international analysis and commentary

Il dilemma dei lockdown tra politica e scienza

di Gilberto Corbellini e Alberto Mingardi

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Piacerebbe a tutti riportare indietro le lancette dell’orologio al gennaio dello scorso anno, quando il nuovo Coronavirus era solo una notizia di politica estera. Ricordiamo tutti come, per un paio di mesi, alcuni dei protagonisti della lunga stagione di tentativi di ridurre l’impatto sanitario dell’infezione navigarono nel mare dell’incertezza senza risparmiarsi previsioni le più diverse: non sarà più di una banale influenza, le mascherine non servono, ci vorranno almeno due anni per il vaccino, etc.

E’ stato allora, mentre assieme ai contagi proliferavano i dubbi, che “lockdown” è diventata la parola magica, lo strumento principe contro le “arti oscure” del virus. Poco importa se mancassero le prove che indicassero correlazioni precise fra il grado di chiusura delle attività produttive e la riduzione dei contagi. A parte la necessità di un certo distanziamento fisico, e l’ovvietà per cui minori occasioni di contatto significano minori contatti e quindi inferiori probabilità di contagio, per il resto continuiamo a non avere misure chiare di come le chiusure impattano sulla trasmissione del virus.

Le sanificazioni stradali, spettacolo comune durante il lockdown della primavera del 2020

 

Ovvero i diversi Paesi hanno adottato misure diverse, ma dopo un anno non si trova una metanalisi che tiri le somme secondo i criteri della medicina evidence based. Questo è un fatto particolarmente grave, se si considerano i costi delle misure restrittive: sia i costi economici che quelli, non immediatamente evidenti ma non per questo non onerosi, psicologici. A fronte delle perplessità di ricercatori del profilo di John Iannidis (che alla Stanford University lavora appunto sull’analisi medica evidence-based), qualcuno diceva che a volte basta il “buon senso” per dire che le misure non farmacologiche sono efficaci. Peccato che costoro abbiano dimenticato l’ormai antica lezione di Descartes, per il quale il buon senso sarebbe la cosa più uniformemente distribuita in natura.

Ma ecco che dopo un anno l’imperatore si presenta con un vestito nuovo: dopo aver deciso di adottate e giustificare, un anno fa, un regime di chiusure generalizzate (lockdown) per “appiattire la curva”, ora la stessa idea trova una legittimazione diversa. Un nuovo lockdown servirebbe per abbattere il numero dei contagi a un livello al quale sarebbe nuovamente possibile il tracciamento (ma perché non lo è stato o è “saltato” mesi fa?) e portare l’Italia, un Paese di sessanta milioni di abitanti, fortemente integrato nell’Unione Europea, in condizioni simili a quelle della Nuova Zelanda, che ha quasi la stessa superficie ma un decimo degli abitanti ed è un’isola. Oppure l’Australia, che è sempre un’isola dove meno della metà della popolazione italiana abita una superficie 25 volte tanto la nostra.

Dall’altro emisfero arrivano notizie piuttosto chiare: in presenza di un solo caso positivo, Auckland è entrata in lockdown qualche giorno fa. Era già successo alcune settimane prima durante le regate di Coppa America. Abbiamo guardato con invidia le immagini della competizione, nelle quali non hanno mai fatto capolino mascherine. Ma è una tranquillità solo apparente, dal momento che non si può che procedere con chiusure a singhiozzo. In questo le cose non sono molto diverse che da noi. I dati di contagi e mortalità sono molto più rassicuranti, senz’altro, ma ciò non significa che il costo complessivo della strategia di contrasto alla pandemia sia inferiore. Nel corso degli ultimi mesi sono state pubblicizzata, da diverse comunità di esperti e accademici, due strategie chiamate “noCovid” e “zeroCovid”, che sono variazioni su un medesimo schema d’azione.

1) Identificare sulla base di parametri epidemiologici le zone “protette” che devono essere liberate da Covid;

2) Lanciare campagne di comunicazione per motivare i cittadini ad aderire alla strategia;

3) Applicare un lockdown di 4-5 settimane con interventi a supporto e protezione dell’economia regionale;

4) Convertire alberghi ed altre strutture in residenze per isolamento e quarantena dei positivi;

5) Collocare in queste strutture per la quarantena i viaggiatori che arrivano dall’esterno nelle zone protette;

6) Quando queste zone saranno liberate dal virus diventeranno “Green Zones” e si potranno riaprire tutte le attività.

 

Fra zone liberate sarebbe possibile (come sostengono i promotori di “endCovid”) viaggiare in una sorta di “bolla” protetta, senza più sottoporre i viaggiatori a quarantena: come si è provato a fare, per ora con scarso successo, fra Australia e Nuova Zelanda.

Il problema di queste proposte è che, in qualsiasi momento nel quale si riaffacci un contagio, come al Monopoli quando si pesca una carta “Imprevisti” sfortunata, bisogna ripassare dal via. Quanto è sostenibile? Di solito sottolineiamo tutti la necessità di avere regole stabili: non per un feticcio ma perché la stabilità delle regole è ciò che consente alle persone di provare a pianificare la propria vita. Se e come aprire e gestire una attività ma anche come impiegare il proprio tempo, quando andare in vacanza, eccetera.

