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Il Senegal tra alti tassi di crescita (pre-Covid) e rischio politico

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Il Senegal è “sull’orlo di un’apocalisse”. Riprendendo le parole di Alioune Badara Cissé, rispettato difensore civico della Repubblica senegalese, il paese-faro dell’Africa Occidentale francofona nelle ultime ore sta vivendo una fase delicata della propria parabola democratica, che ha raggiunto toni e violenza finora inediti. Ingenti manifestazioni di dissenso popolare sono scoppiate mercoledì 3 marzo a seguito dell’arresto del leader dell’opposizione Ousmane Sonko, formalmente accusato di violenze sessuali e minacce di morte ai danni di una giovane lavoratrice di un centro di bellezza della capitale Dakar.

Ousmane Sonko

 

Il politico 46enne, arrivato terzo alle presidenziali del febbraio 2019 con oltre il 15% delle preferenze, sostiene si tratti di un “processo politico” architettato dal governo per mettere fuori gioco lui e il suo partito – il PASTEF, Patriotes du Sénégal pour le Travail, l’Ethique et la Fraternité – in vista della prossima tornata elettorale del 2024. Qualche giorno prima, infatti, un Parlamento disertato dalle forze d’opposizione ha votato in blocco la revoca dell’immunità parlamentare al deputato Sonko, condizione necessaria alla sua incriminazione.

Dal canto suo Macky Sall, presidente sempre più contestato soprattutto dai giovani, ha risposto alle richieste di dimissioni invocate dalle piazze di Dakar, Saint-Louis, Ziguinchor, Kaolak e altre città senegalesi reprimendo nel sangue le manifestazioni: almeno otto morti secondo Amnesty International (cinque secondo le fonti ufficiali) e oltre 590 feriti soccorsi dalla Croce Rossa senegalese. Una televisione privata della capitale è stata chiusa per aver trasmesso le immagini degli scontri postate sui social network, dove si vedono poliziotti in borghese sparare sulla folla.

Oltre ai collettivi studenteschi dell’Università Cheick Anta Diop di Dakar – dalle elezioni del 2019 zoccolo duro dei sostenitori di Sonko – a scendere in strada sono stati anche diversi cittadini comuni preoccupati per la crisi multidimensionale che sta attraversando il paese, appoggiati perfino da parte della diaspora residente all’estero. Cominciate pacificamente, tali mobilitazioni sono degenerate fin dalle prime ore in barricate e blocchi stradali, macchine bruciate e saccheggi di luoghi simbolo del potere senegalese e dell’ex madrepatria coloniale francese: la sede della radio-televisione nazionale, alcuni supermercati della catena francese Auchan, diverse pompe di benzina Total e caselli autostradali Eiffage.

Fumi dalle barricate incendiate nelle strade di Dakar

 

La liberazione “sotto controllo giudiziario” di Ousmane Sonko, decisa dal giudice l’8 marzo su pressione della piazza dopo la conferma e l’ufficializzazione delle accuse, ha tamponato la collera nazionale. Il presidente Macky Sall, criticato anche per non essersi espresso pubblicamente nei primi giorni della protesta, è apparso in televisione solo la sera dell’8 marzo chiamando il proprio popolo alla “calma e serenità” – “lasciamo i nostri rancori ed evitiamo la logica del conflitto che porta al peggio” ha detto Sall – e annunciando un addolcimento parziale delle contestate misure anti-Covid (coprifuoco “copiato e incollato dalla Francia” nelle regioni di Dakar e Thies spostato dalle 21 alle 24).

Sonko, liberato a patto che non faccia esternazioni sui dettagli del processo, non lasci il paese e resti a disposizione della magistratura, ha risposto con un accalorato discorso, osannato dai suoi sostenitori e rimbalzato tanto sui media stranieri quanto sui social network (dove l’hashtag #freeSenegal è stato virale per diversi giorni). “Mai in Senegal il dibattito è stato così violento, così vendicativo, così emotivo. Mai nella storia del Senegal sono state evocate questioni sensibili come la religione, l’etnia, l’appartenenza regionale. E’ a questo a cui siamo arrivati. Macky Sall ha tradito il popolo senegalese, ha tradito il suo giuramento. Macky Sall non ha più la legittimità per guidare il Senegal” ha dichiarato il politico originario dell’irredentista regione della Casamance, chiamando tutti i senegalesi a “una mobilitazione ancora più massiva e pacifica” nei prossimi giorni.

