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Il Giappone che continua a invecchiare, e l’immigrazione al centro del dibattito

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Il primo ministro giapponese Abe Shinzo le aveva provate tutte: alla fine ha preso atto della insostenibilità di una situazione caratterizzata dal decremento demografico, dall’invecchiamento della popolazione e da un tasso di disoccupazione che è solo di poco superiore al 2% e si traduce in una crescente mancanza di manodopera in taluni settori chiave. Ha dovuto così, a modo suo, “sopportare l’insopportabile” e dischiudere la porta agli immigrati. L’8 dicembre scorso la legge che modifica le precedenti norme su “Controllo dell’immigrazione e riconoscimento dei rifugiati”, già approvata dalla Camera bassa il 27 novembre, è stata definitivamente varata dal Senato ed entrerà in vigore il prossimo 1° aprile.

Il Giappone riunisce in sé due estremi che la logica della globalizzazione e la consuetudine dei Paesi industrializzati fanno apparire incompatibili: una popolazione sempre più vecchia e in drammatica decrescita demografica da un lato; una legislazione che regolamenta in modo rigidissimo la presenza degli stranieri dall’altro. I dati sono sotto gli occhi di tutti. Uno dei tassi di fertilità più bassi del mondo, 1,4 figli per donna (contro 2,1 degli anni ’70), e aspettativa di vita tra le più alte, attualmente a 84 anni, che arriva a 100 per i neonati. Una popolazione che da sette anni diminuisce: nel 2017 sono nati solo 946mila bambini, il numero più basso degli ultimi 120 anni. Le morti hanno superato le nascite di 400mila unità e nel 2040 si calcola che la differenza sarà di 900mila unità.

Anziani fanno ginnastica presso un tempio di Tokio

 

Di conseguenza, se la situazione non cambierà, la popolazione scenderà dagli attuali 127 milioni a 100 milioni nel 2050 e a 88 milioni nel 2065: la maggiore contrazione di tutti i Paesi industrializzati. Il 28% della popolazione è over 65, con punte che nelle regioni depresse come Akita (nell’isola di Honshu) arrivano al 36% e ciò mette in crisi il sistema di sicurezza sociale considerando anche che il debito sfiora il 250% del PIL. Se nel 2010 il rapporto tra anziani e persone in età lavorativa era 4 a 10, nel 2050 diventerà 8 a 10, con catastrofici effetti su pensioni e sanità pubblica.

Il ringiovanimento della popolazione che l’immigrazione “economica” porta sempre con sé non è un obiettivo della nuova legge. Anzi, Abe ha specificato in Parlamento che essa non “riguarda ciò che comunemente si definisce politica di immigrazione”; infatti “i lavoratori stranieri ammessi senza limiti di tempo con le loro famiglia saranno in numero così limitato da non influire sulle proporzioni a livello nazionale”, anche perché restano pressoché imperforabili le barriere che bloccano ogni richiesta di asilo (i richiedenti asilo, provenienti per lo più dal Sud Est asiatico, sono in continuo aumento, 19mila nel 2017, ma il tasso di accettazione è appena dello 0,1%). La legge in sostanza costituisce solo la risposta tattica a un limitato problema di mancanza di manodopera nei settori meno appetibili per i giapponesi – costruzioni, assistenza infermieristica, ristorazione, agricoltura – dopo che altre strade si sono rivelate inadeguate: l’una rappresentata dall’ingresso delle donne nel mercato del lavoro, quanto meno part time (due milioni in più negli ultimi cinque anni) e l’altra dal ritorno al lavoro dei pensionati (il 23% continua ad avere un impiego).

Il governo non ha intenzione di fare una rivoluzione. Resta legato al principio che, turisti e studenti a parte, nessuno straniero senza una qualche qualifica professionale e senza un contratto in tasca può entrare nel Paese. Si limita a rimodellare una serie di norme ambigue, che lasciano ampia discrezionalità alle imprese di determinare gli ingressi in Giappone a seconda delle loro specifiche necessità e da cui deriva un quadro complesso. A fine 2017 i lavoratori stranieri presenti nel Paese ammontavano a poco meno di 1,3 milioni, di cui 240mila “qualificati” (ai quali vanno aggiunti 1,4 milioni di stranieri con residenza permanente).

