Il senso politico del riconoscimento dello Stato di Palestina
La Francia. La Gran Bretagna. E poi Canada, Australia, Portogallo, Belgio, Nuova Zelanda… Con l’ultima ondata arrivano a 161 gli Stati che “riconoscono la Palestina” – espressione che va precisata in termini di diritto internazionale, come vedremo. 161 su 193. Per Netanyahu, è un premio ad Hamas e al 7 Ottobre. E Trump ha promesso dazi e ritorsioni. Ma perché? Che effetti avrebbe?
In realtà, nessuno: niente che incida sull’Occupazione, o sulla vita dei palestinesi, né a Gaza né in Cisgiordania. Intanto, per il diritto internazionale la Palestina è già uno Stato. All’ONU, ha la qualifica di stato osservatore non membro. Significa che partecipa ai lavori, pur senza votare – ma è uno stato. Perché in base alla Convenzione di Montevideo del 1933, si ha uno Stato quando si hanno quattro elementi: un territorio dai confini definiti, una popolazione permanente, e un governo effettivo, un governo, cioè, capace di intrattenere relazioni con gli altri Stati. Sulla questione dei confini, e del governo effettivo, i giuristi hanno sciolto ogni riserva da tempo – non fosse altro perché Israele per primo non ha confini definiti. La Palestina rientra nei parametri. E dunque, è uno Stato, perfino indipendentemente dal riconoscimento da parte degli altri Stati. Quel riconoscimento ha un valore, si dice, dichiarativo, non costitutivo.

Il riconoscimento è un atto politico. Non giuridico. Cosa diversa è invece l’appartenenza all’ONU a pieno titolo, cioè con potere di voto. Ma per diventare Stati membri, c’è un requisito in più: è necessario il voto favorevole dell’Assemblea Generale a maggioranza di due terzi, su raccomandazione del Consiglio di Sicurezza. E in Consiglio di Sicurezza, sulla Palestina si avrebbe il veto americano.
Esclusa dunque l’ammissione all’ONU, che conseguenze ha essere uno Stato? Fondamentalmente, se sei uno Stato hai accesso ai trattati internazionali, come quelli sul clima, e alle organizzazioni internazionali, per esempio il Fondo Monetario, o l’UNESCO, la FAO: ma soprattutto, hai accesso ai tribunali internazionali.
Quelli che contano sono soprattutto due. La Corte Penale Internazionale e la Corte Internazionale di Giustizia. Due corti molto differenti, perché la prima, come dice il nome, è una corte di diritto penale, una corte di nuova generazione che guarda alle responsabilità individuali per crimini di guerra e crimini contro l’umanità, mentre la seconda è una corte più tradizionale, che guarda proprio alle responsabilità degli Stati in quanto tali. E sul conflitto israelo-palestinese, sono entrambe già attive.
La Palestina è parte della Corte Penale Internazionale dal 2015. Tanto che il procuratore Karim Khan ha spiccato un mandato di arresto contro Benjamin Netanyahu – e contro Yahya Sinwar, leader di Hamas ucciso dalle forze israeliane nell’ottobre 2024. Non è parte, invece, della Corte Internazionale di Giustizia, perché per gli Stati non membri dell’ONU la procedura di ammissione è la stessa procedura prevista per l’ammissione all’ONU. Con la raccomandazione del Consiglio di Sicurezza. E dunque la barriera del veto americano.
Ma in realtà, non è che la Corte sia poi così incisiva. Ha due tipi di competenze: una contenziosa e una consultiva. Esercita la prima, e cioè, dirime controversie tra Stati, solo con il consenso di entrambi gli Stati coinvolti, l’accusato e l’accusatore: ed è improbabile che abbia mai il consenso di Israele – membro ONU dal 1949 e da quel momento, automaticamente, anche membro della Corte. Mentre la seconda consiste nella formulazione di pareri non vincolanti. E comunque, in questi anni la Corte ha bypassato il problema intervenendo su richiesta dell’Assemblea Generale, prima nel 2003 e poi nel 2024. La prima opinione ha sancito l’illegalità della barriera di separazione (il Muro) costruita da Israele nel 2002 attorno e dentro i confini della Cisgiordania e Gerusalemme Est stabiliti nel 1967. La seconda, l’illegalità della presenza continuata e duratura nel tempo degli israeliani in Cisgiordania e a Gerusalemme Est (l’Occupazione).
Che la Palestina sia o meno uno Stato membro, dunque, non cambia molto. Come è noto, su richiesta del Sudafrica, la Corte sta indagando su Gaza: sul rischio di genocidio. Perché il genocidio, o meglio, il divieto di genocidio, è un obbligo cosiddetto erga omnes: e cioè, un obbligo che ogni membro della comunità internazionale ha nei confronti di tutti gli altri. A prescindere da chi sia compiuto il genocidio, e dove, e contro chi. Chiunque ha il potere di agire. Anzi. Ha l’obbligo di agire. E’ questo un punto dirimente, che può trascinare ogni Stato nella condizione di complice, di fiancheggiatore.
