Il semestre di presidenza e il ruolo geopolitico della Germania europea
“La Germania starà bene solo se starà bene anche l’Europa. Per me questa frase anche oggi è molto, molto importante”. Così lo scorso 18 giugno, alla vigilia del Consiglio europeo di giugno, si esprimeva Angela Merkel, davanti al Bundestag. Lo stesso concetto veniva ribadito da Merkel al Parlamento europeo lo scorso 8 luglio, in occasione del discorso di apertura del semestre europeo – che per la seconda volta, caso unico, è di turno sotto la sua guida.
Bundeskanzlerin dal 2005, al suo quarto mandato, la Cancelliera del rigore dei conti pubblici ha capito da tempo che l’interesse nazionale tedesco passa dalla sopravvivenza dell’Unione Europea. La pandemia ed i suoi effetti hanno però determinato la necessità di imprimere una svolta alla sua strategia europea: è necessario che tutto (molto) cambi, perché tutto resti com’è – avrebbe detto Tomasi di Lampedusa.
La geografia politica del Consiglio europeo e il piano per la ripresa
All’indomani del Consiglio europeo fiume (battuto solo da quello di Nizza nel 2000, per una ventina di minuti) che ha chiuso il negoziato tra gli Stati membri su Recovery Plan e prossimo quadro finanziario pluriannuale (QFP), Angela Merkel si riconferma infatti determinante per la definizione del futuro del progetto politico dell’UE.
Spesso dipinta come garante della stabilità dell’UE negli ultimi vent’anni, essa ne aveva però nel contempo determinato l’immobilismo, ancorato al paradigma ordo-liberista della cosiddetta austerity. Nelle dinamiche della geopolitica europea, aveva quindi sempre sommato il suo ingombrante peso specifico a quello dei paesi più restii ad uno sviluppo dell’integrazione europea. A lungo è stata il punto di riferimento dei membri dell’ex blocco sovietico, la cui fresca indipendenza rende refrattari a vincoli esterni, inclusi quelli che, assicuratisi di partecipare alla spartizione dei fondi dell’Unione, sono entrati, negli ultimi anni, in una spirale autoritaria. Questa ha trovato terreno fertile nei postumi dell’ultima crisi economica che, eclatante nel caso greco, ha colpito tutta l’Unione, determinando un generale ripiegamento verso la dimensione nazionale.
La reazione dell’Unione alla crisi post-2008 – reazione ormai quasi unanimemente riconosciuta come profondamente sbagliata – è infatti stata improntata all’ossimoro dell’austerità espansiva, che ha evidenziato una faglia, tuttora attiva, tra paesi “mediterranei” che richiedevano un sostegno economico diretto e paesi “nordici”, indisponibili a qualsiasi forma di redistribuzione e condivisione (dei rischi e del supporto ai paesi in difficoltà). La narrativa prevalente raccontava di uno scontro tra cicale e formiche, come nella favola di Esopo. Fino a ieri, la Germania si è sempre fatta scudo dei secondi, di fatto bloccando qualsiasi evoluzione dell’UE.
Il coronavirus ha fatto saltare questa silenziosa alleanza, grazie ad un solido, inedito gioco di squadra tra i paesi mediterranei, che ha visto il presidente francese pungolare continuamente l’altro pezzo dello storico motore dell’UE, ma, soprattutto, un ruolo se non di game changer, sicuramente fortemente propulsivo in capo all’Italia, e al suo premier Giuseppe Conte. La pandemia gli ha fornito l’occasione di affiancare a legittime richieste, peraltro non nuove, di revisione del sistema politico-decisionale della UE in materia di economia e bilancio che portassero una risposta comune alla crisi, un richiamo alla ragione stessa di esistenza dell’Unione.
Quest’ultima sarebbe infatti uscita completamente delegittimata da una mancanza di intervento, e pronta ad implodere, se non avesse dato prova evidente della sua utilità per i cittadini. Angela Merkel, come molti, ha condiviso il richiamo di Conte: rendendosi conto che il rischio era forte e concreto, ha abbandonato il suo consolidato approccio attendista per schierarsi dalla parte degli innovatori. Si tratta di un passaggio dal chiaro valore storico: la Cancelliera si è dimostrata consapevole che lo scenario globale e la compenetrazione tra le economie europee rendono inscindibile ormai l’interesse della Germania da una buona riuscita del progetto europeo.