La comunità più numerosa di lavoratori è quella dei cinesi, seguita da sudcoreani, vietnamiti, filippini e brasiliani. Gli stranieri sono maggiormente presenti nelle aree metropolitane, prima tra tutte la prefettura di Tokyo, dove rappresentano il 3,8% del totale della popolazione. Al secondo posto in questa particolare classifica è la prefettura di Aichi (capoluogo Nagoya) con il 3,1%, ma In talune località turistiche si raggiungono punte molto più alte: il record appartiene a Shimukappu (Hokkaido) col 22,6% di stranieri. Molti sono studenti con lavoro part time. Un’altra categoria numerosa  è quella di coloro che si trovano in Giappone in base al Programma di qualificazione tecnica interna che ha preso l’avvio negli anni ’90 e che, solo negli ultimi cinque anni, ha portato all’ingresso di 480mila “tirocinanti”. Questi restano al massimo per tre anni senza la possibilità di cambiare lavoro, pena l’espulsione, con la conseguenza che chi lascia il lavoro entra nel novero dei clandestini, lievitato fino a contare circa 70mila unità.

La nuova legge si ricollega a questo programma. Divide infatti i lavoratori stranieri tra persone altamente specializzate (che potranno rinnovare indefinitamente il visto e riunirsi con la famiglia) e blue collar (che avranno un visto valido cinque anni, anziché tre, non rinnovabile, condizionato alla dimostrazione di avere una qualificazione professionale e di parlare il giapponese). I blue collar, inoltre, non avranno il permesso di portare con sé la famiglia ma avranno il diritto di cambiare lavoro. Sebbene la legge sia vaga sull’argomento, Abe ha fatto capire di aspettarsi che a presentare domanda per accedere a questa categoria siano soprattutto coloro che stanno finendo il periodo di apprendistato. Dunque, paradossalmente, non ci sarebbe alcun aumento del numero di stranieri presenti in Giappone. D’altra parte, sebbene nel testo sottoposto alla Dieta non siano inserite cifre precise, si dà per certo che verranno accordati nei prossimi cinque anni solo 345mila visti e solo 47mila nel 2019, a fronte di una carenza di manodopera calcolata in 600mila unità.

Una famosa scena di “Lost in Translation”

 

Sembra dunque ben poca cosa, ma le implicazioni indirette sono profonde e imprevedibili. L’Abenomics, ovvero la strategia di fondo di Abe lanciata nel 2012, si basava su tre “frecce”: il monetary easing, gli stimoli fiscali, e le riforme di struttura. A queste ultime, compreso lo smantellamento del fardello normativo/culturale del protezionismo, il premier ha già posto mano. Ma l’immigrazione era rimasta una terra sconosciuta, irta di insidie, dunque da evitare; finché, all’improvviso, è divenuta addirittura urgente, tanto è vero che il premier l’ha ritenuta più importante della revisione della Costituzione, il suo cavallo di battaglia, rinviata alla sessione ordinaria della Dieta.

Dopo avere rafforzato la sua posizione con la riconferma (settembre) alla presidenza del Partito Liberal Democratico, Abe ha imposto una sorta di fast track che ha ridotto al minimo il dibattito parlamentare, accogliendo solo un innocuo emendamento che anticipava a due anni, anziché tre, la verifica dei risultati del provvedimento (presentato dal Partito dell’Innovazione, fiancheggiatore della coalizione di governo).

Questa procedura ha fornito appigli all’opposizione di sinistra, guidata dal Partito Costituzionale Democratico, per chiedere (invano) che la legge venisse discussa in modo più approfondito, per accusare il governo di fornire dati inesatti, per denunciare l’impreparazione di chi ora è chiamato a gestire gli immigrati (Ministero della Giustizia) e la genericità del testo, che traccia solo le linee guida. Per esempio queste indicano che si impedirà la concentrazione di stranieri nelle città, ma non si dice come si intende contrastare una tendenza che risponde a una logica precisa: le città infatti offrono salari più alti e sono più aperte all’accoglienza sotto l’aspetto ideologico. La sinistra ha soprattutto puntato il dito contro quel vecchio programma di training intorno al quale ruota l’intera legge e che ha dimostrato di avere non pochi difetti. Nato per formare operai specializzati che soddisfacessero le esigenze sia dei Paesi di provenienza degli apprendisti sia delle corporation nipponiche che intendevano creare stabilimenti oltremare, il programma era diventato un facile canale per lo sfruttamento di persone troppo ricattabili per potersi opporre a orari di lavoro massacranti e tagli di salario.

Gli abusi che la nuova legge finirebbe con l’istituzionalizzare costituiscono però solo uno dei tanti argomenti sollevati da chi la contesta. A livello di opinione pubblica il più sentito di tali argomenti è di stampo populista e deriva dai timori che un afflusso di stranieri distrugga quel welfare che già l’invecchiamento della popolazione sta facendo traballare. Fortemente critico è anche l’approccio di chi ritiene che si vincono le sfide della globalizzazione non con gli immigrati e i bassi salari che ne conseguono, ma con l’innovazione: quindi salto tecnologico, investimenti soprattutto nella robotizzazione, politica di alti salari e alti consumi. Infine ancora più critica è l’estrema destra che ha già lanciato una crociata per salvaguardare i miti fondanti della unicità culturale nipponica.