo alla conferma di Barack Obama nel 2012, ma soprattutto alla sua prima vittoria elettorale nel 2008.

Con la sua candidatura, Obama calamitò su di sé le aspettative di chi credeva possibile che gli Stati Uniti avrebbero di nuovo guidato il cambiamento, valorizzato le diversità, corretto con pragmatismo i propri errori. L’Europa – la sua cittadinanza, la sua politica, i suoi media – era ancora bruciata dall’esperienza di George W. Bush. Con due guerre costose, tragiche e impossibili da “vincere”, oltre che impopolari, e intanto con una gestione dell’economia da molti vista come dissennata, quel Presidente riuscì a cancellare il credito enorme di solidarietà concesso dal resto del mondo dopo l’11 settembre 2001.

Sebbene Obama risultasse, per le coordinate americane, abbastanza di sinistra, i suoi supporter nel Vecchio Continente provenivano da tutti gli schieramenti – un’empatia rafforzata dallo scontento montante tra gli europei per le proprie classi dirigenti. Come i media di ogni colore sottolinearono l'”evento storico”, il “cambiamento”, o la “novità”, così le persone si divisero tra tifosi, simpatizzanti e tiepidi. Insolitamente bassa la quota di oppositori, fotografata dai sondaggi sotto il 10% in paesi come Francia o Germania (tra i più ostili all’America di Bush), e poco più alta nel resto del continente. Unica eccezione: l’Europa centro-orientale, regione in cui molti governi sostennero l’amministrazione repubblicana durante le guerre in Medio Oriente e in chiave anti-russa.

Dopo il voto del 2008, tra le accoglienze più calorose vale la pena di ricordare quella del tabloid inglese oggi nazionalista ed eurofobo The Sun, che titolò a tutta pagina “Un grande passo per l’umanità”, riecheggiando addirittura lo sbarco sulla luna. E l’editoriale del conservatore francese Le Figaro, che commentò: “l’elezione di Obama ci riempie di ammirazione, ci ispira e ci restituisce la speranza che non solo in America, ma in ogni parte del mondo, davvero tutto è possibile”.

Meno entusiasti, ma simili, i sentimenti del 2012. Il primo mandato di Obama non fu miracolistico, ma i Repubblicani, il loro candidato Mitt Romney e i contenuti della loro campagna (i riferimenti alle armi, alla religione, a una politica estera aggressiva), restavano ancora assai indigesti per una gran parte degli europei.

Qualcosa di molto diverso, invece, si può notare in questa campagna 2016. Per cominciare, il magnetismo di Barack Obama non ha trovato un buon erede nel carattere più legnoso di Hillary Clinton. Non solo: la ex Segretaria di Stato non simboleggia più quella valorizzazione della differenza, del cambiamento e della gioventù non solo narrata ma anche incarnata dal personaggio-Obama – benché l’idea del primo Presidente donna sia una carta a suo favore, da questo punto di vista. Al contrario, la Clinton dà l’idea del ritorno di una politica “politicante”, oscura, elitaria se non dinastica. E questo indipendentemente dalla sua lunga esperienza nella politica sociale e nei servizi pubblici, d’altronde poco conosciuta in Europa.

Anche perché, più deciso che negli anni passati, soffia anche in Europa un vento “anti-establishment“: una grossa corrente che rende l’opinione pubblica più propensa che mai a svalutare le caratteristiche di una donna che è soprattutto una figura politica “di sistema” come la candidata democratica. Non pochi media hanno ripreso la caratterizzazione, comune in molte biografie uscite negli Stati Uniti, che fa di lei una novella imperatrice Livia, la moglie di Augusto che fu capace di scalare il potere all’ombra di un marito spesso addirittura manovrato, accettando ogni tipo di compromesso in nome dell’ambizione. Tra questi, forse inaspettatamente, c’è il francese Le Monde, a testimonianza della traccia profonda lasciata dai casi di cronaca politica che hanno riguardato il rapporto tra le donne e il potere in Francia.

