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Il ritorno a casa dell’industria italiana

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L’epidemia del coronavirus ha messo in dubbio l’affidabilità delle catene del valore attorno a cui si era organizzato il commercio internazionale negli ultimi venti anni.

Due sono gli aspetti rilevanti. Il primo, attuale e drammatico, riguarda produzioni che oggi si scoprono di vitale interesse per la sicurezza nazionale: da certe apparecchiature mediche fino a protezioni low tech, come le mascherine chirurgiche.

Queste produzioni sono in molti casi scomparse nei paesi occidentali e sono divenute appannaggio di paesi a basso costo del lavoro – in particolare della Cina. Proprio in questi giorni ne scopriamo le conseguenze, con i Paesi europei che cercano freneticamente di ripristinare e aumentare produzioni domestiche e di bloccare le esportazioni, mettendo in dubbio lo stesso mercato unico europeo. Il problema si è rivelato particolarmente acuto anche per la tendenza degli ospedali di mantenere, per ragioni di costo, inventari limitati, ricorrendo al cosiddetto streamline inventory management.

Il secondo aspetto concerne la produzione di beni non essenziali, ma che sono componenti delle catene di fornitura. Prendiamo un banale esempio: dall’inizio di quest’anno imprese del Nord-Est italiano che producono biciclette sportive sono rimaste senza fornitura di telai che provenivano da zone della Cina colpite dall’emergenza. Casi di questo tipo ve ne sono molti. Oltre la metà delle aziende hanno sofferto interruzioni o rallentamenti nelle proprie filiere, rischiando di vedere spezzato per un tempo indeterminato il proprio ciclo produttivo. Meccanica, elettronica, moda, farmaceutica: in realtà buona parte del manifatturiero italiano rischia di essere colpito da un ritardo delle forniture asiatiche, oltre che, naturalmente, dalle difficoltà domestiche di produrre nelle attuali condizioni.

Già prima dell’attuale emergenza da più parti veniva messo in discussione l’attuale sistema di produzione globale. Il ricorso anche massiccio a tariffe doganali, le tensioni commerciali tra Stati Uniti e Cina, le teorie sul decoupling tra le due principali economie, avevano già gettato ombre sulla tenuta dei principi basati sulle regole multilaterali del WTO. Gli effetti si vedono: per esempio, diverse multinazionali americane stanno abbandonando l’assioma che considerava la presenza produttiva in Cina un elemento essenziale per le proprie catene di fornitura. A questo si aggiungono naturalmente le considerazioni di sicurezza nazionale, legate a tecnologie avanzate, come in materia di comunicazioni.

Tutto ciò comporterà inevitabilmente un ripensamento delle filiere. Si tratta di un processo inesorabile di reshoring che, al di là dell’atteggiamento dei policymaker, le imprese opereranno spontaneamente e probabilmente su larga scala.

Per un Paese come l’Italia, fortemente orientato alla manifattura, è necessario intercettare questo movimento e beneficiarne direttamente.

Non è il compito dell’oggi, momento in cui lo sforzo deve essere tutto sulle misure sanitarie e sul processo di superamento anche economico della fase emergenziale, con le giuste misure a protezione dei lavori, della liquidità e della continuità delle aziende e dei commerci.

Una volta però finita la fase più acuta della crisi, la visione di più lungo termine deve prevalere, ponendo il tema del ripopolamento industriale. Solo cosi la ripresa potrà essere facilitata e spinta verso il rimbalzo necessario.

Si può pensare a fast track autorizzativi per nuovi presidi produttivi e riabilitazione di quelli esistenti. Si deve facilitare la rimessa in attività dei molti capannoni che punteggiano le nostre aree industriali e che sono inerti da anni. Si tratta, questa, di una misura a costo zero, ma che necessita una mobilitazione della pubblica amministrazione, attraverso uno sforzo del sistema a tutti i livelli. Procedure “emergenziali” di risposta devono essere adottate anche per il ripopolamento industriale.

Inoltre, potrebbe essere introdotto uno specifico superammortamento per investimenti che riportino produzioni in Italia. Si tratterebbe di un incentivo fiscale semplice e automatico, già conosciuto in quanto modellato sul superammortamento e iperammortamento del piano Industria 4.0. Le imprese che ne usufruiscono lo contabilizzano direttamente in conto economico, senza passaggio attraverso la pubblica amministrazione.

Riportare produzione in Italia significa aumentare l’occupazione; se il reshoring avvenisse in maniera massiccia gli effetti potrebbero essere importanti. Per questo una misura di premialità per le assunzioni dedicate a progetti industriali di reshoring, con attenzione a far sì che l’occupazione sia aggiuntiva, potrebbe costituire un interessante ulteriore incentivo.

Un rientro domestico delle produzioni avrebbe implicazioni molteplici: da preferenze di acquisto del consumatore locale, soprattutto, ma non solo, nel B2C, fino alla possibilità di sfruttare le ultime tecnologie e modelli produttivi tipica di quando si procede a investimenti di tipo greenfield.

In questo quadro, si devono infine anche valutare le esternalità positive del reshoring. L’accorciamento delle catene del valore avrebbe una componente importante di sostenibilità in termini di minori emissioni di CO2 della filiera. Una filiera più corta è non solo più affidabile, ma anche più sostenibile. Produzioni domestiche, in Italia o più in generale in Europa, eviterebbero inoltre effetti indesiderati di nuovi, ben possibili, dazi sulle importazioni. Si parla infatti da tempo di una Carbon Border Tax, che imporrebbe tariffe alla frontiere dell’Unione per i prodotti ad alto footprint carbonico.

In un certo senso, dopo i programmi “Destinazione Italia” sull’attrazione degli investimenti e quello sull’attrazione del capitale umano (“Italy in Next and Now”), sarà necessario un programma sul “ritorno delle fabbriche”.