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Il manifesto di Biden a fronte della nuova sfida di Trump

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 Il tradizionale discorso sullo “Stato dell’Unione” consente di capire su cosa punta il Presidente in carica per assicurarsi la maggioranza dei famosi 538 membri dell’Electoral College il prossimo novembre. Per farlo, deve convincere a votarlo i suoi elettori naturali, ma anche alcuni “indipendenti” e se possibile qualche elettore repubblicano che si considera un “never Trumper” – in sostanza, alcuni dei sostenitori di Nikki Haley.

Rivolgendosi al Congresso il 7 marzo, Biden ha subito ribadito il carattere eccezionale dell’attuale momento storico per il Paese, con toni durissimi:

Not since President Lincoln and the Civil War have freedom and democracy been under assault here at home as they are today.

What makes our moment rare is that freedom and democracy are under attack, both at home and overseas, at the very same time.

E’ un approccio coerente con l’intera impostazione della presidenza Biden, che ha sempre connesso strettamente questioni internazionali e politica interna, a cominciare dalla “politica estera per la classe media” – che per la verità solo una minoranza di americani sembra finora apprezzare, se guardiamo ai sondaggi d’opinione. Naturalmente, il discorso ha ricordato le buone performance dell’economia americana, che in effetti sono sorprendenti perfino per gli analisti più cauti, cercando di attribuirsene parte del merito e ben sapendo che questo sarà un fattore decisivo il prossimo novembre. Il carattere socialmente progressista di varie misure legislative è stato comunque rimarcato con orgoglio.

I termini adottati dal Presidente per descrivere le posizioni del suo predecessore (mai menzionato per nome e cognome) sono stati più che espliciti: oltraggioso, inaccettabile, pericoloso, imperdonabile, falso. Toni da campagna elettorale, senza dubbio, ma anche da scontro culturale e istituzionale oltre che politico. E’ un affresco degli Stati Uniti di oggi.

Joe Biden durante lo State of the Union 2024. Dietro di lui, le reazioni opposte della Vice Presidente Kamala Harris e del Presidente della Camera, il Repubblicano Mike Johnson.

 

Questo State of the Union aiuta davvero a inquadrare il contesto politico del voto presidenziale, che come sappiamo contrappone due candidati relativamente impopolari.

Biden ha spesso sottolineato, già in passato, la natura “esistenziale” della sfida posta da Trump al sistema istituzionale americano, con i suoi checks & balances che dipendono da comportamenti rispettosi di una chiara divisione dei poteri. Come ha lucidamente ricordato Francis Fukuyama in un recente articolo, vi sono ragioni strutturali, sociali e ideologiche dietro la deriva trumpiana di cui si sono intravisti i sintomi già molti anni fa. Il problema è che l‘avversario di Joe Biden ha trovato il modo di mobilitare un’ampia schiera di elettori per scardinare l’equilibrio costituzionale, e non solo per sconfiggere Hillary Clinton nel 2016 (pur perdendo nel voto nazionale) e per ritentare oggi la sorte. Ciò è stato possibile, secondo Fukuyama, perché l’America soffre di una patologia ancora più pericolosa rispetto a qualsiasi singola figura politica: un elettorato in larga parte non informato e senza fiducia nelle istituzioni. E’ una combinazione terribilmente difficile da contrastare o alterare.

 

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Emergono intanto, anche tra le righe dello State of the Union del 7 marzo, due domande ancora senza risposta, la prima di politica interna e la seconda di politica internazionale.

La prima domanda a cui risponderanno gli elettori il 5 novembre è in che misura la recente evoluzione del Partito Repubblicano dipende dallo specifico “fattore Trump”. Probabilmente, molto. Se si ripercorre l’ascesa del 45° Presidente alla ricerca di segnali strutturali che vadano oltre la sua figura, si vede che il movimento del Tea Party, quindici anni fa, era un fenomeno minoritario e non rompeva in modo sistematico gli argini istituzionali come ha invece fatto Trump, usando tutte le tecniche di “infotainment”. Anche personaggi come Ron DeSantis o il più pittoresco Vivek Ramaswamy, di cui sono state giustamente sottolineate le posizioni “trumpiane”, sono emersi nella sua scia e non in modo autonomo o parallelo. In sostanza, l’elettorato “MAGA” (dallo slogan “Make America Great Again”) si è consolidato attorno a una sorta di culto della personalità con toni anti-sistema, più che su una vera piattaforma politica coerente.

Non a caso, l’unica spina nel fianco di una campagna presidenziale che altrimenti non avrebbe letteralmente rivali è Nikki Haley, la quale sembra aver scommesso su un futuro ruolo come unica rappresentante e paladina di un diverso e ben più “istituzionale” GOP, soprattutto in vista delle presidenziali 2028. E’ una scommessa rischiosa, ma che potrebbe avere senso. La cifra di Trump è un populismo personalistico che per sua natura faticherà a trovare eredi. Si dovrà dunque capire che tipo di figura politica saprà attirare i voti conservatori quando inizierà l’inevitabile ricambio generazionale nel Partito Repubblicano, cioè al più tardi tra circa due anni in occasione delle elezioni di mid term del 2026 – chiunque sarà alla Casa Bianca a quel punto.