Questo vento ha gonfiato anche nel Vecchio Continente le fila dei fan di Bernie Sanders, il socialista del Vermont prima sconosciuto. Stavolta il sostegno – per un candidato non portatore di slogan ecumenici alla Obama – si è limitato agli ambienti di sinistra, ma è stato rafforzato dalle inattese vittorie del Senatore nella fase delle primarie. Fino a perforare anche la linea di quei giornali progressisti che a lungo lo avevano trattato con freddezza per ragioni di politica interna (cioè per non legittimare, grazie alla loro controparte americana, le componenti della sinistra radicale nazionale). È il caso ad esempio dell’inglese The Independent e di La Repubblica. Ma soprattutto dello spagnolo El País (in Spagna lo scontro tra la “vecchia” sinistra e la “nuova” è allo zenit), che nei suoi reportage ed editoriali presentava Sanders come il candidato “insurrezionale”, “incontrollabile”, “rabbioso”, per poi mesi dopo riconoscerne il valore nell’aver ampliato l’elettorato di Hillary Clinton, e averne migliorato il programma.

L’antipatia di Hillary e il radicalismo di Bernie avrebbero dunque potuto, stavolta, fornire i conservatori e la destra europea di una bandiera di cui andare fieri nella politica americana. E non c’è dubbio che all’inizio della cavalcata di Donald Trump alcuni si fossero infatuati del miliardario newyorchese – non fosse altro che per il contrasto tra la sua esuberanza e la piattezza deprimente degli altri candidati Repubblicani. La quantità imbarazzante di gaffe accumulata da Trump, condite dalla superficialità e dall’arroganza che gli europei considerano uno dei peggiori aspetti degli americani, hanno ricostruito però un solido muro di sfiducia.

I troppi insulti e l’egocentrismo esasperato hanno oscurato l’aspetto potenzialmente più convincente del personaggio-Trump presso il pubblico europeo: ancora una volta, quello della rivolta “anti-establishment“. Un aspetto che gli aveva anche fruttato qualche prudente endorsement, in primo luogo da quei partiti che si presentano come anti-sistema. In particolare: “In America, chiunque tranne Hillary; Trump è contro le élite, come noi” (Marine Le Pen), e “Trump? Forse è meno peggio della Clinton, se i media gli danno addosso ci sarà un motivo” (Beppe Grillo).

Alcune delle sue proposte più tipiche suonano poi in alcune aree del Vecchio Continente del tutto irreali, e tra queste c’è la proibizione d’ingresso ai musulmani – ormai parte del panorama demografico di molti Paesi. La cosa fece infuriare persino l’ex premier inglese David Cameron, nonostante la vicinanza politica tra i Tory e i Repubblicani, che la definì “divisiva, stupida ed errata”. Ma non sono mancati applausi, da altre direzioni: il primo ministro ungherese, Viktor Orbán, apprezzò proprio quella proposta: “Per l’Europa non ci sarebbe idea migliore”.

Non è strano perciò che un sondaggio Pew abbia registrato in giugno, su tutta l’Europa, un consenso per Donald Trump limitato al 9% degli intervistati. Si tratta di un dato speculare a quello sul giudizio sull’amministrazione Obama, valutata in genere positivamente – ma, di nuovo, in maniera minore in Europa centro-orientale. Hillary Clinton però – proprio come accade negli Stati Uniti – non scalda i cuori, specialmente tra gli under 35.

Uno stato d’animo del genere ha ovviamente la sua eco sui media: il settimanale tedesco Die Zeit, deluso come molti altri, sottolinea “le tante bugie e le mezze verità che i due candidati continuano a dirsi, e a propinare al pubblico”, in una campagna di cui si aspetta soltanto la fine meno angosciante. “Pensate se uno come Trump avesse in mano la valigetta nucleare”, concludeva infatti poche settimane fa un suo editoriale il Times di Londra. Gli europei, benché senza entusiasmo, affiderebbero quella valigetta alla Clinton.