Il dopo-Johnson, l’eredità pesante di Brexit e il populismo
Il premier Boris Johnson ha finito per capitolare di fronte all’ultimo di una lunga serie di incidenti politici, scandali e gravi errori di comunicazione. Ma la ragione di fondo delle sue dimissioni è parzialmente diversa: si tratta del metodo deliberatamente adottato nel fare impegnative scelte di policy. E qui il problema va ben oltre gli scandali e la personalità del leader. Non va dimenticato che al centro del mandato di Boris Johnson c’è Brexit, con le sue molteplici implicazioni per il Paese. E Brexit non è solo un episodio storico, un fatto politico isolato: è una presa di posizione fortemente identitaria sul futuro della Gran Bretagna.
L’uscita dall’Unione Europea fu prospettata anzitutto come una grande scommessa economica. La realtà, riconosciuta da tempo anche a livello ufficiale, è che i problemi strutturali dell’economia britannica, soprattutto rispetto all’impoverimento dei cittadini già meno abbienti, sono stati aggravati. I dati sulla crescita, l’occupazione e la crescita, se comparati con quelli degli altri Paesi OCSE, lasciano ben pochi dubbi. Il dato più significativo però è che questa traiettoria era stata ampiamente prevista dagli avversari di Brexit, e ciò apre una ferita non facile da rimarginare.
Intanto, il tono delle relazioni diplomatiche con il Vecchio Continente ha risentito negativamente dei durissimi negoziati e dello strascico (tuttora irrisolto) sulla questione irlandese – in cui di fatto il governo britannico si apprestava a violare un accordo internazionale da poco sottoscritto. Vedremo se ci sarà qualche tentativo di ricucire i rapporti, ma al momento questa non appare neppure una priorità per Londra.
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Non va inoltre dimenticato che un tassello importante del “progetto Brexit” era l’asse con gli Stati Uniti di Donald Trump, che ovviamente ha preso una piega ben diversa con la vittoria di Joe Biden nel novembre 2020. Lo sganciamento dall’Unione Europea doveva infatti avvenire in parallelo con un consolidamento del legame transatlantico “anglosassone”, a sua volta premessa di un più vasto rilancio del ruolo globale della Gran Bretagna – come se i Paesi del Commonwealth non aspettassero altro che una nuova fase di leadership britannica. A peggiorare la situazione c’è la circostanza che la “global Britannia” evocata da Johnson e da tanti “Brexiters” presuppone un contesto strategico benigno, cioè l’opposto di quanto è emerso drammaticamente negli ultimi anni.
Il paradosso è che questa nuova fase di incertezza a Londra – post-Johnson – arriva proprio mentre cresce l’esigenza di un vero “reset” con la UE per fronteggiare meglio sia la sfida diretta del conflitto russo-ucraino sia le sue varie ripercussioni economiche. Ma torniamo così alle osservazioni fatte sopra: l’economia britannica che il prossimo Primo Ministro eredita da Johnson è in cattiva forma, con prospettive peggiori rispetto ai suoi (ex) partner europei e agli USA, mentre i rapporti diplomatici sono improntati all’idea che la Gran Bretagna possa quasi “fare da sola” scegliendo di volta in volta la propria collocazione internazionale a tutela anzitutto della propria autonomia. La realtà dell’interdipendenza da gestire in un mondo più conflittuale che nel recente passato sembra piuttosto estranea a tale atteggiamento.
E’ qui allora che stile e sostanza si saldano, determinando probabilmente il prossimo futuro del Regno Unito. I possibili successori di Johnson, impegnatissimi nella competizione interna al Partito Tory, stanno precipitosamente cercando una specie di “terza via”: una linea politica conservatrice senza gli eccessi populisti del Primo Ministro ora azzoppato. A prima vista, è una dignitosa posizione di compromesso, ma questa proposta politica rimuove la scomoda circostanza che il metodo populista è stato decisivo nella vicenda Brexit. E’ anche vero che alcuni dei potenziali successori – ad esempio Jeremy Hunt e Liz Truss – provengono in effetti dalla schiera degli originari “Remainer”, ma ciò non semplifica le cose a meno di voler tornare indietro e fare atto di contrizione, spiegando magari più onestamente all’opinione pubblica quanto è complesso il mondo di oggi.
Il problema di fondo è che l’approccio populista non è soltanto un accessorio opzionale, bensì un elemento ormai connaturato a un certo patriottismo di molti conservatori britannici (e non solo britannici). Va notato infatti che la visione “patriottica” è in sostanza una versione edulcorata del nazionalismo, che alcuni sperano di adattare alle specifiche esigenze del XXI secolo. Non è però semplice separare a piacimento i vari pezzi di questo puzzle politico-culturale: l’amor di patria finisce spesso per richiedere la chiusura (cioè qualcosa di più del controllo amministrativo o militare) dei confini, e per coltivare o meglio giustificare il timore dei flussi globali (di persone, di beni e servizi, spesso anche di idee) si ricorre alla “politica delle emozioni”.
Simultaneamente, si nutre la cultura della nostalgia: un passato mitico, fatto di tradizioni uniche da conservare ad ogni costo, diventa così la guida per l’azione, e a volte perfino le istituzioni vengono piegate ai “costumi” – o, nel caso del governo britannico dimissionario, le regole formali vengono sistematicamente violate in nome di un’interpretazione quasi mistica del ruolo della leadership. Boris Johnson ha cercato di presentarsi come un leader carismatico, visionario e al contempo pragmatico, ma è stato soprattutto una figura populista.
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Come sempre accade, il quadro politico risente sia della personalità dei protagonisti sia della struttura istituzionale; vedremo ora come reagirà il sistema britannico (ancora sotto pressione anche per la questione scozzese) al parziale mutamento degli equilibri.
Si può intanto notare che, non certo per caso, il dilemma dei Tory è simile a quello dei Repubblicani negli Stati Uniti nello scenario post-Trump: si tratta di capire se sia possibile costruire oggi un governo conservatore senza farlo cadere nella trappola del populismo, che tende a distruggere rapidamente i suoi creatori.