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Il G7 di “America First” e la curva di apprendimento dei partner

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 Il G7 canadese di Charlevoix è stato, come previsto, travolto dall’uragano Donald. Non c’è accordo sulla sostanza di un Comunicato finale, neppure minimalista, e il Presidente americano ha lasciato l’incontro (in anticipo) accusando il premier Justin Trudeau di essere un bugiardo.

Se c’erano ancora dei dubbi, è ora palese che il “metodo Trump” è sostanzialmente incompatibile con il contesto multilaterale, non solo per l’imprevedibilità del personaggio ma anche per la sua costante ricerca di soluzioni (o scontri) bilaterali. Prima e durante il summit sono arrivate puntualmente le tipiche dichiarazioni estemporanee, vaghe per contenuto e criteri di attuazione – prima sulla riammissione della Russia, poi sul principio della totale abolizione dei dazi commerciali. La prima di tali proposte, peraltro, contesta in modo diretto l’attuale configurazione del G7, ritenuta inadatta a gestire questioni globali proprio per l’assenza di Mosca; anche se lascia aperto il quesito sull’assenza di altri Paesi come Cina e India.

Mentre era al G7, il Presidente americano si preparava (con la solita serie di brevissimi “statement”) all’incontro a due con Kim Jong-un (previsto per il 12 giugno), e intanto si ponevano forse le basi per un futuro summit con Vladimir Putin. Insomma, il livello multilaterale è al più visto come l’occasione per testate le reazioni delle controparti e per preannunciare ciò che lo stesso Donald Trump considera comunque il cuore della diplomazia: il rapporto bilaterale basato sulla chimica personale. E’ probabile inoltre che il Presidente veda questo formato come assai più adatto a far valere la superiorità americana – che tende a dare per scontata – in un semplice confronto faccia a faccia, senza intermediari e senza procedure vincolanti.

Il vertice ha segnato in un certo senso la “fine dell’inizio” per i rapporti di Trump con i suoi maggiori partner: lo schema di comportamento è ormai consolidato, e prevede la rottura delle convenzioni esistenti (formali o informali che siano) per poi forzare gli alleati a fare concessioni immediate e macroscopiche. Chiaro che su queste basi i partner possono anche decidere di accettare lo scontro, e al contempo “concordare di essere in disaccordo”. Non è detto, dunque, che le sole opzioni siano un cedimento a Washington oppure un fallimento completo degli incontri: la terza via che diventa sempre più praticata è quella di accordi limitati che non includono gli Stati Uniti – una soluzione per nulla ideale ma pragmatica.

Gli altri leader hanno preso le misure al Presidente americano, dopo essere restati spiazzati e sorpresi più volte dal suo stile, e in particolare  dall’aggressività delle sue iniziative commerciali. Oltre a ribadire le proprie tesi, questa volta hanno così presentato “facts and figures” che smentiscono alcune delle asserzioni di Trump sugli scambi internazionali. Una tecnica – potremmo definirla “powerpoint diplomacy”? – per aggirare quantomeno uno dei problemi posti da questo Presidente, cioè l’abitudine a citare pochissimi dati, in modo quasi esemplificativo, evitando poi discussioni dettagliate sul merito. Non è servito a molto in occasione di questo summit, ma il tentativo andava fatto.

E’ legittimo presumere che le maggiori statistiche commerciali siano più o meno condivise perfino dall’amministrazione Trump, e facendone buon uso si potrà magari assicurare una discussione più precisa e puntuale in consessi come il G7 rispetto a uno scambio su Twitter. Semmai, preoccupa che anche il padrone di casa canadese Trudeau, e il francese Emmanuel Macron, siano caduti, alla vigilia del vertice di Charlevoix, nella trappola di Twitter con l’insuperabile Trump. Il processo di apprendimento su come gestire “America First” è tuttora in corso, evidentemente; ma alcuni passi si stanno facendo.