Il secondo quesito aperto è se in politica estera basterà allo sfidante, per tornare alla Casa Bianca, promettere una versione più dura ed estrema della linea seguita nel suo primo mandato.

In questo campo, la scelta nettamente “unilateralista”, compiuta da Trump già da Presidente e confermata in questa campagna elettorale, è stata una rottura drammatica con una tradizione conservatrice di circa settant’anni, cioè l’internazionalismo di Dwight Eisenhower nel secondo dopoguerra.

Quella scelta dipende, però, da ragioni diverse rispetto all’intensificarsi della “sfida cinese” che viene spesso indicata come fattore decisivo. Sebbene lo stesso Trump lamenti quasi ossessivamente il “declino americano” (di cui potrebbe essere ormai considerato il maggior teorico), il problema non è tanto la crescita relativa degli avversari dell’America, ma paradossalmente la loro sostanziale irrilevanza. Agli occhi del “nuovo GOP”, gli USA potrebbero fare a meno del resto del mondo, e dunque avere tutto l’interesse a limitare i costi del proprio ruolo internazionale. Non va dimenticata la specifica lettura data da Trump nel suo intero quadriennio alla Casa Bianca: l’America è a suo parere minacciata e raggirata da nemici, partner e perfino alleati (dal Messico che lascia passare i migranti clandestini, alla UE che non paga adeguatamente la protezione militare garantita dalla NATO, al Giappone e alla Sud Corea che osano vendere prodotti di buona qualità). La più grande potenza mondiale, però, è in questa condizione di quasi-assedio solo perché è sovraesposta sul piano globale, e sostiene costi elevatissimi per consentire ad altri Paesi di godere dei benefici della globalizzazione. La ricetta trumpiana è dunque un secco rifiuto degli impegni permanenti e un ricorso ad intese “transattive”, di fatto definite unilateralmente da Washington in quanto contraente più forte.

 

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Non c’è molto altro nella visione di politica estera che viene proposta agli elettori repubblicani in questo 2024, tranne forse la solita vaga promessa di miracolose svolte negoziali che sarebbero ottenute grazie a un Presidente geniale al tavolo delle trattative – con chiunque e in qualunque contesto regionale o tematico.

Il paradosso è che, con tale impostazione minimalista e rarefatta, il candidato Trump coglie un punto centrale per molti americani: non c’è più un largo consenso interno sugli interessi globali degli Stati Uniti, se si fa eccezione per il contrasto economico-tecnologico (e in certa misura militare) verso la Cina – che infatti è l’unico elemento “bipartisan” rimasto ad accomunare Repubblicani e Democratici. Ma anche nel gestire il rapporto conflittuale con Pechino l’opzione che prevarrebbe in un dopo-Biden sarebbe radicale: assai probabilmente, un deliberato “decoupling” corredato di sanzioni a raffica, più sbrigativo del mix di deterrenza e dialogo molto selettivo che è stato tentato dall’attuale amministrazione.

Resta da vedere quale sarà la linea che davvero soddisferà l’elettorato, certo non particolarmente ferrato in politica estera ma ormai consapevole dell’importanza pervasiva del “fattore Cina” almeno in alcuni settori economici. L’ironia della sorte è che, se l’analisi di Trump è corretta e l’America è realmente una superpotenza in drammatico declino, allora forse non è una buona idea inimicarsi quasi tutti gli alleati e flettere i muscoli a intermittenza con gli avversari, senza impegnarsi stabilmente in nessun quadrante geografico. Così facendo, il presunto declino diventa quasi certo.

In ultima analisi, la ricetta proposta da Biden – sia in politica interna che all’estero – appare più sensata proprio perché il dinamismo economico degli Stati Uniti resta senza paragoni, la loro superiorità militare può ancora fare la differenza, e l’unica superpotenza al mondo ha ancora molti amici. Ma potrà sfruttare a suo vantaggio queste grandi risorse solo se il suo sistema istituzionale reggerà al voto 2024.

Intanto, nei circa 9 mesi che ci separano dal voto di novembre, gli Stati Uniti dovranno comunque definire una linea sulla terribile crisi umanitaria in corso a Gaza, con cui Biden ha praticamente chiuso il suo intervento al Congresso del 7 marzo annunciando un’iniziativa umanitario-militare che ha un forte valore politico:

Tonight, I’m directing the U.S. military to lead an emergency mission to establish a temporary pier in the Mediterranean on the Gaza coast that can receive large ships carrying food, water, medicine and temporary shelters.

No U.S. boots will be on the ground.

This temporary pier would enable a massive increase in the amount of humanitarian assistance getting into Gaza every day.

In queste parole si concentrano scelte difficili, con soluzioni temporanee e compromessi; vedremo se l’annuncio sarà seguito dai fatti, ma intanto possiamo dire che gli USA stanno quantomeno cercando, forse con ritardo, di fare la differenza e invertire una dinamica che è finora sembrata solo catastrofica per il Medio Oriente nel suo complesso. In breve, l’America potrebbe tornare a comportarsi da grande potenza, o perfino da superpotenza lungimirante.