Se l’accordo finale conferma immutata la centralità tedesca proprio in apertura del suo semestre di presidenza, così non è per il volto dell’Unione. La redistribuzione interna all’UE a vantaggio degli Stati più in difficoltà in ragione del Covid-19 e il finanziamento degli aiuti tramite debito europeo previsti dal Recovery Fund (“Next Generation EU”, NGEU) costituiscono un passo fondamentale nella direzione di un’unione organicamente economica e fiscale, necessariamente solidale. Non solo, ma addirittura si sancisce un’apertura verso la definizione, in tempi diversi, di nuove risorse proprie per l’UE. Per ottenere questo risultato, sono state fatte – è vero – concessioni non secondarie alla coalizione dei paesi cosiddetti “frugali”, storicamente portatori di interessi comuni, cui si è unita l’Austria di Sebastian Kurz.
Si va dagli importanti rebates assicurati alla coalizione contraria nell’ambito del prossimo QFP, ad un indebolimento delle politiche davvero comuni (con tagli a ricerca, ambiente, fondo per la transizione equa), al ribilanciamento della proporzione tra sovvenzioni e prestiti di NGEU a favore dei secondi, all’esclusione di una forte condizionalità sullo stato di diritto. La governance del quadro finanziario pluriannuale è stata un altro fondamentale punto del compromesso: ogni Stato potrà ricorrere, in circostanze eccezionali, al cosiddetto “freno di emergenza”, rinviando al Consiglio europeo – in mancanza di accordo in Consiglio – la discussione sui trasferimenti ai singoli paesi. I negoziati hanno quindi anche squarciato ogni velo di ipocrisia sulle posizioni degli Stati membri sul futuro politico-istituzionale dell’UE.
L’accordo costituisce già, agli occhi di tutti il grande successo della presidenza tedesca: a dispetto delle sperticate dichiarazioni sulla temporaneità ed eccezionalità dell’intervento, un embrione di soggetto pubblico europeo. A dispetto di tutto però, non è questo il principale grattacapo di Merkel alla guida dell’UE. Trovare la quadra sul piano di ripresa e sul prossimo QFP, e trovarla in fretta, costituiva la condizione indispensabile per potersi dedicare a tempo pieno alla grande questione dell’autunno: quella commerciale.
L’autunno caldo delle relazioni commerciali
Nel Ventunesimo secolo, il principale partner economico della Germania sono stati – a differenza che per gli altri Stati UE – gli Stati Uniti. Secondo i dati pubblicati dal Federal Statistical Office (Destatis), addirittura, negli ultimi 3 anni, gli USA sono stati superati dalla Cina nel volume di scambi con la Germania – anche se rimangono il primo partner commerciale per la UE nel suo insieme. Le turbolenze dei rapporti commerciali con i due colossi mondiali sono quindi al centro delle preoccupazioni della Cancelliera.
La guerra dei dazi scatenata da Trump nei confronti della Cina – uno scontro che vive, proprio in questi giorni, preoccupanti recrudescenze che investono le relazioni diplomatiche – si era rivolta, soprattutto a partire dallo scorso settembre, anche all’Unione Europea. A seguito decisione dell’organismo per la risoluzione delle dispute nel caso Airbus-Boeing, infatti, il WTO (l’Organizzazione mondiale per il commercio) aveva autorizzato gli USA ad innalzare i dazi nei confronti dei prodotti europei a 7,5 miliardi di dollari l’anno. Per marzo era attesa la sentenza speculare – che avrebbe dovuto condannare il colosso statunitense, ma la pandemia l’ha rimandata al prossimo settembre; nel frattempo, Airbus dopo essere intervenuta negli ultimi mesi sui sussidi ricevuti da UK, Germania e successivamente anche Francia e Spagna, si dichiara ora conforme con quanto previsto dalla decisione del tribunale WTO. Persino Boeing ha fatto, nei mesi scorsi, passi in avanti per mettere fine ad una guerra di sussidi pubblici che dura da più di 15 anni, ma l’amministrazione Trump non pare per ora intenzionate a ridurre i dazi introdotti.
