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Il summit delle democrazie e gli interessi dell’Europa

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L’America guiderà il mondo con la forza dell’esempio e non con l’esempio della forza. Questa frase abbastanza pomposa viene ripetuta spesso da Joe Biden e dal suo segretario di Stato Anthony Blinken. Ma serve a capire se la nuova amministrazione democratica si muoverà nel solco dell’interventismo liberale degli anni di Clinton, se tornerà al ripiegamento di quelli di Obama o se prenderà una sua strada.

La premessa è semplice: gli Stati Uniti aspirano in ogni caso a una leadership globale. Fa parte, ha scritto su Atlantic il nuovo Consigliere alla sicurezza nazionale Jake Sullivan, del loro DNA: una federazione nata su principi ideali, prima che sulla unificazione territoriale, e con una missione da compiere. Quando l’America vi rinuncia lascia dei vuoti, oggi colmati da potenze autoritarie.

Il punto tuttavia è che la leadership comincia a casa (“la forza dell’esempio”): l’America deve funzionare all’interno per essere credibile all’esterno. La nuova amministrazione democratica sarà anzitutto concentrata su stessa. E sarà prevedibilmente prudente su nuovi interventi militari. Joe Biden, che come Senatore aveva approvato l’attacco all’Iraq del 2003, sembra avere appreso la lezione della storia: come Trump, non intende cacciarsi in guerre senza fine.

La maggioranza della società americana è del resto su questa linea. Rispetto agli anni di Clinton, questa amministrazione parte quindi con il freno a mano tirato: l’umiltà, per Blinken, aiuterà l’America a essere conscia dei limiti della propria influenza. Rispetto agli anni di Obama, la Casa Bianca cercherà però di rilanciare il ruolo globale degli Stati Uniti, nella convinzione che un ripiegamento eccessivo dell’America – l’esempio negativo è in questo caso la Siria – lasci campo libero a potenze autoritarie. I consiglieri di Biden guardano agli anni ’30 del secolo scorso: la sfida di questo secolo torna ad assumere i tratti della competizione ideologica fra sistemi rivali, aggiornata dal peso dell’interdipendenza economica, dal ruolo dei media e delle tecnologie. Tecno-democrazie contro tecno-autoritarismi.

Ecco. Questo è lo sfondo per leggere la proposta di un Summit delle democrazie, che la presidenza Biden intenderebbe mettere sul tavolo nei suoi primi 100 giorni. Il progetto – di per sé non nuovo ma attualizzato dal contesto – è di riunire Stati Uniti, i paesi chiave dell’Europa e le democrazie “indo-pacifiche” (Giappone, Corea del Sud, Australia, India) su un’agenda che potremmo intitolare così: la difesa della democrazia da tendenze illiberali, interne ed esterne.
In teoria è un’agenda in cui l’Europa si riconosce. Nella nuova agenda transatlantica, presentata il 2 dicembre scorso dalla Commissione europea e dall’Alto rappresentante per la politica estera, si legge infatti che l’Ue è pronta a fare la sua parte per il successo del Summit delle democrazie, cooperando con gli Stati Uniti e altri partner nella lotta contro la corruzione, l’autoritarismo e la difesa dei diritti umani nel mondo.

Nei fatti, tuttavia, gli europei avranno anche delle esitazioni, che proviamo ad anticipare per punti.
Primo: Lo schema democrazia contro autoritarismo non convince particolarmente l’Europa. Nutrono dubbi paesi come la Germania, perché temono che questo complichi ulteriormente i rapporti commerciali con le grandi economie autoritarie e trascini l’Europa in una specie di nuova guerra fredda. Vi vedono rischi aggiuntivi paesi come il nostro: l’Italia è in genere ostile a nuovi fori ristretti che possano ridimensionare il foro di cui Roma è già parte, il G-7.

Secondo: gli europei di scuola “real-politica” discutono se un approccio fondato sulla logica binaria democrazia contro autoritarismo favorisca la sicurezza dei paesi occidentali. Da mezzo secolo a questa parte, l’America ha sempre cercato di evitare un’alleanza stabile fra Cina e Russia, che sarebbe il contraltare inevitabile di un’operazione del genere.

Terzo, l’Europa teme ritorni all’indietro. L’ultimo presidente a parlare di diffusione della democrazia fu George W.Bush, con i risultati che conosciamo. Non solo: la maggioranza dell’opinione pubblica europea esprime ormai scarsa fiducia nel modello di democrazia degli Stati Uniti. Ricostruire una leadership su questo, come Biden vorrebbe, richiederà tempo.

Infine, ma non in ultimo, il disegno di un allargamento verso il Pacifico del club delle democrazie liberali segna comunque un certo ridimensionamento dell’Europa. E visto in termini geopolitici invece che valoriali, conferma lo spostamento verso l’Asia del centro di gravità della politica estera americana. L’idea sottostante è la nascita di una vasta coalizione di contenimento della Cina, lo sfidante vero del campo autoritario.

Insomma, l’Europa naturalmente accoglierà la proposta di Biden, lo hanno anzi già fatto le istituzioni di Bruxelles. Ma esisteranno delle riserve mentali, più o meno tacite. E gli europei si divideranno: fra sostenitori entusiasti (la Gran Bretagna di Brexit, alla ricerca di una sponda a Washington), partecipanti ambiziosi (la Francia, che si sente comunque l’alter ego degli Stati Uniti), alleati pragmatici (Germania e Italia: non si può che accettare) e tutto il resto, gli esclusi. A cominciare dai grandi esclusi potenziali con tendenze illiberali in casa, la Polonia vicina a Trump.

Le riserve europee sono in parte sbagliate: la presidenza democratica non parla di esportare la democrazia all’esterno ma di difenderla e consolidarla nei suoi perimetri attuali. La novità è che l’America fa un discorso europeo: in un’epoca di “recessione democratica”, le democrazie liberali vanno rafforzate da una sorta di vincolo esterno, non solo dall’interno. L’Europa sa già, per esperienza diretta, che è più facile a dirsi che a farsi. 

 

 


Una versione di questo articolo è stata pubblicata su La Repubblica del 29 novembre 2020