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E se la Cina fosse debole e insicura?

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L’idea che Xi Jinping sia il più potente leader politico cinese dai tempi di Mao è diventata quasi un luogo comune. Eppure, qualche dubbio dovrebbe venire. E se ci fossero elementi strutturali di debolezza sul piano interno, è logico pensare che anche la proiezione internazionale della Cina come grande potenza andrebbe ripensata con attenzione.

Xi Jinping rappresentato come Mao

 

Il quadro interno

Partiamo da un punto. Il potere, quello vero, non solo non ha bisogno di titoli, ma tende a non apparire. Quando un imperatore cinese si mostrava, lo faceva assai di rado e ai comuni mortali appariva insieme al sole sul far del mattino. La sua vista doveva essere una vera e propria epifania. Se si vuole un’idea della complessa coreografica che ciò comportava si legga il “Viaggio nell’interno della Cina e della Tartaria”, vale a dire il resoconto della missione diplomatica di Lord Macartney in Cina, scritto dal suo secondo George Staunton.

Anche Mao, del resto, compariva di rado in pubblico. Tralasciamo poi il fatto che i presidenti in Cina sono come dei re filosofi confuciani, il cui compito è quello di indicare la rotta, tratteggiare i grandi processi, non intervenire nelle cose della quotidianità. Xi Jinping, al contrario dei suoi predecessori, interviene anche su questioni di normale amministrazione, diciamo così, quasi prendendo il posto del povero primo ministro Li Keqiang; ma fin qui potrebbe trattarsi di una normale evoluzione dei tempi.

Come si diceva, però, il potere vero non ha bisogno di titoli, né di cariche. Deng Xiaoping, che ha impresso una svolta epocale al paese, di fatto era solo presidente della Commissione Militare Centrale, mentre l’ex presidente Jiang Zemin, che non ricopre più alcun incarico dalla metà degli anni duemila, ha continuato a esercitare una fortissima influenza sul paese per anni, attraverso la rete di suoi affiliati, la cosiddetta “fazione di Shanghai”. Xi Jinping al contrario, cumula cariche su cariche e, caso senza precedenti dopo la morte di Mao, per perpetuare il proprio potere ha dovuto eliminare il limite dei due mandati.

Altra questione. Subito dopo la sua ascesa ai vertici massimi del partito e dello Stato, Xi iniziò a istituire tutta una serie di organismi paralleli a quelli del partito e della pubblica amministrazione, nei quali c’erano solo suoi fedelissimi. La ragione era semplice: non poteva fidarsi di nessuno e questo significava che non controllava né il partito né la pubblica amministrazione. Di qui l’ondata di purghe successive, immense per ampiezza, che certamente hanno eliminato un po’ di avversari, ma hanno anche prodotto grosse sacche di scontento.

A tutto ciò si aggiunge la strategia della “tolleranza zero” nella lotta contro il Covid, che implica una cosa di proporzioni colossali, e cioè la chiusura quasi ermetica del paese al resto del mondo. Una strategia che ha poche possibilità di successo, visto che la comunità scientifica mondiale insiste sull’idea di una convivenza con il virus. Non solo, ma questa strategia ha dei costi economici immensi per un paese che non è riuscito ancora a portare a termine la transizione della propria struttura economica e continua a crescere trainato dalle esportazioni e dunque dall’apertura al resto del mondo.

 

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Se la strategia della “tolleranza zero” nei confronti del Covid non ha alcuna possibilità di avere successo dal punto di vista sanitario e produce disastri dal punto di vista economico, allora a che serve? È possibile che abbia finalità politiche e sia utilissima a un leader in difficoltà a controllare un paese che era diventato troppo aperto per i gusti di qualsiasi aspirante imperatore. Non a caso le fasi di apertura in Cina si contano sulle dita di una mano e durano poche decine di anni. È quasi una costante: il dispotismo prospera in paesi chiusi, mentre appassisce quando si aprono le porte.

Se così stanno le cose, allora potrebbe non essere del tutto campato in aria immaginare che il leader cinese, come suoi illustri predecessori che coltivavano la passione per il dispotismo, sia entrato in una spirare di assillo da ipercontrollo e paranoia. Di qui la necessità di chiudere il paese e impedire che elementi destabilizzanti si infiltrino.

Forse è utile far notare che Xi Jinping non lascia il paese da quasi due anni. Certo la crisi pandemica, certo è necessario che il timoniere sia sul ponte di comando nel momento delle difficoltà. Ma se il nostro avesse paura che mentre è fuori gli portino via la poltrona e cambino la serratura?

Le norme che erano state introdotte da Deng Xiaoping (limite dei due mandati, gestione collegiale, cooptazione da parte del leader in carica del suo successore) servivano a creare una struttura ortopedica intorno a un potere che per la sua natura rivoluzionaria è illegittimo. Nelle monarchie e nelle democrazie le norme che definiscono chi ha il diritto di comandare e chi il dovere di ubbidire sono chiare: il figlio del sovrano precedente nel primo caso, e chi prende più voti nel secondo caso. Nei regimi nati dalle rivoluzioni, quando muore la prima generazione, non si sa come trasmettere il potere alle generazioni successive.

Il punto è che nel momento in cui Xi elimina le norme che Deng aveva messo in piedi per normalizzare il potere in Cina, di fatto fa diventare il suo potere doppiamente illegittimo. Illegittimo rispetto alle fonti della legittimità classica (il principio monarchico ereditario e quello democratico elettivo) e illegittimo rispetto alle norme forgiate da Deng e che hanno retto il paese per decenni. Il che significa che il potere di Xi Jinping è illegittimo al quadrato.

