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Il subcontinente indiano sotto la pressione climatica

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I segnali giunti nella primavera-estate 2022 di quanto pesante sia l’impatto del cambiamento climatico sul subcontinente indiano non lasciano dubbi. Con l’affaccio sul Golfo del Bengala, le catene montuose più alte del pianeta e una quantità enorme di corsi d’acqua, tutta la regione a nord ed est del subcontinente è il luogo ideale, in negativo, per mostrare gli effetti più devastanti della crisi climatica. A seconda dell’area geografica e del periodo si è assistito a siccità estrema, inondazioni lontane dal tradizionale periodo delle piogge monsoniche in Bangladesh e Pakistan, e in alcune regioni dell’India uragani. E poi l’ondata di caldo record tra marzo e aprile che, secondo il rapporto annuale della rivista medica britannica The Lancet sugli effetti del cambiamento climatico sulla salute, ha determinato un aumento del 55% dei decessi in India rispetto agli intervalli tra il 2000 e il 2004 e 2017-2021. Lo studio segnala anche una perdita di 167,2 miliardi di ore di lavoro potenziali, che valuta in una perdita di reddito pari a circa il 5,4% del PIL del Paese.

Persone trovano refrigerio in un canale a Lahore (Pakistan) durante l’ondata di caldo della primavera 2022

 

Lo stesso rapporto di The Lancet stima che nel 2021 in India siano morte più di 3 milioni di persone a causa dell’esposizione al particolato dovuto alla combustione. E che concentrazioni medie domestiche di particolato superassero di 27 volte le raccomandazioni dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. In Bangladesh nelle case rurali si cucina con fornelli artigianali a carbone e uscendo da Dhaka lungo l’inquinatissimo fiume Buriganga è facile vedere colonne di fumo nero che si alzano dalle decine di forni per la cottura dei mattoni (7mila circa in tutto il paese).

 

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Come altrove, per il subcontinente indiano si parla dunque di rischi per il futuro, ma anche di effetti immediati sulla salute delle persone e sull’economia.

In India l’energia viene prodotta soprattutto con il carbone (ca. 40%), segue il petrolio, in Pakistan la produzione energetica viene da un mix di petrolio, gas, bio-combustibili, mentre in Bangladesh la fonte principale è di gran lunga il gas. In ciascun paese le fonti rinnovabili rappresentano una minima frazione della produzione (in India parliamo di una quota sotto al 5%, in Pakistan la fonte pulita è l’energia idroelettrica).

C’è quindi un enorme margine di crescita per queste fonti che ha bisogno di grandi investimenti. Piani ambiziosi in materia di transizione energetica implicano anche potenziali flussi di finanza estera – e viceversa: il Giappone, ad esempio, non finanzierà più impianti a carbone. In questo senso è scontato segnalare come i tre paesi del subcontinente non si trovino nella stessa condizione: con tutti i suoi colossali problemi, l’India è una grande potenza economica con una enorme classe media in crescita, il Bangladesh dovrebbe rimanere ancora per poco (2026) nell’elenco ONU dei Paesi meno sviluppati e il Pakistan ha un reddito pro capite più basso di entrambi.

Investire nella transizione energetica è dunque importante per l’economia come per la salute pubblica per ciascuno di questi Paesi, tanto quanto è complicato. Il primo ostacolo è lo sviluppo troppo rapido e inevitabile per tutto il subcontinente: la crescita, se non governata, produrrà più emissioni, non meno, rendendo impossibile il raggiungimento degli impegni presi da ciascun paese del subcontinente. Gli impegni sono diversi tra loro, con l’India che promette di ridurre l’intensità delle proprie emissioni del 45% (intensità, cioè quanto CO2 si emette per unità di prodotto, non riduzione in quantità assoluta) e di portare al 50% la produzione di energia da fonti rinnovabili; il Pakistan punta a ridurre del 50% le emissioni previste, se crescessero ai ritmi odierni, entro il 2030; il Bangladesh ha invece l’impegno di ridurre le proprie emissioni, una quota non condizionata dall’aiuto promesso nelle varie COP e un’altra quota a prescindere dall’aiuto finanziario internazionale, e ha ideato un ambizioso “Delta plan” per la gestione delle acque dello sterminato delta del Gange.

