Il nuovo Afghanistan visto dalla Cina
Si contano i costi umani ed economici del ritiro americano e occidentale dall’Afghanistan, certo. Ma la vittoria talebana ha nondimeno implicazioni ideologiche travolgenti: scoperchia la crisi del vecchio ordine mondiale davanti all’affermazione del secolo asiatico. Secolo cinese, verrebbe da dire. “L’Est è in ascesa, l’Occidente è in declino”, ha annunciato il presidente Xi Jinping in occasione del centenario del Partito comunista, il 1° luglio.
Tra gli scricchiolii del modello a stelle e strisce, Pechino corteggia gli ex studenti coranici con un’offerta irrinunciabile: legittimazione internazionale e investimenti per la ricostruzione nazionale a prescindere dal rispetto o meno dei diritti umani. Nei comunicati ufficiali la leadership cinese ha ribadito che dovrà essere “il popolo afgano a determinare il proprio destino”. Secondo molti analisti, la ritirata statunitense dall’Afghanistan – motivata dalla necessità di riposizionare gli asset militari americani nell’Indo-Pacifico per contenere la Cina – rischia di sortire esattamente l’effetto contrario.
Ma dopo il caos afgano, gli Stati Uniti saranno davvero in grado di concentrare le proprie risorse nelle acque contese tra Pechino e vicini rivieraschi? Sulla stampa cinese impazzano paragoni azzardati: per i media ultranazionalisti, dopo aver abbandonato l’Afghanistan, Joe Biden farà lo stesso con Taiwan, l’isola che Washington annovera tra i suoi principali alleati asiatici, ma che Pechino con-sidera una provincia da riannettere ai propri territori. C’è persino chi vagheggia un effetto domino tra i sodalizi regionali degli USA.
L’occupazione talebana di Kabul è quindi una vittoria cinese? Sì, se ci limitiamo a valutare le implicazioni ideologiche. Forse, se il metro di paragone sono gli interessi economici. No, se ci affidiamo ad altri parametri: uno di questi è la reazione dell’opinione pubblica cinese.
La questione afgana è un’equazione dalle molte variabili. Mentre da una parte il disimpegno statunitense apre un vuoto colmabile dalla diplomazia e dai capitali cinesi, dall’altra è improbabile che l’establishment comunista – alle prese con un delicato restyling del proprio paradigma di sviluppo – voglia assumersi le responsabilità necessarie a mantenere l’ordine nella polveriera centroasiatica.
Un patto con il Diavolo?
I talebani sono una vecchia conoscenza di Pechino che negli anni ’80, al culmine della crisi con Mosca, addestrò e appoggiò i mujaheddin con armi “made in USA” per respingere l’invasione sovietica dell’Afghanistan. Oggi, Pechino non ha riconosciuto ufficialmente il nuovo Emirato islamico instaurato dai talebani, ma è uno dei pochi paesi a non aver ritirato il personale diplomatico dal Paese. La bandiera rossa a cinque stelle sventola ancora in cima all’ambasciata di Kabul. Animata dal proverbiale pragmatismo, la leadership cinese tiene aperta la porta del dialogo con tutte le forze politiche in gioco. Non tifa per l’una o per l’altra; vuole semplicemente stabilità e maggiore voce in capitolo nei dossier internazionali, come impone il nuovo standing di superpotenza mondiale.
“In tutti i paesi del mondo, incluso l’Afghanistan, la posizione della Cina è a favore della non ingerenza negli affari interni”, ha ricordato la portavoce del Ministero degli Esteri Hua Chunying, e “tutti i popoli hanno il diritto di scegliere il proprio percorso di sviluppo e decidere il proprio futuro”. Per questo “la Cina ha mantenuto contatti e comunicazioni con i talebani afgani e ha svolto un ruolo costruttivo nel promuovere una soluzione politica della questione afghana”. Chiaro riferimento all’inusuale visita della delegazione talebana a Tianjin lo scorso luglio, approntata dalle autorità cinesi dopo il precipitoso ritiro delle truppe NATO.
Come spiega su Formiche Andrea Ghiselli, docente presso la Fudan University di Shanghai, la Cina preme affinché i talebani mantengano la promessa di coinvolgere altri attori politici nel futuro governo. Non certo in difesa del pluralismo, bensì perché spera che un governo inclusivo riesca a moderare le politiche degli ex studenti coranici, scongiurando lo scoppio di una nuova guerra interna che rischierebbe di spalancare la porta ad altre potenze e organizzazioni terroristiche. A questo proposito Ma Xiaolin, direttore dell’Institute for Studies on the Mediterranean Rim presso la Zhejiang International Studies University, propone l’introduzione del “modello libanese”, ovvero “un sistema equilibrato con una partecipazione multietnica e la partecipazione di più fazioni”.