L’”affare Sonko” è la goccia che ha fatto traboccare il proverbiale vaso della pazienza senegalese rispetto a un regime tacciato di “democrazia di facciata”, “corruzione endemica” e “connivenza con gli interessi neocoloniali stranieri”. Particolarmente preoccupanti, secondo i detrattori del governo, sono le concessioni di pesca elargite senza controlli negli ultimi anni a grandi flotte cinesi, turche ed europee che, denunciano i pescatori tradizionali e le associazioni ambientali, depredano le coste del paese battendo bandiera senegalese per spingersi in zone a loro formalmente vietate. Il settore ittico, recentemente sconvolto dai cambiamenti climatici e dalla crescente richiesta di pesce sui mercati internazionali, rappresenta uno dei principali motori dell’economia senegalese e vive una profonda crisi del tradizionale comparto informale a favore di attori stranieri sempre più rapaci.

Altro tallone d’Achille della fulminante ascesa economica senegalese – un dato su tutti: il PIL che, prima della pandemia di Covid-19, saliva di oltre il 6% all’anno – è il forte indebitamento con la Cina per la costruzione di grandi opere ed infrastrutture per modernizzare il paese. Il famigerato “Piano Senegal emergente”, fiore all’occhiello e brand di successo della presidenza Sall, riposa infatti, secondo molti economisti senegalesi, su proiezioni eccessivamente rosee circa lo sviluppo e la ricchezza futuribile del settore petrolchimico. Lo stesso Ousmane Sonko, non a caso, nel gennaio 2018 ha pubblicato un libro dal titolo Pétrole et gas au Senegal: chronique d’une spoliation che denuncia il paradosso dell’oro nero, la cui sostenibilità economica è oggi messa a dura prova dal crollo dei prezzi causato dall’epidemia globale del Covid-19.

Da alcuni anni ormai la generazione di giovani dell’Africa Occidentale francofona, che vede nei movimenti senegalesi l’avanguardia da seguire, mostra una sempre più marcata insofferenza verso la presenza (non solo militare) francese nell’antico “giardinetto di casa”, sfociata nelle recenti proteste contro la cosiddetta “Françafrique”, la “ricolonizzazione economica” e la “finta riforma” del Franco CFA, che hanno catalizzato un generale e diffuso sentimento anti-francese nella regione. Venti che preoccupano non poco Parigi.

Secondo alcune indiscrezioni trapelate durante le proteste senegalesi, infatti, pare che il presidente francese Emanuel Macron abbia in un primo momento ventilato l’ipotesi di un intervento militare a favore dell’alleato Macky Sall per sedare gli scontri. Opzione poi sfumata in una generica richiesta di liberazione di Sonko che, però, ha nutrito le polemiche circa l’ingerenza francese negli affari interni ai paesi africani.

Emmanuel Macron e Macky Sall nel 2018

 

Ulteriore tegola che pesa sull’entourage presidenziale è la voce, sempre più insistente a Dakar, circa la volontà della maggioranza governativa di cambiare la costituzione per permettere un terzo mandato al “re Sall”. Un punto su cui hanno insistito molto, negli ultimi mesi, Ousmane Sonko e tutte le forze d’opposizione, ricordando le lotte popolari che nel 2012 hanno destituito l’ex presidente Abdoullaye Wade, anch’egli preso da tentazioni di eternizzare il suo  potere, e portato alla ribalta lo stesso Macky Sall.

Sottolineando le scarse prospettive e la disaffezione verso la politica di un esercito di giovani condannati ad “attraversare l’oceano senza protezioni”, con esplicito riferimento alle piroghe di migranti irregolari che nel 2020 hanno ripreso a solcare l’Atlantico in direzione delle Canarie (più di 19mila arrivi, 500 morti e 400 dispersi nel solo 2020, secondo i dati dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni) il difensore civico Alioune Badara Cissé ha dichiarato: “Era prevedibile che arrivasse il momento in cui sarebbe saltato il coperchio”. A fargli eco sul sito della radio France Inter è il giornalista francese Pierre Haski: “Questa crisi senegalese va presa assolutamente sul serio, perché evidenzia il fallimento di un sistema di governo postcoloniale arrivato al capolinea”.