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Il fattore Covid-19 come chiave delle elezioni in Corea del Sud

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Quelle del 15 aprile in Corea del Sud sono state le prime elezioni generali svoltesi in un Paese colpito dall’epidemia di Covid-19 e hanno fornito due fondamentali, seppure prevedibili dimostrazioni. La prima è che consultazioni in ragionevoli condizioni di sicurezza con il coinvolgimento di milioni di persone (gli aventi diritto erano 44 milioni) sono possibili e non si corre il rischio di una bassissima affluenza: nel caso coreano anzi questa è stata la più alta degli ultimi decenni, il 66,2%. La seconda deduzione è che il virus diventa l’argomento di gran lunga preponderante non solo e non tanto in sede di campagna elettorale quanto nella scelta da parte degli elettori, pronti a dimenticare ogni altra considerazione di ordine politico, economico e perfino ideologico.

Sulle elezioni pesano ovviamente anche le specificità della Corea del Sud. La principale, sebbene non facilmente analizzabile fuor di retorica, è che nessuno ha proposto un rinvio delle elezioni, nemmeno quando il Paese sembrava destinato a diventare il più colpito dall’epidemia. Gli ottimisti ne hanno dedotto (e la loro tesi è stata suffragata dall’alta affluenza alle urne) che la fame di elezioni e democrazia è così forte da non conoscere ostacoli. Merito (o colpa) del fatto che nel Paese la democrazia è ancora giovane, una trentina d’anni, e di conseguenza le tentazioni antipolitiche tanto diffuse in Europa sono soverchiate dalla volontà della gente di impedire rinvii che suonano come anticamera di un ritorno al passato.

La Corea del Sud, il primo paese al mondo tra i colpiti dal Covid-19 a tenere le elezioni politiche

 

Un’interpretazione, questa, fatta propria dal Segretario di Stato americano Mike Pompeo: “L’attaccamento della Corea del Sud ai valori della democrazia – ha detto in un messaggio di congratulazioni – è il segno caratteristico di una società davvero aperta, libera e trasparente, un modello per tutti gli Stati del mondo”.

Decisivo è anche stato il momento in cui cadeva la data delle elezioni in rapporto all’evoluzione dell’epidemia, una data scelta da tempo ma che non sarebbe potuta essere più propizia. Dopo il primo breve periodo di sbandamento a febbraio, infatti, la situazione è stata messa sotto controllo passando da un picco di oltre 800 casi al giorno all’attuale media di 40 casi. Così sono bastati accorgimenti abbastanza semplici per far sì che il voto si svolgesse in modo ordinato e regolare, oltre all’alto tasso di disciplina della cittadinanza e ad un buon livello di efficienza organizzativa.

Le file davanti ai seggi elettorali erano lunghe, ma veniva rispettata la distanza di sicurezza, obbligatorio l’uso di mascherine, guanti, disinfettanti. All’entrata veniva misurata la temperatura corporea e chi aveva la febbre veniva dirottato verso apposite cabine. Per i positivi in quarantena era previsto un orario particolare, dopo la chiusura per i sani. I malati potevano votare via mail o in ospedale. Inoltre – ma questa non era una specifica novità – i seggi erano stati aperti per due giorni interi anche prima del 15 aprile e aveva usufruito di questa “sessione anticipata” il 26% degli aventi diritto. In sostanza l’affollamento era stato opportunamente diluito a tutto vantaggio della salute pubblica.

Non si trattava comunque di una “normalità” già riconquistata, che avrebbe portato a ridare peso ai consueti, vecchi problemi. L’emergenza resta, ma è un’emergenza sopportabile (niente lockdown ad esempio) da gestire attraverso la cooperazione tra il governo e i cittadini. Le misure adottato dalle autorità, incernierate sulle decantate app per il monitoraggio degli spostamenti e su un gran numero di tamponi, si sono d’altra parte dimostrate valide. Anzi l’approccio sudcoreano è diventato un modello per il mondo intero, apprezzato dall’OMS, lodato perfino dal presidente Donald Trump; e il partito di governo, quello del presidente Moon Jae-in, non ha esitato a trasformare i successi in propaganda facendo trasmettere tra l’altro alla tv di Stato una compilation dei commenti lodativi della stampa internazionale intitolata “La nostra risposta al Covid-19, unica e trasparente”.