Il Xinjiang e la minaccia del terrorismo islamico
Per la Cina, l’Afghanistan è innanzitutto una questione di sicurezza nazionale: il confine condiviso si estende per appena un’ottantina di chilometri, ma la minaccia del terrorismo ha diramazioni estese nella vicina regione autonoma dello Xinjiang, il Far West cinese dove dagli anni ’90 le istanze separatiste dell’East Tukestan Islamic Movement (ETIM) – al tempo sovvenzionato da Osama bin Laden – sono degenerate in veri e propri attacchi armati. Non tutti concordano sull’attuale entità del movimento (rimosso nel 2020 dalla black list americana delle organizzazioni pericolose per la sicurezza nazionale), né sulla matrice jihadista degli attentati cinesi, interpretati da alcuni studiosi come forma di resistenza delle minoranze islamiche locali all’assimilazione forzata del governo centrale. Ma, secondo un recente rapporto del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, la sigla conterebbe ancora centinaia di seguaci in Afghanistan.
Ad agitare i sonni di Pechino è ora un possibile rimpatrio (attraverso l’Afghanistan o l’Asia centrale) dei miliziani xinjianesi assoldati in Siria dalle varie forze jihadiste, come il fronte di Jabhat al-Nusra, Hayaat Tahrir el-Sham e l’Isis. A inizio luglio, accolto a Tianjin, Mullah Abdul Ghani Baradar ha assicurato a nome dei talebani che, pur avendo a cuore “l’oppressione dei musulmani, in Palestina, in Myanmar e in Cina”, “non interferiremo negli affari interni della Cina“.
Ma l’effetto galvanizzante della conquista talebana potrebbe ugualmente incoraggiare organizzazioni terroristiche in Medio Oriente, soprattutto in Iraq, dove gli interessi cinesi sono in crescita costante. E anche nello Xinjiang, dove dal 2017 la stretta securitaria ha ripristinato una parvenza di stabilità, nonostante l’impopolarità delle politiche etniche promosse dal governo centrale continui ad alimentare risentimento tra le minoranze islamiche. Solo nell’ultimo mese, in Pakistan, due attacchi suicidi – di cui uno attribuito ai talebani pakistani (TTP) – hanno preso di mira obiettivi cinesi provocando la morte di una dozzina di persone.
La Belt and Road lambisce l’Afghanistan
Proprio in Pakistan si snoda il tratto più economicamente rilevante della Belt and Road Initiative (BRI), la strategia di politica estera con cui Pechino sostiene la penetrazione internazionale delle aziende statali cinesi attraverso la costruzione di grandi vie di co-municazione marittime e terrestri attraverso l’Eurasia. A causa dell’instabilità politica, ad oggi gli investimenti cinesi in Afghanistan sono irrisori (circa 400 milioni di dollari) se comparati ai progetti avviati negli altri “Stan” dell’Asia Centrale. Ma da tempo la leadership guidata da Xi Jinping ha manifestato l’intenzione di includere il paese nella Belt and Road e da un mese circa si rincorrono voci su una possibile estensione del corridoio economico Cina-Pakistan in territorio afgano, così da facilitare l’accesso ai mercati mediorientali aggirando l’India, con cui Pechino è ai ferri corti per gli storici contenziosi di frontiera.
A Kabul si fregano le mani. Lo scorso maggio il deposto governo Ghani ha avviato la costruzione di un’autostrada transfrontaliera, nel corridoio del Wakhan, la lingua di terra tra Cina, Tagikistan e Pakistan, che una volta ultimata permetterà di esportare le materie prime dalle miniere afgane attraverso le province cinesi. Le risorse naturali sono nel mirino di Pechino fin dal 2007, quando la Metallurgical Corporation of China e Jiangxi Copper si aggiudicarono lo sfruttamento di una miniera di rame a Mes Aynak. Ma il progetto è rimasto incompiuto, così come nulla si è fatto del giacimento petrolifero di Amu Darya dopo l’estromissione della China National Petroleum Corp. Nonostante l’alta propensione al rischio, anche per le aziende cinesi il contesto afgano si è dimostrato sinora proibitivo. Una ricostruzione nazionale a guida talebana potrebbe presentare molte sfide ma anche nuove opportunità.