Con un più ampio riconoscimento, per la Palestina sarebbe più semplice diventare parte del cosiddetto Bill of Human Rights, ossia il Patto sui diritti civili e politici e il Patto sui diritti economici, sociali e culturali del 1966, e altre varie convenzioni, come quella contro le discriminazioni, o a tutela dei bambini: che si riferiscono, però, al trattamento da parte di uno Stato dei propri cittadini. Non sarebbero applicabili, cioè, a quello che Israele fa ai palestinesi, ma a quello che fanno le autorità di governo palestinesi ai propri amministrati, de jure o de facto che sia.
Per il resto, resterebbe tutto uguale. L’impatto sull’Occupazione sarebbe zero. Da solo, senza altra iniziativa, l’annuncio del riconoscimento è uno stratagemma per fare, senza fare. Perché in realtà, già ora tutti hanno il potere, e l’obbligo, di intervenire: perché un altro obbligo erga omnes è quello in capo al diritto di autodeterminazione dei popoli.
Tutti hanno l’obbligo di imporre il suo rispetto. E invece, niente per i palestinesi. In teoria, l’annuncio della Francia è legato all’Arabia Saudita, e alla sua richiesta di vincolare l’adesione agli Accordi di Abramo, cioè della normalizzazione con Israele, al riconoscimento della Palestina, al cessate il fuoco a Gaza e alla rinuncia all’annessione della Cisgiordania. Ma senza la fine dell’Occupazione, la normalizzazione non basta ad avere uno Stato di Palestina. Anche la pace con l’Egitto, nel 1979, era condizionata alla creazione di uno Stato di Palestina. Anche quella con la Giordania, nel 1994. Anche quella con gli Emirati.
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Il riconoscimento non ha che un valore simbolico. O poco più. E dopo 60mila morti e 15mila dispersi, oltre una tonnellata di macerie a metro-quadro, non è molto. Su scala maggiore: ma è un po’ l’equivalente dei tanti appelli in circolazione. Carta straccia. L’ultimo, invita a spostare il proprio domicilio a Gaza. Come atto di solidarietà. Ma i palestinesi non vogliono solidarietà. Vogliono giustizia.
Per Paesi-cardine dell’Occidente, come appunto Francia e Gran Bretagna, che sono nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU, o Canada e Australia che non vi siedono, ma fanno parte dell’élite strategica dell’Occidente, il riconoscimento della Palestina presuppone la deviazione dalla linea degli Stati Uniti sulla questione, ed è perciò un gesto politico di grande valore – il che spiega le reazioni rabbiose da Washington e Tel Aviv. In effetti, come è possibile dichiararsi a favore della soluzione dei “due Stati” e poi riconoscerne uno solo?
Può essere certamente vista come una grave sconfitta politica di Israele e in particolare del governo di Netanyahu. Mentre la Striscia di Gaza veniva rasa al suolo, mentre la colonizzazione in Cisgiordania accelerava, mentre Paesi del Medio Oriente come Siria, Libano, Yemen, Iraq, Iran e Qatar venivano bombardati a turno (naturalmente con operazioni di portata e significato diverse) il sostegno dell’Occidente veniva meno. Sulla spinta di un’opinione pubblica indignata o spaventata, sì, ma anche sulla spinta di una sequela implacabile di fatti e misfatti non più possibili da ignorare o perdonare.
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Sconfitta politica che resterà solo simbolica, se il riconoscimento della Palestina è il punto di arrivo delle misure adottate dagli Stati coinvolti. D’altronde, la statualità della Palestina è al momento un’impossibilità geografica, per l’architettura della colonizzazione israeliana in Cisgiordania ancor prima che per la distruzione della Striscia di Gaza. Manca la continuità territoriale. Mancano le strutture amministrative. Manca il processo elettorale – e chissà che non sia la volta buona, vista la promessa di Mahmoud Abbas (eletto nel lontano 2005) alle Nazioni Unite il 23 settembre.
Se invece sarà un punto di partenza – con l’obiettivo finale di arrivare al riconoscimento della Palestina da parte di Israele, e ovviamente di Israele da parte di tutto lo spettro politico palestinese – la sconfitta dell’alleanza di Netanyahu con la destra suprematista religiosa e i rappresentanti dei coloni in Cisgiordania potrà essere definita come sostanziale. Ma lo sarebbe anche quella del modello autocratico e stragista di Hamas.
Non basteranno però in quel caso i gesti simbolici: una coalizione internazionale interessata a questo risultato dovrebbe porsi il problema delle sanzioni e della revisione degli accordi diplomatici e dei rapporti commerciali. Allo stesso tempo, il rinnovo della dirigenza palestinese, attraverso pressione internazionale, è altrettanto urgente. Siamo ancora in tempo perché dalle sterminate macerie morali e materiali di Gaza si faccia un passo in direzione della risoluzione del problema.