international analysis and commentary

Il peso della storica inimicizia India-Pakistan

1,169

La firma del presidente G.W. Bush suggella, nel dicembre del 2006, l’accordo di cooperazione sul nucleare civile tra Stati Uniti e India. È un accordo che consente al governo indiano di acquistare reattori e combustibile nucleare e di adoperare know how americano in fatto di tecnologie avanzate. L’iter ha richiesto diversi mesi ma alla fine Delhi e Washington si dicono soddisfatte.

Si è trattato di un passaggio decisivo della politica asiatica in tema di armamento nucleare, in un continente dove l’atomica fa parte del patrimonio militare cinese e russo ma il nucleare “illegale”, ossia fuori dal Trattato di non proliferazione nucleare (TNP, in vigore dal 1970) conta almeno quattro Paesi: India, Pakistan, Corea del Nord e Israele). Per India e Pakistan la bomba è comunque una realtà dichiarata e rivendicata in un equilibrio precario che, proprio con l’accordo del 2006, ha avuto un’accelerazione. Islamabad ha seguito l’iter dell’accordo con apprensione, ma lo ha fatto anche Pechino. L’equilibrio del terrore, garantito dal possesso dell’atomica, è sempre stato il filo rosso sul quale si è giocata la partita tra India e Pakistan, gemelli separati nel 1947 dalla “Partition” dell’India britannica. E Islamabad si sente sempre un passo indietro, fronteggiando un avversario peraltro più grande da molti punti di vista.

Le tensioni tra i due Paesi, al di là delle guerre (1947-1965-1971) o degli “incidenti” militari (Kargil 1999), non sono mai mancate neppure in tempo di pace. Una pace armata. Nel 1986 ad esempio, l’Operation Brasstacks, condotta dall’India in Rajastan al confine occidentale col Pakistan, mette immediatamente Islamabad in allarme: Delhi, in quelle che annuncia come normali “esercitazioni”, schiera allora 600mila uomini e tutto il dispositivo della marina e dell’aeronautica. Una sorta di prova generale in caso di attacco al Pakistan. A Islamabad fanno i conti: Delhi può colpire le centrali pachistane in 3 minuti, i pachistani in 8. La tensione è alle stelle.

Nel 1988, sui due fronti, si assiste a una nuova dimostrazione di forza: cinque esplosioni nucleari in India l’11 maggio, seguite da altrettante in Pakistan il 28 e da una sesta il 30. Il confronto fortunatamente rientra, scongiurandosi così uno scontro diretto tra le due potenze nucleari, ma l’episodio segna indelebilmente i rapporti bilaterali.

Nel 2001, è l’attacco terroristico (organizzato dal gruppo islamista kashmiro Jaish-e-Mohammad) al Parlamento indiano, e nel 2008,  sono gli attentati nel cuore di Bombay, a portare al massimo grado la tensione diplomatica.

Lo scontro sulle responsabilità degli attacchi terroristici  fa agitare più o meno apertamente lo spauracchio del first strike nucleare, soprattutto nel 2001. Negli anni Duemila, le testate nucleari sono circa un centinaio a testa. È in quella occasione la diplomazia internazionale a raffreddare gli animi di due Paesi retti allora da governi forti (il dittatore militare Musharraf in Pakistan) e molto nazionalisti (il Bjp al governo di Delhi). La tensione si è poi allentata ma il processo di riconciliazione tra i due Paesi continua ad essere in alto mare, mentre non frena la corsa agli armamenti –  un pericolo che gli Stati Uniti, ma anche la Russia, vorrebbero scongiurare.

Il programma nucleare pachistano inizia nel 1972 quando al potere c’è Zulfikar Ali Bhutto, il padre di Benazir e l’uomo che il generale-dittatore Zia ul Haq farà impiccare. Bhutto è un civile, modernista e di idee socialiste, ma teme la supremazia militare dell’India, il vicino che è grande quattro volte più del Pakistan, ha una popolazione sei volte più numerosa, e il cui programma nucleare è iniziato nel 1967. Bhutto darà l’incarico di preparare la bomba a Munir Ahmad Khan, a capo della Pakistan Atomic Energy Commission dal 1972 al 1991, e che aveva già ricoperto un posto di rilievo nell’International Atomic Energy Agency (Aiea). Il premier pachistano vuole la bomba entro quattro anni, ma l’impresa riuscirà solo ad Abdul Qadeer Khan – il padre del Progetto Kahuta e dell’atomica pachistana – nel 1984 (due anni prima  della citata operazione  Brasstacks condotta dagli indiani). Nel 1988 Islamabad è in grado di fare i primi test.