Davanti alle incertezze del futuro, la classe dirigente cinese man-tiene un approccio ondivago. Secondo il portale di Shanghai The Paper, per alcuni alti funzionari l’Afghanistan è una “miniera d’oro in attesa di essere esplorata”. E questo “è il momento migliore” per farlo, ha dichiarato l’ex-Viceministro del Commercio Wei Jianguo. Ma non tutti sono dello stesso avviso. Passati i tempi dei finanziamenti a fondo perduto, da un paio di anni Pechino ha ridotto l’iniezione di capitali nei mercati più difficili. Secondo Mei Xinyu, autorevole economista del Ministero del Commercio, la Cina dovrebbe concentrarsi nella fornitura di “beni di consumo per il sostentamento quotidiano a breve termine, a condizione di garantirne il pagamento e la sicurezza, mentre i progetti di investimento in immobilizzazioni, in particolare gli investimenti su larga scala, devono procedere lentamente”. Se dovesse prevalere la seconda scuola di pensiero, è improbabile che la BRI varcherà il confine sino-afgano nel breve periodo.
Un dibattito aperto: stivali cinesi in territorio afgano?
Da “cimitero degli imperi” a scacchiera di “un nuovo grande gioco”? Nel bene e nel male, il cuore dell’Asia è tornato nei radar delle grandi potenze, con l’asse sino-russo che si sta rivelando il principale canale di legittimazione e dialogo internazionale per i talebani – mentre i media cinesi insistono sulla necessità di sfruttare la spaccatura strategica tra USA e UE.
Dal suo primo ingresso in Asia Centrale alla fine del secolo scorso, la Cina si è cautamente limitata al ruolo di player economico. Ma negli ultimi anni, la necessità di tutelare i propri interessi nella regione ha spinto Pechino ad assumere un atteggiamento più proattivo anche nel mantenimento della sicurezza. Solo nelle scorse due settimane la Cina ha partecipato ad esercitazioni anti-terrorismo tanto in Tagikistan, quanto nella provincia cinese del Ningxia insieme alla Russia, storico gendarme regionale.
Dal 2016 la Cina è presente sulle alture del Pamir, nel Tagikistan orientale, con strutture anti-terrorismo congiunte (che ospitano anche le forze tagike). La data non è casuale. Proprio quello stesso anno, la cattura in Afghanistan di decine di miliziani uiguri (l’etnia che popola il Xinjiang) spinsero Pechino a lanciare un “meccanismo di cooperazione e coordinamento quadrilaterale (Qcg)” con Afghanistan, Tagikistan e Pakistan per condividere informazioni e risorse contro il terrorismo islamico. Una mossa tutt’altro che scontata, considerata l’insistenza mostrata dalla leadership cinese sul principio della non ingerenza. Infranto il tabù, non è escluso che gli stivali cinesi arriveranno infine sul territorio afgano. Secondo il colonnello Zhou Bo, ex direttore del Centro per la Cooperazione e la Sicurezza presso il ministero della Difesa cinese, dato il suo status di principale contributore alle forze di peacekeeping dell’Onu, la Cina potrebbe giocare un ruolo di primo piano nell’eventualità di un’operazione internazionale nel Paese dopo la vittoria dei talebani.
La vivacità del dibattito in corso negli ambienti militari e nei circoli accademici rivela come, dietro alla parvenza monolitica, la classe dirigente cinese non disdegni il contraddittorio, purché non comprometta la stabilità del sistema. Ma il pluralismo che si ravvisa nell’élite comunista si scontra con la contrarietà corale dell’opinione pubblica cinese. Lo dimostra il fallimentare tentativo di preparare la pancia del Paese a un possibile ingresso di Pechino in Afghanistan tratteggiando un Emirato islamico “a tinte rosa”. Una raffica di commenti piccati si è riversata contro il quotidiano ufficiale del partito People’s Daily, reo di aver descritto i talebani come un movimento creato da “studenti dei campi profughi” con il “supporto dei poveri”.
In tempi di #metoo, anche la sorte delle donne afgane è argomento di discussione sui social cinesi, sebbene senza particolare compartecipazione. Considerata “filo-americana”, Zarifa Ghafari, la sindaca progressista di Maidan Shar, premiata per il suo impegno dal Segretariato di Stato USA lo scorso anno e ora rifugiata in Turchia, è diventata oggetto di scherno sulla piattaforma di microblogging Weibo.
Come in altre circostanze, il coinvolgimento della Cina all’estero viene percepito dalle masse come uno spreco di risorse utilizzabili per migliorare gli standard di vita in patria. Al governo comunista sta l’arduo compito di difendere gli interessi nazionali nel cuore dell’Asia senza scontentare troppo i propri cittadini. In mancanza di un sistema elettorale che permetta di quantificare il consenso popolare, persino le voci del web costituiscono una variabile da monitorare, e lo sa bene il potere cinese che le monitora costante-mente come termometro dell’umore e del malumore popolare, nell’equazione afgana.