Parte del delta del Gange visto dal satellite (Fonte: ESA).

 

Quel che appare evidente guardando alle politiche di questi paesi è come, a meno di investimenti lungimiranti e programmati, lo sviluppo e la lotta alla crisi climatica siano in potenziale contraddizione. Si tratta di diffondere l’uso di pannelli solari nelle campagne, di fare programmazione urbanistica in maniera tale da avere città capaci di contenere i consumi energetici e produrre quel che si può per alimentare edifici pubblici e quelli di nuova costruzione e nelle infrastrutture, individuare aree rurali dove la produzione di energia rinnovabile su larga scala non sia un danno per chi vive di agricoltura – pena rivolte contadine e spinta ulteriore alla migrazione verso i centri urbani sovraffollati.

Le inondazioni e le piogge fuori stagione indicano anche che è necessario individuare forme di mitigazione degli effetti già visibili del cambiamento climatico e di transizione agricola verso colture capaci di resistere meglio alla siccità, alla salinità dell’acqua sui delta dei fiumi o varietà di piante capaci di maturare più in fretta, prima dell’arrivo di inondazioni precoci. In Bangladesh l’urgenza è più grave che altrove perché una quota importante della popolazione vive a ridosso di fiumi le cui piene spazzano via villaggi e campi, accrescendo la spinta migratoria verso la capitale Dhaka. Tra le altre cose importanti da fare c’è quella dell’educazione al cambiamento climatico delle popolazioni rurali, che si tratti di costruire una casa, di gestire l’acqua o di sapere come comportarsi in caso di eventi estremi improvvisi.

Come abbiamo visto, ciascun Paese ha piani e politiche nazionali. Il governo Modi, ad esempio, ha una politica aggressiva e ambiziosa ma, parallelamente e in sintonia con il proprio essere un governo dalla forte caratterizzazione nazionalista, prende impegni internazionali limitati. L’India ha piani e obbiettivi in materia di produzione e incentivi all’acquisto di auto elettriche e di transizione dal carbone al solare – che oltre a essere pulito ha ormai costi molto ridotti. Passi e investimenti si stanno facendo in quella direzione e un rapporto dell’IEEFA sostiene come entro il 2030 l’India dovrebbe giungere all’obbiettivo di generare il 50% della propria energia da fonti rinnovabili. Dal punto di vista delle emissioni di gas serra, già in atto o potenziali, è chiaro che tra i Paesi del subcontinente è l’India quello che può giocare un ruolo importante, essendo responsabile del 7% delle emissioni globali (e in crescita), contro l’1,1% di Pakistan e Bangladesh sommati.

A causa della sua conformazione, il Bangladesh ha come priorità quella del contenimento degli effetti della crisi climatica e su questo terreno mostra di avere capacità di innovazione. Tra il 2005 e il 2015 l’erosione ha causato perdita di costa a un tasso annuale di 11,4 km2 l’anno – più del doppio rispetto al periodo 1985-’95. Per questo grande attenzione viene posta su quei progetti che puntano a contenere e invertire questo fenomeno.

La sperimentazione più originale è forse quella della coltura delle ostriche davanti alle foreste di Mangrovia delle Sundarbans (a sua volta cruciale per la tenuta dell’ecosistema) e all’isola di Kutubdia. Le ostriche formano una barriera, favoriscono il depositarsi della sabbia e grazie all’ecosistema che producono, alimentano la crescita di piante e il proliferare di specie buone per la pesca e il commercio. La coltura delle ostriche è già uno strumento usato in Olanda e nel Golfo del Messico, la differenza con il Bangladesh è che nel Paese asiatico quelle colture non esistevano affatto. Gli esperimenti paiono funzionare. Altro aspetto cruciale per il Bangladesh è la questione che riguarda i finanziamenti dei progetti di transizione ecologica e mitigazione degli effetti del cambiamento climatico e di trasferimento di tecnologie adeguate: gli impegni presi nelle varie COP da parte dei paesi più ricchi non sono a oggi stati rispettati, per fare scelte complicate i governi dei Paesi poveri hanno bisogno di risorse e conoscenze specifiche. Troppo spesso, invece, le risorse derivano da investimenti esteri che tengono poco conto della questione ambientale.

