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Il presidente senza opposizione e la sua strada in salita

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Non è stato il trionfo annunciato, anzi: è piuttosto ambigua la situazione di Emmanuel Macron. Il nuovo Presidente godrà di una buona maggioranza di deputati in parlamento: i francesi hanno consentito al nuovo inquilino dell’Eliseo di avere i numeri sufficienti per governare. Ma non si è trattato di una vittoria “imperiale”, come molti avevano annunciato – si credeva infatti possibile che il partito del Presidente, la République en marche, avrebbe conquistato l’80 o il 90% dei seggi disponibili. Invece, se lo si mette a fuoco in tutti i suoi aspetti, il quadro francese ha molto in comune con quanto sta accadendo negli altri Paesi d’Europa.

Le elezioni legislative in Francia hanno testimoniato una volta di più la difficoltà di rappresentare politicamente i nuovi orientamenti dell’elettorato, nonostante il meccanismo dei collegi elettorali che avrebbe dovuto avvicinare di più il popolo agli eletti. Meno della metà dei francesi ha partecipato al voto, con punte di astensione altissime tra gli under 35 e le fasce sociali più marginali. Più della metà dei seggi (308 su 577) sono andati ai candidati di Macron, il gruppo di prescelti “nuovissimi e bellissimi” su cui ha ironizzato Le Monde, benché la lista abbia raccolto solo poco più del 30%.

Il resto degli scranni parlamentari sono stati attribuiti quasi come polvere di stelle alle tante formazioni in gioco. MoDem, il partito centrista di François Bayrou, vecchio lupo di mare della politica francese ora passato sotto le bandiere di Macron, ne ha ottenuti 42. La destra tradizionale, Les Républicains nati dall’UMP di Jacques Chirac e Nicolas Sarkozy, ne mantiene 113 dei 226 della scorsa legislatura. Un’amputazione dolorosa, ma nemmeno paragonabile a quella subita dal Partito Socialista, la forza che raccoglieva attorno a sé la maggioranza assoluta durante il quinquennio di François Hollande, che passa da 284 a 30 deputati: la presidenza più impopolare della storia francese ha presentato un conto davvero salato. Ai trenta socialisti si aggiungono 12 indipendenti di sinistra “di area” e 1 verde. La France Insoumise di Jean-Luc Mélenchon, eletto in un collegio marsigliese, porta a casa 17 deputati, come i centristi conservatori dell’UDI, ma alla truppa della sinistra radicale si sommano i 10 eletti del redivivo Partito Comunista Francese (“pare proprio che non siamo ancora morti”, ha commentato uno di loro). È una bella rivincita su Marine Le Pen, passata al ballottaggio alle presidenziali di maggio con pochi voti in più di Mélenchon: la dirigente del Front National ottiene solo 8 seggi – un numero misero per chi puntava addirittura alla presidenza. Marine Le Pen finalmente conquista il collegio sicuro di Hénin-Beaumont, la cittadina del Passo di Calais governata dal Front, che le era sfuggito di un soffio cinque anni fa; ma le servirebbero altri sette deputati per costituire il gruppo parlamentare, mentre alcuni dei suoi più stretti collaboratori, come Florian Philippot in Alsazia, hanno subito una bruciante sconfitta.

L’ambiguità cresce se si considera il posizionamento delle forze esterne all’area di governo – tenendo conto che destra e sinistra radicale si porranno all’opposizione senza se e senza ma. La destra tradizionale, dopo la sconfitta di François Fillon, si è sfilacciata. Se i suoi seggi ne fanno la seconda forza parlamentare, Les Républicains sono senza una guida, anche perché lo stato maggiore del partito è stato falcidiato nelle urne. Molti, raccolti attorno a una truppa di deputati rieletti in regione parigina, una delle zone di forza di Macron, stimano che l’idea migliore sia sostenere il nuovo Presidente e le sue riforme più “liberali”, in attesa magari di un rifondatore della destra. D’altronde, il nuovo primo ministro, Édouard Philippe, faceva parte dei Républicains fino a tre mesi fa. Altri deputati, guidati dal nizzardo Eric Ciotti, rieletto in una zona dov’è forte il Front National, pensano che la strada giusta sia quella dell’opposizione. La possibilità che perciò il gruppo parlamentare si spacchi da subito esiste.

I pochi deputati socialisti sono ugualmente già divisi tra loro. Anche in questo caso gli eletti nella regione parigina (ma anche nell’Ovest, altra zona di forza della sinistra), che temono di essere fagocitati dalla sinistra radicale, radicata in quella stessa zona, vanno a schierarsi tra i tifosi di Macron. Tra loro c’è Manuel Valls, l’ex presidente del governo (2014-16), sconfitto alle primarie in cui i Socialisti scelsero il loro candidato presidenziale Benoit Hamon, quindi transitato a sostenere Emmanuel Macron pur restando nel partito socialista, rifiutandosi dunque di fare campagna per Hamon, lasciato a schiantarsi da solo nelle urne. Il triplo salto carpiato di Valls è riuscito, se lo guardiamo dal punto di vista della rielezione: l’ex primo ministro passa (per soli 139 voti) a Évry, pochi km a sud di Parigi, contro una candidata della France Insoumise – dunque anche grazie ai voti degli elettori macroniani. Se Valls voleva invece ritagliarsi il ruolo di possibile stampella esterna per la maggioranza di Macron, magari offrendo il proprio sostegno a caro prezzo, dovrà invece accomodarsi in un folto gruppo di aspiranti.

Il quadro che abbiamo delineato, quello di un’assemblea che si presenta composita, variegata, imprevedibile, multiforme, è l’opposto del solito ritratto di un parlamento francese obbediente e irreggimentato.