La rincorsa è proseguita, e oggi la preoccupazione pachistana è legata agli sforzi dell’India per sviluppare il suo primo sottomarino nucleare;  il “Paese dei puri” sta così lavorando  a un progetto analogo. Non è un mistero che la tecnologia che riguarda il nucleare provenga in buona parte dalla Cina, la principale alleata del Pakistan nel quadrante, anche se Pechino ha sempre smentito.

Se quella della simmetria nucleare tra India e Pakistan è da sempre la prima preoccupazione reciproca (è difficile stabilire quale delle due potenze abbia in effetti la maggior capacità di offesa) è emersa negli ultimi anni una nuova questione: ossia la possibilità che in un Paese – come il Pakistan –  dove la presenza terroristica è forte e conclamata, un’eventuale vittoria dei jihadisti doti l’islam radicale della bomba (nell’unica nazione a maggioranza musulmana che ad oggi la possiede).

Ovviamente si tratta di un pericolo teorico, ma gravissimo come è facile comprendere. Durante l’epoca (1977-88) di Zia – un dittatore di ispirazione islamista – la preoccupazione era addirittura che il governo potesse essere direttamente colluso con gruppi estremistici. Più recentemente, è noto che Al Qaeda ha studiato un possibile piano di sviluppo dell’arma nucleare e Daesh/ISIS potrebbe fare altrettanto, utilizzando infiltrati nel programma nucleare o sfruttando i legami con settori deviati dei servizi. Fittizia o reale che sia l’ipotesi, gli Stati Uniti si sono mossi per cercare con il Pakistan un accordo simile a quello siglato con l’India proprio per attenuare le tensioni tra i due Paesi asiatici e garantire un maggior controllo internazionale sul nucleare pachistano e sulla possibilità che sia “copiato” da terzi.

Ci sono però anche altri attori con grandi interessi: il Pakistan è in effetti molto corteggiato, in primis dall’Arabia saudita, proprio per la sua capacità offensiva nucleare. Quando l’anno scorso il governo pachistano si è rifiutato di mandare le sue forze armate nello Yemen (in appoggio a quelle saudite) e si è dimostrato freddo all’appello di Riad nicchiando sulla  sua partecipazione alla grande coalizione contro il terrorismo nata con evidenti intenzioni anti-iraniane, per i sauditi si è trattato di uno schiaffo che ha turbato le tradizionalmente solide relazioni tra i due Paesi: La presenza del Pakistan a fianco di Riad significa di fatto per i sauditi poter contare sulla capacità nucleare del Pakistan, “pilotandola” a distanza – grazie soprattutto alle proprie risorse finanziarie – anche  come deterrente.

Il futuro è molto incerto, anche se i rapporti diplomatici hanno registrato qualche gesto di buona volontà. I rapporti bilaterali restano tesi, benché il premier indiano Narendra Modi, la cui politica interna non si può dire certo aperta verso la minoranza musulmana indiana, abbia visitato il Pakistan nel dicembre scorso. Certo, non incoraggiano un grande ottimismo il test indiano dell’11 maggio di un avanzato intercettatore balistico, incidenti ripetuti lungo la frontiera (lunga oltre duemila chilometri), un recente attacco terroristico nella base indiana di Pathankot, la continua tensione nel Kashmir e la “corsa” alla costruzione dei sottomarini.

Il Pakistan è probabilmente colpevole di un mancato controllo (quando non di un’etero-direzione) sui gruppi jihadisti attivi in India, ma ha fatto a Delhi ben sei proposte per un accordo bilaterale di non proliferazione – dall’adesione di entrambe le nazioni al TNP  alla formazione di una South Asia Zero-Missile Zone. Il problema è che gli indiani hanno finora sempre respinto queste aperture.