 

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Ma in tutto il subcontinente indiano non sono solo le risorse o il know-how a mancare: scarse capacità politico-amministrative e cattiva gestione dei conflitti generati dalle scelte sono un grande ostacolo. Diverse voci critiche segnalano come in Pakistan, che pure prende impegni in sede COP, la mancata gestione delle acque, degli argini e dei sistemi di irrigazione, la mancata pulizia dei canali di scolo nelle città, accentui e aggravi gli effetti delle inondazioni. Pure la progressiva deforestazione, la seconda per rapidità in Asia dopo l’Afghanistan, non sarà d’aiuto. Corruzione e mancata formazione dei funzionari sono pure un problema.

Inoltre, come segnala un suo rapporto UN habitat sul Bangladesh, esiste un serio problema di governance: piani locali e nazionali che si sovrappongono e contraddicono, “Un amalgama molto complesso di politiche e piani, unito a un contesto politico difficile pone ostacoli all’approvazione di alcune decisioni. Mancanza di coordinamento e integrazione tra organizzazioni e agenzie governative. Sovrapposizione delle responsabilità delle organizzazioni governative. Difficoltà nella comprensione e nell’incorporazione della gestione dei disastri durante il processo di pianificazione a livello locale e nazionale”.

Un caso diverso è quello dell’India. Leggiamo da un’inchiesta di Outlook India: “Nel marzo 2020, il premier Modi ha dichiarato al Parlamento che le principali difficoltà per lo sviluppo dell’energia solare includono l’acquisizione di terreni e la mancanza di infrastrutture di trasmissione, i ritardi nei pagamenti da parte delle società di distribuzione in alcuni Stati e i ritardi nell’adozione delle tariffe da parte delle commissioni statali di regolamentazione dell’elettricità”. L’inchiesta segnala anche aste al ribasso e mancanza di risorse finanziarie per lo sviluppo di fattorie solari.

Kanpur, in India, è la città con l’aria più tossica del mondo in termini di particolato fine.

 

C’è poi il problema della quantità di terra necessaria per installare impianti fotovoltaici tali da rispondere ai piani del governo indiano. Per raggiungere gli obbiettivi servirebbero circa un milione di acri, ovvero 4mila km2, più o meno la superficie del Molise. Il problema è che larga parte delle aree dove la resa sarebbe migliore (terre calde e non coltivate) sono lontane dalle aree urbane e prive di infrastrutture necessarie per trasportare l’energia. Solo l’11% dei progetti di impianti a energia solare è dunque prevista in quelle zone. Solo il Rajastan e il Gujarat hanno individuato aree utili allo scopo. Si tratta quindi di trovare terra dove installare mega impianti e qui la complicazione sono i contadini e i contesti locali. Si tratta di acquisire terra da molti contadini che ne posseggono molto poca – il che significa aumento dei costi e dei tempi necessari a convincere a vendere. Oppure quel che può capitare sono proteste da parte di chi vede giungere un progetto che modifica il contesto tradizionale senza portare benefici a chi lo vive (qui un articolo scientifico che segnala tutti i problemi legati allo sviluppo del solare).

La transizione ecologica, lo vediamo bene in questi terribili mesi di guerra in Europa, è complicata e richiede sforzi, investimenti, visione. I Paesi che vanno ancora a carbone hanno la chance di saltare una fase dello sviluppo e passare direttamente alle rinnovabili, ma per farlo avranno le stesse difficoltà che conosce l’Occidente e in più bisogno di risorse, trasferimento tecnologico e capacità di gestione tecnico-politica.