È questa forse la grande novità del ciclo elettorale in Francia, a conferma di una tendenza europea: quello che veniva considerato negli anni recenti un vecchio arnese della democrazia, un accessorio del potere decisionale dei governi e dei capi di Stato, il parlamento, è tornato in auge assumendo una nuova centralità nella politica.

Il voto legislativo francese segue di pochi giorni le elezioni anticipate del Regno Unito: anche lì, il destino di Theresa May è appeso alla capacità di costruire consenso alla Camera dei Comuni, perché i Conservatori hanno perso la loro maggioranza assoluta. Negli stessi giorni, passato un po’ in ombra per l’accavallarsi continuo di notizie dal resto del continente, un fatto ci ha ricordato che anche in Spagna, paese in cui di solito l’assemblea legislativa è subordinata di fatto al governo di turno, le cose sono cambiate. Il primo ministro Mariano Rajoy, a capo di un governo di minoranza dopo il triplo ciclo elettorale del 2106, ha dovuto affrontare in aula una mozione di sfiducia presentata dalla sinistra radicale di Podemos. Il voto è stato perso da Podemos: 170 contrari, 82 favorevoli, e 97 astenuti; ma la somma degli astenuti e dei favorevoli alle dimissioni di Rajoy è sufficiente, se coagulata attorno alla giusta alternativa, a costruire in parlamento una diversa maggioranza di governo.

Non è un mistero che questo sia l’obiettivo del rinato segretario socialista spagnolo Pedro Sánchez, che punta a ripetere in Spagna l’esperimento portoghese. In Portogallo, a fine 2015, dopo un risultato elettorale piuttosto confuso e senza che ci fosse un accordo in precedenza, le forze della sinistra hanno trovato a sorpresa una maggioranza in parlamento per sostenere il socialista António Costa al governo. E, restando nella penisola iberica, il Parlament di Barcellona – dove i secessionisti hanno la maggioranza, ma il sentimento della regione non è per niente definito – giocherà un ruolo chiave nei mesi che precederanno il referendum sull’indipendenza della Catalogna previsto per il 1° ottobre.

Senza scomodare l’Italia e il risultato del referendum costituzionale che ha affondato il tentativo di diminuire le prerogative di Camera e Senato, anche in Germania e in Olanda è nelle aule parlamentari che si stanno dirimendo le questioni centrali che agitano le arene politiche. I Paesi Bassi, dopo il voto di marzo, sono ancora occupati con le trattative tra i partiti per costruire una maggioranza parlamentare – anche se il primo ministro dovrebbe essere di nuovo il liberale Mark Rutte. In Germania ci sono pochi dubbi sull’ennesima riconferma di Angela Merkel alla Cancelleria, alle elezioni di settembre: non si sa, invece, quale coalizione la sosterrà, visto che nessun partito, da solo, appare in grado di ottenere la maggioranza al Bundestag.

“Non siamo la Russia”, chiosava Mélenchon nei suoi comizi, chiedendo il voto dei francesi per limitare la maggioranza di Macron. Ma la svolta parlamentarista in corso allontana l’Europa anche dagli Stati Uniti dove – per quanto il Congresso sia difficile da addomesticare – il potere del Presidente e gli effetti dei cambiamenti di orientamento degli elettori sono blindati dalla Costituzione entro certi limiti strutturali praticamente invalicabili.

I nuovi orientamenti dell’elettorato in Europa hanno invece sconvolto i vecchi sistemi politici, hanno portato alla ribalta nuovi leader, hanno rinvigorito partiti prima marginali, hanno originato nuovi partiti, hanno punito severamente alcune proposte politiche esaurite, e hanno convinto e allo stesso tempo disorientato l’opinione pubblica in generale – come dimostrano gli andamenti altalenanti delle affluenze al voto. Il colpo sferrato dall’elettorato è stato forte e ha spiazzato gli elettori stessi, oltre che alcuni dei leader che avevano pensato di cavalcarlo.

Il parlamento, il luogo in cui la democrazia costruisce i suoi compromessi e i suoi equilibri, ritrova centralità proprio perché ci troviamo all’interno di simili processi. Perfino i punti di riferimento considerati più forti, come Emmanuel Macron grazie al potere che gli garantisce la presidenza francese e Angela Merkel grazie al suo radicamento nei meccanismi di potere tedesco ed europeo, devono sorreggersi grazie ad alchimie politiche inedite o magari fantasiose (chi avrebbe pensato pochi mesi fa che la Francia avrebbe sotterrato in un attimo il suo bipolarismo?). Addirittura in Ungheria – lo stato che si tende ad etichettare come autoritario per definizione – il parlamento potrebbe ritrovare un ruolo di valore se alle elezioni del prossimo anno il partito di Viktor Orbán perdesse la maggioranza assoluta.

Si è detto e ridetto che la crisi dell’Unione Europea può essere risolta solamente con un ritorno alla politica e alla discussione. La cittadinanza europea si sta dimostrando pronta per l’appuntamento: il cambiamento nei sistemi politici avviene nel rispetto delle regole democratiche (un fatto più volte messo in dubbio durante questi anni di crisi politico-economica). E, almeno sul continente, gli elettori hanno deciso di non premiare le forze contrarie all’integrazione europea. Starà ora alle classi dirigenti promosse alla fine di questo ciclo elettorale, e ai raggruppamenti del prossimo parlamento europeo da eleggere nel 2019, offrire una risposta convincente al bisogno di nuova rappresentanza, di cambiamento, di discussione che gli elettori stanno esprimendo.