Il salario minimo in chiave comparata: il coraggio delle riforme
Il salario minimo per legge è un argomento che divide. Sono anni che se ne dibatte in Italia. E sono anni che la sua introduzione è messa in bilico da un sistema tradizionale di regole ad esso repellenti. Infatti, il potere di determinare la retribuzione spetta alla contrattazione collettiva nazionale con efficacia generalizzata, come quella di una legge, ma non al legislatore.
Sulle spalle delle parti sociali, in altre parole, è riposta la responsabilità di preservare l’articolo 36 della Costituzione, a garanzia di un salario sufficiente e proporzionato alla qualità e alla quantità del lavoro svolto e in grado di garantire un’esistenza libera e dignitosa al lavoratore e alla sua famiglia. Espressione di quel principio c.d. “lavorista” intessuto dai Padri costituenti nella trama della Carta dei diritti.
In questa prospettiva, la dignità del lavoro non si esaurisce nel salario ma il benessere economico del lavoratori è condizione preliminare per lo sviluppo delle rispettive personalità nella formazione sociale, per una vita fondata sulla relazione con l’altro e, dunque, in definitiva, per la fioritura della persona nel lavoro.
Sono tasselli che fanno libero, partecipativo, creativo e solidale il lavoro, come è stato definito da Papa Francesco con l’esortazione apostolica Evangelii Gaudium. L’ho ricordato anche nel mio recente volume (“Il lavoro che cambia. Una nuova prospettiva solidale”, Edizioni San Paolo, 2021).
Il sistema, in linea di massima, ha funzionato per l’Italia. Grazie, principalmente, alla capillare copertura della contrattazione collettiva nei diversi settori produttivi.
Il discorso muta per Paesi come la Germania. Dove gli accordi collettivi sulla retribuzione non hanno mai goduto di automatica efficacia generalizzata, spettando al legislatore riconoscerla, con la c.d. “dichiarazione di cogenza generale” (“Allgemeinverbindlichkeitserklärung“), ma a due stringenti condizioni.
La prima: la sottoscrizione dai sindacati rappresentativi di imprenditori con alle dipendenze almeno il 50% degli addetti dell’intero settore; la seconda: l’approvazione dal Comitato per la Contrattazione Collettiva, composto da 3 rappresentanti del sindacato e da 3 imprenditori.
Il sistema tedesco, in linea altrettanto di massima, non ha funzionato.
Dagli anni 2000, da un lato, le aziende hanno rinnegato il sistema di rappresentanza nazionale in favore di contratti aziendali “cuciti a misura”, dall’altro, all’interno del Comitato, sono sorti molti contrasti. Secondo i dati EIRO (Osservatorio Europeo sulle Relazioni Industriali) tra il 2004 e il 2007, gli incrementi salariali su base collettiva si sono attestati sull’1,8% contro la media europea del 5,53%.
E così, addetti dello stesso settore produttivo hanno regolarmente percepito per lo stesso lavoro retribuzioni diverse, con conseguenti fenomeni di dumping e di distorsione della concorrenza tra imprese. Da qui, la scelta del Ministro del Lavoro del Governo Merkel, Andrea Nahles, di introdurre per legge, nel 2015, un salario minimo e, come tale, uguale per ciascun contesto produttivo.
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Anche negli Stati Uniti la situazione è diversa da quella italiana. Non esiste un omologo articolo 36 della nostra Costituzione; il salario minimo orario è storicamente fissato per legge.
Il dibattito statunitense, per la gran parte, si è incentrato sul rapporto tra tale salario e occupazione. Polarizzato tra i sostenitori della teoria secondo cui esso non determina un incremento della disoccupazione e quelli di segno contrario. Tra i primi, si annovera il premio Nobel, David Card, noto al riguardo anche per un articolo scritto con Alan Krueger nel 1994 dopo diverse valutazioni empiriche.
Dunque, nell’ottica di migliorare le cose, l’interrogativo non deve tanto riguardare l’opportunità di un salario minimo per legge ma cosa non funziona in un sistema retributivo dominato dalla contrattazione collettiva come quello italiano. Ci sono almeno quattro principali bias.
Primo. Da alcuni anni, spuntano, come funghi, contratti collettivi nazionali di lavoro che sviliscono i diritti, con condizioni a ribasso. Vengono definiti “contratti pirata” e sono siglati da parti con rappresentatività almeno dubbia. Ad oggi, secondo i dati del Cnel (Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro), si contano più di 800 contratti collettivi nazionali di lavoro. Ma c’è di più. La possibilità di una così ampia scelta non contrasta nemmeno il lavoro nero, privo cioè di copertura normativa, il cui tasso ancora raggiunge il 13% della forza lavoro, con circa 3,3 milioni di lavoratori coinvolti.
Sfoltire la giungla di contratti è una scelta che non può procrastinarsi. La strada è quella della delimitazione dei soggetti abilitati a sottoscriverli, attraverso indici precisi della loro rappresentatività rimessi alla parti sociali.
Seconda distorsione. La contrattazione collettiva aziendale ha ancora spazi troppo limitati, rispetto a quella nazionale. Anche la crisi economica ha dimostrato che l’articolazione tra i livelli di contrattazione dovrebbe sbilanciarsi in favore di quella secondo livello, in grado di cucire discipline dei rapporti di lavoro a misura di ogni singolo contesto produttivo. Una delle soluzioni è quella di ampliare il potere dei contratti aziendali di derogare a quelli di primo livello, sul modello dell’articolo 8 della legge n. 148 del 2011, e le deleghe di cui essi dispongono, ovvero le aree di competenza diretta.
Terzo bias. L’Italia è un Paese costituto da territori diversi e quindi da diversi costi della vita. Banalmente, una retribuzione percepita al Sud, dove questo costo è basso, non corrisponde in termini di potere di acquisto, a una percepita al Nord, dove questo costo è alto. Lo smart working, grazie a cui molti lavoratori sono tornati nelle città di origine, molte meridionali (c.d. south working), ha acceso i riflettori sul fenomeno. Non bisogna cadere nell’imboscata delle vecchie “gabbie salariali” ma rimodellare la retribuzione per i lavoratori più poveri, con innesti sul welfare, agevolazioni fiscali e contributive, elementi accessori legati alle contingenze territoriali.
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Quarta distorsione. Il nostro Paese è ancora vittima di un incredibile gender pay gap. Il reddito medio delle donne rappresenta il 59,5% degli uomini a livello complessivo, anche perché i ruoli di maggior peso sono ancora occupati prevalentemente dagli uomini. Ad esempio, secondo il rapporto Eurostat degli inizi del 2021, le donne manager sono meno di un terzo: solo il 28%.
E’ compito della contrattazione collettiva tracciare strategie di parità per bilanciare le diversità, insieme al legislatore. Nell’ottobre 2021, il Senato ha approvato le modifiche al c.d. Codice delle Pari Opportunità (d.lgs. n. 198 del 2006), con interventi premiali in favore delle aziende che adottano strategie per la parità di genere. Ma sono altrettanto importanti politiche di conciliazione dei tempi di vita e lavoro che consentano alle donne di fronteggiare, con serenità, le sfide professionali, come l’offerta di asili nido, servizi all’assistenza familiare, strumenti di supporto al lavoro da remoto, servizi di baby-sitting.
In definitiva, il salario minimo rischia di essere una foglia di fico. Il Paese ha bisogno di altri interventi. E alla portata delle parti sociali, che continuano ad essere nevralgiche. Nonostante i molti detrattori, ha ragione il premier Mario Draghi quando afferma che “contro il non governo, serve il coraggio delle riforme” .