Dato tutto questo, è facile capire perché il Partito democratico (PDC) di Moon abbia ottenuto una vittoria a valanga; una vittoria scaturita da una legge elettorale che si è rivelata peraltro sbagliata, non perché premia in termini di seggi il PDC più di quanto i voti effettivi giustificherebbero ma perché ha prodotto il risultato opposto a quello per il quale era stata concepita, ovvero favorire i partiti minori. Il PDC ha ottenuto 180 seggi su 300: in realtà i seggi, conquistati col sistema maggioritario, sarebbero 163 ma ad essi vanno aggiunti i 17 colti col proporzionale dal Partito dei Cittadini che nei prossimi giorni si fonderà col PDC.

Dunque, maggioranza assoluta che consente al blocco liberale di centro sinistra di agire in tutta libertà con l’unica eccezione di apportare eventuali cambiamenti alla Costituzione (per i quali occorre la maggioranza di due terzi). 103 voti al Partito Unito per il Futuro PUF (destra), compresi i 19 seggi ottenuti al proporzionale dalla lista satellite, il Partito per il Futuro della Corea, già pronto anch’esso a fondersi con l’organizzazione madre. Ed è interessante notare che nel proporzionale i conservatori hanno ottenuto il 33,84% dei voti contro il 33,35% del centro sinistra.

Sono invece andati malissimo i partiti minori. Particolarmente deluso è il Partito della Giustizia che sperava di svolgere un ruolo chiave nella prossima legislatura e di riuscire a spingere i democratici più a sinistra. Pur avendo ottenuto il 9,5% dei consensi avrà solo 6 seggi in Parlamento (ne aveva 10) e dato lo strapotere del PDC non avrà alcun peso. Lo stesso dicasi per gli unici altri due “partitini” che hanno superato la soglia al proporzionale del 3%, quella minima per avere diritto a una rappresentanza: il Partito del Popolo e il Partito Minjoo hanno avuto tre seggi l’uno.

Il PUF e il suo satellite si erano sforzati, durante la campagna elettorale, di spostare l’attenzione dal Covid-19, naturalmente non senza avere cercato all’inizio, quando le cose andavano male, di strumentalizzare il morbo a proprio vantaggio. La critica maggiore che in quel momento rivolgevano a Moon era che, per compiacere il governo di Pechino, dicevano, non aveva chiuso le frontiere a tutti i cinesi ma solo a chi proveniva da Wuhan. Poi però quella critica è diventata un boomerang man mano che si cementava la fiducia tra la gente comune e il governo, tanto che oggi l’80% approva le scelte di Moon per contrastare l’epidemia. Alla fine l’opposizione conservatrice, che fino a due mesi fa era data per favorita, si è trovata in mano solo armi spuntate.

Il suo cavallo di battaglia era il totale stallo in cui versa la diplomazia di Moon, campione delle aperture a Pyongynag. Il leader nordcoreano Kim Jong-un infatti è rimasto fermo sulle sue posizioni intransigenti, verso Moon non meno che verso gli USA, e, a conferma che tutto è tornato come prima, non ha voluto deflettere dalla prassi di procedere a un paio di test missilistici alla vigilia delle elezioni al Sud. Ma la Corea del Nord non è più al vertice delle preoccupazioni dei sudcoreani. E invece si dimostra un successo senza precedenti la “diplomazia del Covid-19”, basata sulle innumerevoli telefonate tra i maggiori leader mondiali e Moon, nelle vesti di chi spiega ai colleghi come si batte il virus.

