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Il Super Tuesday di Biden e Trump

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Nell’appuntamento centrale delle primarie per la scelta dei candidati alla presidenza degli Stati Uniti, ingombrante e travolgente come già dal nome, Super Tuesday, il risultato non ha tradito le attese: Donald Trump affronterà Joe Biden il 5 novembre. E’ un bis – anche se non pochi lo trovano indigesto: i candidati sono ottantenni e in questo momento non godono di larghi consensi – del voto del 2020. Allora fu Biden a prevalere, scalzando Trump dalla presidenza conquistata nel 2016 contro Hillary Clinton.

 

Dopo il ritiro del governatore della Florida Ron DeSantis, sconfitto al primo round in Iowa in gennaio, Donald Trump non aveva che un contendente a sfidare la sua egemonia totale sul Partito Repubblicano, in cui ormai ha piazzato parenti e fedelissimi nei posti chiave, come Napoleone sui troni dei regni che conquistava. Ma la ex Governatrice della South Carolina ed ex ambasciatrice all’ONU Nikki Haley ha perso in 14 stati su 15, di quelli al voto ieri. Ha vinto solo nel piccolo Vermont – uno Stato nel New England particolarmente libertario.

La popolarità di Trump nella base repubblicana è ineguagliabile. Ma qui c’è un punto da tenere d’occhio: si tratta di un fattore di forza durante le primarie, ma anche di un possibile fattore di debolezza al voto di novembre, quando l’elettorato deve allargarsi al di fuori della militanza. Trump ha stravinto in Texas e California, con il 78% dei voti. E con percentuali simili si è imposto al Sud, in Oklahoma, Tennessee, Alabama, North Carolina, Arkansas… Ma Haley ha superato il 30% dei consensi in alcuni Stati che a novembre saranno decisivi, e il cui risultato si deciderà per una manciata di voti: Colorado, Minnesota, e soprattutto Virginia. Non è detto che questi voti non possano rientrare. Ma non è nemmeno così scontato, considerata la polarizzazione senza appello e senza sconti che Trump opera sulla sua persona: chi non lo ha votato stavolta, insomma, potrebbe non volerlo votare mai.

“Stiamo facendo la storia”, ha detto Trump al termine dello scrutinio, nel suo discorso comprensibilmente compiaciuto. Le sue parole svelano gli argomenti con cui attaccherà Biden nei prossimi mesi. Per prima cosa, le “disfatte” dell’America nel mondo: colpa di Joe se Putin ha invaso l’Ucraina, colpa di Joe se Hamas ha attaccato Israele e se l’Iran ha rialzato quella testa che Trump aveva cacciato sotto terra. Poi, quelle interne: colpa di Joe (“il peggior presidente nella storia del paese”, lo definisce) se l’inflazione sta distruggendo la classe media. Colpa di Joe se l’America non ha più un vero confine e gli immigrati la invadono per terra per mare e per aria. “Il Paese sta morendo. Tutti ridono di noi”, conclude Trump: sapete cosa fare per farli smettere.

 

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Da parte sua, Biden ha vinto in (quasi) tutti gli Stati dove si votava: tutti? No, come il villaggio di Asterix, nel piccolo territorio delle Samoa Americane si è imposto Jason Palmer, uno sconosciuto riccone del Maryland. Ma a parte questa nota di colore, le primarie per un presidente uscente sono generalmente una formalità, e così accade anche stavolta. Nonostante le molte polemiche sull’età di Biden, sulla tenuta mentale e sulla sua lucidità, e la popolarità traballante secondo i sondaggi, dal Partito Democratico non è arrivato nessun vero sfidante. E Biden da mesi ha escluso di ritirarsi.

A proposito di ritiro, nonostante la sconfitta su larga scala Nikki Haley non ha ancora – almeno ufficialmente – annunciato il suo, avendo soltanto “sospeso” la corsa. Tecnicamente, Trump non ha ancora raggiunto il numero di delegati necessari ad avere la maggioranza alla Convention del partito che lo incoronerà candidato. Ma gli manca pochissimo, ce la farà tra pochi giorni. E allora? Le ipotesi sono due: forse Haley sta cercando di contrattare segretamente con Trump una posizione nel prossimo governo, se vince. Cioè: continuo a obbligarti a fare campagna elettorale per le primarie, facendoti sprecare tempo, soldi ed energie, continuando a tenere il partito diviso, finché non ci mettiamo d’accordo. E i soldi sono veramente un problema: Trump è stato condannato due settimane fa a risarcire oltre 350 milioni di dollari ad alcuni finanziatori, per averli ingannati sul valore reale delle sue aziende. Un mese fa, altra condanna: 83 milioni alla ex giornalista di Elle Elizabeth Jean Carroll, per diffamazione. A Trump potrebbe toccare di far pace con Elon Musk – i due hanno “divorziato” un paio d’anni fa – per stare senza pensieri fino a novembre.

Invece no, dicono altri: Haley vuole proprio che Trump perda. Catalizzando attorno alla sua figura quella parte di elettori repubblicani non disposta ad ingoiare una figura estrema come la sua, i 91 capi d’accusa, le responsabilità politiche per l’assalto al Congresso del gennaio 2021, la promessa di essere “un ditattore il primo giorno di mandato”, eccetera, potrebbe tenere questi lontani dalle urne a novembre, facendo muovere a favore di Biden l’ago di un’elezione incerta. Il messaggio sarebbe questo: Trump vi piace, ma vi fa perdere. Ha perso le mid-term del 2018, le presidenziali del 2020 e le mid-term del 2022 (e perfino quando ha battuto Hillary Clinton nel 2016, non ha conquistato la maggioranza dei voti popolari). Perderà anche nel 2024: se vogliamo tornare a vincere, bisogna liberarsi di lui. E’ questa in effetti anche la linea che Trump adotta in pubblico, quando (raramente) si degna di nominarla: “Haley lavora per Biden”.

Se questo è il problema più grosso nel campo repubblicano, quello democratico ha poco da sorridere. Biden infatti sta penando a imporre una narrativa convincente sulla sua campagna, che non sia l’anti-trumpismo, il voto per salvare la democrazia in America. Non è poco, ma non è detto che basti a mobilitare un elettorato un po’ sfiduciato e diviso: sull’economia, sulla politica internazionale – alcuni elettori delle primarie hanno votato scheda bianca per protestare contro il sostegno di Biden a Israele, molti in Minnesota (19% dei votanti), Michigan (13) e North Carolina (12).

 

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L’unità e la motivazione delle tante componenti del partito era stata decisiva nella grande vittoria del 2020. Smarrite quelle, come rischia di accadere ora, anche Biden lascerebbe a casa una quantità di voti sufficienti a perdere negli Stati decisivi. I sondaggi dicono che il 40% degli elettori democratici pensa che gli Stati Uniti vadano nella direzione sbagliata, e l’80% che la vecchiaia di Biden possa essere un problema. Valorizzerà la Vice Presidente, Kamala Harris, ogni tanto si sente dire: ma nessuno sa davvero come.

Joe Biden

 

Il 7 marzo il presidente pronuncia al Congresso l’annuale “discorso sullo Stato dell’Unione”: un momento fondamentale. Biden avrà l’occasione di offrire all’opinione pubblica un senso compiuto per la sua ricandidatura, e smontare la narrativa catastrofista trumpiana prima che questa s’imponga definitivamente. Infine, dovrà dimostrare quella lucidità e quella brillantezza che secondo molti non ha più – e che erano tra i suoi punti di forza.