Questo che cosa vuole dire? Che se è vero che i poteri illegittimi hanno paura e fanno paura, il nostro ha una paura doppia rispetto ai suoi predecessori di finire vittima di agguati e congiure e ha bisogno di fare paura due volte per poter rimanere al potere.

 

I pericoli sul versante internazionale

C’è poi il fronte internazionale, che (come sempre in politica) è strettamente legato a quello interno. L’ipotesi della debolezza, più che della forza di Xi, spiegherebbe anche la maggiore aggressività a livello internazionale, con la Cina che fa la voce grossa sia nei confronti di Taiwan che di Washington. Il che sarebbe esclusivamente a uso e consumo interno e servirebbe a utilizzare la leva del nazionalismo per costruirsi nella popolazione quel consenso che non ha nei palazzi. Ciò però produce due effetti assai negativi: il primo genera un peggioramento del clima internazionale nei confronti di Pechino; il secondo rischia di produrre delusione a livello interno quando, dopo aver promesso di spezzare le reni a Taipei, Xi eviterà di invadere l’isola, visto che non avrebbe niente da guadagnarci. Allora forse bisognerà ricordarsi che è abbastanza facile cavalcare la tigre (del nazionalismo), il difficile è scendere senza essere sbranati.

Il fatto è che una serie di valutazioni sbagliate da parte di Pechino stanno rischiando di portare il confronto con Washington su un piano inclinato.

I leader cinesi, infatti, sono convinti che l’Occidente e gli Stati Uniti abbiamo imboccato la via del declino e – come i fatti di Kabul dello scorso agosto mostrerebbero – la stiano percorrendo a tappe forzate. Il che significa che la Cina può gettare la maschera e dire apertamente al mondo che cosa vuole e cioè riprendersi tutto quello che un tempo era suo, sia a livello di riconquiste territoriali (Taiwan, Mar Cinese Meridionale) sia dal punto di vista simbolico, vale a dire riconquistare il vertice di un ordine regionale fatto di stati vassalli deferenti.

 

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Evitiamo per ora di entrare nel merito delle rivendicazioni territoriali cinesi (spesso dubbie) e lasciamo per ora da parte l’aspirazione egemonica (in un ordine internazionale fatto di Stati e cittadini che hanno uguali diritti, difficile che funzioni). Il punto è che Pechino, convinta di non pagarne le conseguenze, ha gettato alle ortiche il vecchio monito di Deng Xiaoping di mantenere un basso profilo e tenere nascosti i propri obiettivi di lungo periodo, ma il prezzo di una tale scelta si sta rivelando altissimo.

Negli ultimi decenni, infatti, la Repubblica Popolare era riuscita a costruire un clima di grande favore nei propri confronti in tutta la comunità internazionale, sia a livello globale che regionale, tanto che c’è stato un periodo in cui l’Australia sotto la premiership di Kevin Rudd sembrava essere uscita dal mondo anglosassone per infilarsi in un’area di co-prosperità sinica. I geografi la chiamano “diversione di orientamento”: erano anche gli anni in cui sembrava che Pechino potesse essere il motore di una integrazione regionale a tre, con Seul e Tokyo, addirittura sul modello dell’Unione Europea.

Oggi la Cina è quasi del tutto isolata, con l’Australia che entra nell’asse dell’AUKUS, Tokyo che fa della sicurezza di Taiwan una questione di interesse nazionale, senza che i vecchi spettri dell’imperialismo nipponico ritornino a svolazzare, anzi diventa un motore della cooperazione rafforzata  della Quadrilateral Defence Initiative (“Quad”), mentre Biden accarezza forse l’idea di fare con la Russia quello che Richard Nixon fece con la Cina: allearsi con il più debole per usarlo contro il più forte. Quasi inconsapevole di ciò (Edward Luttwak parla di autismo da grande potenza) la Cina continua a spingere nella direzione sbagliata.

Il punto è che sulla carta Pechino non ha alcun interesse a tirare troppo la corda, perché la sua crescita economica ne soffrirebbe e così le relazioni già tese con i paesi della regione, e probabilmente non avrebbe neppure alcuna possibilità militare di averla vinta; a Pechino, infatti, sembrano non capire che la forza degli Stati Uniti sta nel suo sistema di alleanze, che si rafforza ogni giorno in cui la Cina si fa più minacciosa all’esterno e autocratica all’interno.

Tuttavia, la filosofia della storia dei propri leader, vale a dire la convinzione che la Cina abbia il vento in poppa mentre gli Stati Uniti stanno affondando, così come la convinzione della ineluttabilità della propria ascesa e della possibilità di riappropriarsi di quel ruolo di grande potenza che sente spettarle di diritto, potrebbe portare la Cina a fare proprio quello che da un punto di vista razionale non dovrebbe fare. Cosa? Pensare di poter facilmente cogliere un frutto, che agli occhi di Pechino sembra maturo (l’egemonia regionale), ma che in realtà è assai acerbo. Il che produrrà il risultato opposto a quello che i leader cinesi si prefiggono: cercano il vertice del potere regionale e troveranno un isolamento globale

Se Xi Jinping, invece di emulare Mao, leggesse von Hayek, scoprirebbe che a ogni azione umana intenzionale fanno seguito conseguenze non-intenzionali e che le vie del paradiso sono lastricate di buone intenzioni.

 

 


* Una versione di questo articolo è stata pubblicata su Stroncature in data 11 e 13 novembre 2021.