Semmai più difficile da sciogliere per Moon sembra essere il nodo dei rapporti con gli USA. Questi, risolti in qualche modo gli aspetti commerciali, sono arrivati al punto peggiore di sempre per la parte riguardante il burden sharing relativo alla presenza dei contingenti militari americani. Washington chiede che i coreani paghino molto di più di quanto hanno fatto finora – dovrebbero addirittura passare da 850 milioni di dollari l’anno a una cifra vicina a 5 miliardi – ma Seul resiste: è pronta al massimo a un aumento del 13% e in cambio vorrebbe avere più voce in capitolo qualora si dovesse decidere tra la pace e la guerra.

In questo contesto le destre avevano buon gioco a dire che la sinistra, ancora una volta tacciata di eccessive simpatie verso la Cina, minava la saldezza della vitale alleanza con gli USA. Ora però che il Covid 19 impone di eliminare tutte le spese non necessarie, Moon ha messo al primo posto la riduzione del budget per la Difesa (taglio di 700 milioni di dollari) e l’elettorato lo ha seguito. Tutto il contrario del Segretario alla Difesa americano, Mark Esper, il quale prima bloccava il pagamento dello stipendio ai 4.000 dipendenti coreani nelle basi americane, poi, proprio alla vigilia del voto, ribadiva che  “i coreani possono e devono pagare di più”.

Anche la traballante situazione economica del Paese avrebbe dovuto facilitare il compito dell’opposizione. La politica di Moon, che intendeva aumentare i consumi interni, non ha avuto l’effetto sperato mentre certe prese di posizione decisamente “di sinistra”, come i controlli dei grandi conglomerati di famiglia (chaebol), la diminuzione dell’orario di lavoro e l’aumento del salario minimo continuavano a spaventare i “moderati”. Ma con l’epidemia in atto tutta l’attenzione è passata sulle misure di emergenza: regole più agili, iniezioni di liquidità per le imprese, pacchetti extra-budget a ripetizione. Inevitabile l’aumento della disoccupazione, con una perdita a marzo di 195mila posti di lavoro, soprattutto nei settori della vendita al dettaglio e della ristorazione. Quanto alla recessione annunciata, che si farà sentire con un calo del PIL dell’1,8% nel 2020 (previsione FMI), non solo non ne viene attribuita la colpa a Moon, ma cancella per gravità la crisi preesistente.

In fila per l’acquisto di mascherine a Seul

 

Risultato: il leader dell’opposizione, Hwang Kyo-ahn, ha subito lasciato la guida del PUF e deve abbandonare la speranza di essere il candidato conservatore alle elezioni presidenziali del 2022. Moon invece naviga con il vento in poppa. La Costituzione gli impedisce di ripresentarsi alle elezioni del 2022, ma ora gode di una tale sicura maggioranza da potere realizzare senza ostacoli tutte le riforme di bandiera, come la battaglia contro le chaebol e la corruzione, che finora l’opposizione era riuscita a bloccare.

E’ una situazione nuova per la Corea del Sud, abituata ad avere un presidente ridotto a lame duck negli ultimi due anni di mandato e dunque un’opportunità quasi insperata per il partito di maggioranza. Se ne possono trovare ragioni endogene: per esempio i cambiamenti demografici che comportano (con l’aiuto del passaggio del diritto al voto da 19 a 18 anni) una crescita numerica dell’elettorato post-guerra, meno ideologicamente determinato; oppure gli errori di un partito conservatore che si è limitato a cambiare nome ma non pelle, e fatica a fare dimenticare la fine fatta da Lee Myung-bak e Park Geun-hye, ex presidenti di destra che stanno scontando in prigione lunghissime pene detentive per crimini finanziari.

Tuttavia il vero fattore scatenante del trionfo di Moon e del suo partito è stata l’epidemia e tale casualità non potrà non pesare sul futuro del Paese. In particolare un ritorno alla normalità potrebbe riattivare, accelerati, processi alternativi a quelli ora messi in moto. Insomma, contrariamente alle apparenze, il fattore Covid-19 potrebbe comunque risultare destabilizzante.