Le tensioni commerciali tra USA e UE non finiscono qui: la disputa sulla tassazione dei giganti del web è appena agli inizi. Il quasi-monopolio che gli Stati Uniti detengono sui servizi digitali rende Washington particolarmente refrattaria all’introduzione di una tassazione che obbligherebbe i colossi del web a pagare le tasse dove producono utili e impedirebbe loro di proteggerli trasferendoli nei paradisi fiscali. Questa tassazione è invece fortemente voluta in Europa, anche perché rientra fra le nuove potenziali risorse proprie con cui ripagare interessi e debito contratti dall’UE con NGEU. A metà di giugno, gli USA hanno deciso di sospendere la loro partecipazione al negoziato OCSE in merito, e quegli Stati che già avevano introdotto una tassa nazionale in merito (Francia) o sono sul punto di farlo (come Germania e Italia), si trovano ora sotto il ricatto di ulteriori dazi statunitensi.
A ciò va aggiunta la questione sul completamento del gasdotto Nord Stream 2 che, raggiungendo le coste tedesche da quelle russe attraverso il Mar Baltico, dovrebbe aggiungere 55 miliardi di metri cubi di gas all’anno agli altrettanti già forniti dalla Russia alla Germania. La questione, delicatissima, tocca questioni che attengono la sicurezza europea e l’approvvigionamento energetico della Germania in primis – che lo presenta da sempre come un’opera strategica per tutta l’UE, incontrando l’opposizione netta dei paesi baltici e del blocco di Visegrad nonché malumori diffusi (il Parlamento europeo si è espresso duramente contro il progetto nel 2016). La costruzione è in mano a Gazprom, società controllata dal Cremlino, e il suo completamento, oltre a rafforzare un’alleanza tra Germania e Russia mal vista da Donald Trump, sottrarrebbe quote di mercato a Washington. Per cercare di impedirlo, gli USA hanno minacciato sanzioni a qualsiasi compagnia aiuti i russi a completare l’opera.
Le relazioni commerciali transatlantiche si annunciano insomma particolarmente agitate nella seconda metà dell’anno, e la Germania si trova proprio nell’occhio del ciclone.
Se verso occidente si addensano nuvoloni neri, a oriente il cielo non è terso. Saltato (ormai pare definitivamente) il summit UE-Cina previsto per settembre a Lipsia, è stata rinviata a data da destinarsi la firma dell’accordo comprensivo sugli investimenti. Questo avrebbe dovuto nelle intenzioni di Merkel fino a qualche mese fa, segnare un punto di svolta nelle relazioni con Pechino, ed indicare una “terza via” che ponesse l’UE anche al riparo dal rischio di finire schiacciata nella guerra commerciale tra i due colossi mondiali. Oltre all’accordo che garantisse finalmente agli investitori europei in Cina di godere di pari diritti e possibilità rispetto agli investitori cinesi, nonché di avere un maggiore accesso al mercato, il summit sarebbe dovuto servire – nelle ambizioni della Cancelliera – a compiere passi avanti in tema di salvaguardia del clima.
Nel frattempo, il summit UE-Cina online del 22 giungo scorso si è svolto in un clima più teso del solito in ragione, principalmente, di due elementi: da un lato la questione di Hong Kong; dall’altro, pochi giorni prima del vertice, la Commissaria Margrethe Vestager, aveva adottato un “libro bianco” finalizzato a limitare la capacità di intervento nel mercato europeo di aziende finanziate da Stati terzi; una misura dal sapore protezionistico, evidentemente mossa dalla lunga assenza di reciprocità tra l’apertura del mercato europeo e quello cinese, e volta a proteggere il mercato interno dalle potenziali distorsioni portate, in particolare, dalle imprese di Stato cinesi.
Nonostante queste premesse, l’incontro non è stato negativo, ma ogni passo concreto è stato rimandato e Merkel dovrà cercarsi spazio di manovra.
Instradata con l’accordo raggiunto al Consiglio europeo la partita interna all’Unione, il semestre tedesco di Presidenza vedrà quindi con tutta probabilità Angela Merkel impegnata in prima linea nella difesa degli interessi commerciali dell’Unione, da cui passano, con tutta evidenza, quelli tedeschi. C’è da augurarsi che la consapevolezza del livello di compenetrazione tra gli interessi tedeschi e quelli dell’Unione raggiunto dalla Cancelliera sia diffuso in Germania e sia altrettanto chiaro nella testa di chi le succederà alla guida del paese nell’autunno dell’anno prossimo (anche se, nel post-pandemia, non è esclusa una ricandidatura della “ragazza dell’est”). Perché se il semestre di presidenza termina a fine anno, la crisi economica causata dal coronavirus durerà molto più a lungo, così come la necessità di dare vita a un più solido progetto europeo.