international analysis and commentary

Le incognite europee del nuovo governo italiano

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 Il governo Conte – perfino prima ancora di insediarsi – ha già lanciato vari sassi nello stagno europeo. Forse non è uno scontro frontale come paventato da alcuni, ma certo è una posizione inusitata per l’Italia, che mai ha presentato tanti spigoli su tanti dossier europei simultaneamente. L’approccio sembra essere deliberato: prima porre i molti paletti e aprire una discussione proprio sugli aspetti più problematici, per poi magari mostrare flessibilità negoziale e accettare forse qualche scambio tra dossier diversi – sperando ovviamente di aver acquisito peso con l’effetto-shock e una certa sfrontatezza retorica.

E’ chiaro che il governo ritiene, almeno per ora, di avere un forte ed esplicito mandato popolare (anzi, come ha ribadito Conte, “populista” proprio perché disposto ad “ascoltare la gente”). E dunque non teme lo scontro esterno, visto che in questi casi solitamente le critiche da Bruxelles o dalle altre capitali consolidano il consenso nazionale finché un governo tiene duro su questioni di principio. Vedremo se le cose cambieranno – sondaggi alla mano – in caso di prezzi da pagare che siano in qualche modo più tangibili per gli elettori (mercati e spread, moniti o multe, minori aiuti UE, magari perfino un calo delle stime di crescita tra qualche mese).

Si manifesta però un problema assai più ampio, che l’Italia di oggi incarna perfettamente: le agende tutte domestiche (o anzitutto domestiche, come per il tema migratorio in Francia o quello fiscale e monetario in Germania) dominano la scena politica. Anzi, si tratta di agende di governo espressamente presentate come nazionali al fine di preservare interessi che si ritiene siano stati finora danneggiati dalle forze che si concentrano a Bruxelles (o, dalla prospettiva italiana, a Berlino e a Francoforte).

In altre parole, la divaricazione rispetto agli interessi degli altri partner è considerato quasi un “asset” in chiave interna, e non un incidente di percorso o un problema da risolvere. Il caso italiano è peculiare soprattutto per la combinazione di vari temi delicati in un unico “contratto” su cui si regge il nuovo governo. Se uno degli slogan è “gli italiani prima di tutto”, è allora inevitabile che gli altri, dunque i non-italiani ovunque si trovino, vengano “dopo” – costi quel che costi. Lo spartiacque politico non potrebbe essere più netto, e corre lungo il confine nazionale. Marcare e segnare quel confine è un punto-chiave del contratto, cioè ad oggi la principale ragion d’essere dell’esecutivo e della sua maggioranza. Visto, però, che questo è un fenomeno ormai ricorrente in Europa – pur con accentuazioni non omogenee – è fatale che le convergenze tra governi diventino difficilissime.

A meno di intenderle in modo del tutto occasionale e pragmatico, tattico e di breve durata. Come è successo per la non-riforma del regolamento di Dublino: criticatissimo da quasi tutti, ma impossibile da modificare perché una modifica richiede un consenso su qualche alternativa. E qui emerge la debolezza dell’approccio “super-nazionale”: la somma di tanti nazionalismi (magari “soft”, ma pur sempre nazionalismi) fa una paralisi europea. Per cui il paradosso è che ci si ritrova con Dublino in vigore, e l’Italia che si è appoggiata per non modificarlo all’Ungheria di Viktor Orban – la quale a sua volta ha interessi quasi opposti a quelli dell’Italia ed è sullo stesso fronte solo per coincidenza. Un possibile scenario meno fosco esiste, ma per renderlo praticabile ci vorrebbero sforzi ancora tutti da fare: buona parte del “problema europeo” ruota attorno alla Germania, inutile negarlo.

Il Paese centrale domina le scelte fondamentali, e condiziona l’agenda, ma al contempo non riesce a decidere da sé ed è in qualche modo prigioniero della struttura che ha intorno. C’è forse una carta francese che l’Italia può giocare per costruire riforme realistiche che modifichino l’equilibrio senza arrivare allo scontro frontale con Berlino. Del resto, gli interessi tedeschi sembrano granitici, ma non sono del tutto immutabili né inflessibili, come ha dimostrato a volte Angela Merkel su singoli dossier.

Soprattutto sulle politiche dell’eurozona, vi sono alcune convergenze possibili tra Roma e Parigi per spostare la posizione tedesca, ma queste convergenze vanno coltivate e trasformate in proposte consensuali sui tavoli di Bruxelles – cosa difficile se vengono subordinate alle promesse elettorali di due partiti italiani che non hanno (almeno per ora) programmi pienamente compatibili neppure tra loro. Se si accettano i vincoli europei come un quadro comune che si può cambiare grazie a un nuovo consenso, un negoziato serio può davvero essere perseguito. Eventualmente anche con uno stile anche più assertivo che in passato.

Diverso è minacciare di abbandonare il tavolo, perché così facendo il quadro non cambierà o addirittura l’intero edificio sarà danneggiato irreparabilmente. Se ciascuno andasse allora per proprio conto, la grande Germania sarebbe ancora grande ma meno vincolata di oggi, e i guai strutturali dell’Italia sarebbero ancora tutti lì, dal debito pubblico al resto.

Altro settore decisivo per il futuro europeo, su cui riflettere meglio, è quello della sicurezza e della difesa. Facendo molta attenzione al fatto che la sicurezza – come l’aria che respiriamo – si percepisce soprattutto quando viene a mancare, e dunque non andrebbe mai data per scontata. Molti accettano il principio che si debba e si possa collaborare nel contesto europeo in modo pragmatico (a maggior ragione a fronte dell’incerto ruolo degli Stati Uniti in questa fase, e per cercare di tenere agganciata la Gran Bretagna), ma anche qui occorre una prospettiva comune per affrontare meglio le questioni nazionali che – legittimamente – gli elettori pongono con urgenza.

Il governo Conte ha di fronte la sfida di elaborare una visione, e non soltanto di sfuggire agli impegni assunti dai governi precedenti. Un governo pienamente legittimato dal Parlamento ha il diritto di tentare strade nuove, ma deve tener conto di cosa pensano i partner, per la semplice ragione che l’Italia è immersa in una fitta rete di rapporti.

Lo si vede con la massima evidenza nel contesto del G7 ad esempio, che si riunisce per discutere soprattutto di commercio, tra enormi difficoltà che riguardano direttamente gli interessi italiani. Se il Paese sarà percepito come affetto da una sindrome di avventurismo economico e politiche “identitarie”, non acquisirà maggiore potere negoziale. E la sua sovranità effettiva finirà per ridursi invece di essere tutelata.

I cittadini degli altri paesi-membri della UE saranno pure non-italiani (quindi, quasi ontologicamente, meno importanti dei possessori di cittadinanza italiana), ma gli italiani probabilmente vogliono continuare a scambiare beni, servizi e idee con loro.