Le dimensioni del territorio e della popolazione ovviamente rendono più o meno praticabile una strategia “noCovid”: territori più piccoli o geopoliticamente più differenziati sono più facili da controllare. Ma questo non significa che la strategia sia di per sé più sostenibile se applicata a un territorio (una “zona”) con meno abitanti. Paesi più piccoli e meno popolosi hanno, di solito, più bisogno di rimanere saldamente integrati nella divisione internazionale del lavoro. In un documento che illustra la filosofia “noCovid” alcuni specialisti tedeschi elencano una serie di miti che ostacolerebbero cognitivamente l’adesione a questa strategia. Uno di questi sarebbe che “la Germania non è un’isola o un paese totalitario…”. La loro risposta è che noi dobbiamo considerare solo il risultato atteso a prescindere sembra dal modo in cui lo si ottiene, cioè dai valori di una società. Oggi va di moda definire “miti” le preoccupazioni o critiche che interferiscono con un visione hegeliana dei problemi, per cui la realtà deve essere per forza razionale e quel che è razionale deve assumersi come reale.

Apparentemente, rispetto allo scorso anno, stavolta si prova a dare qualche peso in più alla comunicazione, cosa che si sarebbe potuto e dovuto fare subito, dato che la televisione cosiddetta pubblica non ha prodotto un solo programma di informazione medico-sanitaria che favorisse la costruzione di un senso sociale di fiducia nei presidi medico-sanitari e l’acquisizione di informazioni scientificamente controllate. Gli stessi esperti che oggi vorrebbero comunicare o motivare circa la bontà della nuova strategia hanno creato regolarmente confusione, parlando contraddittoriamente a ruota libera su ogni piattaforma mediatica, esibendosi come star di Twitter e non rifiutando mai un’ospitata in televisione. La letteratura dice che una volta trasmesso uno scenario conflittuale rispetto alle conoscenze scientifiche è molto difficile recuperare motivazioni e fiducia dei cittadini.

L’imprevedibilità resta tale, nelle strategie “no/zero-Covid”, con costi rilevanti sul piano della vita delle persone. E c’è un costo anche in termini di libertà di movimento degli individui. Come nel caso dell’immigrazione, è bene ricordare che quando parliamo di frontiere chiuse non parliamo soltanto di controlli in entrata e uscita, esercitati su determinate categorie di persone (i migranti, per esempio) ma necessariamente di un insieme di controlli di portata ben più vasta. La stessa idea di un passaporto immunitario, che consenta ai vaccinati o ai guariti dall’infezione e quindi portatori di anticorpi di recuperare il diritto di viaggiare, richiede una sorveglianza attenta e capillare, a fronte di un concetto – l’immunità da Covid – i cui contorni non sono ancora chiari.

L’effetto della pandemia sull’aeroporto JFK di New York

 

Due considerazioni, e un sospetto. Prima considerazione: l’idea di voltare pagina, di farla finita con il virus, è un formidabile strumento di marketing politico. Ma il completo eradicamento di un patogeno è altamente improbabile, anche avendo ormai otto vaccini efficaci a disposizione.  E se “noCovid” o “zeroCovid” mirano alla sola eliminazione dei positivi intercettabili, il virus comunque continuerà a circolare su montagne russe che sono solo apparentemente più appiattite. Il pianeta ha sette miliardi di abitanti che vivono in condizioni politiche ed economico-sanitarie molto diverse.

Cosa ne pensano, coloro che incessantemente criticano le diseguaglianze nel mondo in cui viviamo, di strategie anti-Covid che di fatto creerebbero bolle “no/zeroCovid” fra Paesi ricchi, lasciando fuori tutti gli altri? Se l’obiettivo è globale, quali sono i tempi realistici? Quali i mezzi a disposizione? È verosimile immaginare che la capacità vaccinale dei diversi Stati assomiglierà più a quella di Israele che a quella dell’Unione Europea? Quali effetti avrebbe la segregazione fra “no/zero Covid” e resto del pianeta sull’accesso e distribuzione dei vaccini per i paesi meno fortunati?

Seconda considerazione. Il virus muta, e sappiamo che questo è un fatto naturale ed ineludibile. Quale “variante” si pensa di azzerare? È sensato immaginare che mentre si crea una “zona libera” in una regione del mondo, il virus ci farà la cortesia di smettere di mutare in tutte le altre? O non troverà per esempio nei bambini non vaccinati un serbatoio per riorganizzarsi, come forse in parte starebbe già facendo la variante britannica a detta dei pediatri israeliani e di medici italiani? Che si fa in quel caso? Reintrodurremo cordoni sanitari di antica memoria, non più applicati alle città tardo medievali ma a interi Stati nazionali? È vero che i vaccini a mRNA paiono essere straordinariamente adattabili ma è anche vero che il successo di una mutazione dipende dall’ambiente in cui si propaga. Siamo sicuri che una propagazione inferiore ci consegnerà regolarmente un virus meno trasmissibile e meno letale? E’ vero che se si riduce la trasmissione, con chiusure e immunizzazioni, al virus dovrebbe convenire attenuare la virulenza, per far durare di più la malattia e quindi recuperare sul piano del tempo le chances per diffondersi. Ma per ora non è accaduto e gli esempi storici studiati in cui le cose sono andate bene non sono automaticamente applicabili al virus che causa Covid-19.

In altre parole, la discussione tende a concentrarsi su poche conseguenze delle variabili emergenti, che non riguardano solo l’aumentata trasmissibilità, morbilità o mortalità, ma anche la capacità di evadere i test diagnostici, la diminuita suscettibilità agli anticorpi neutralizzanti, la capacità di evadere l’immunità naturale o infettare gli individui vaccinati o la preferenza per alcuni gruppi clinici (bambini o immunocompromessi). E’ sensato decidere che alcune ipotetiche conseguenza si possono ignorare, ma almeno si dovrebbe spiegare perché.

Il sospetto. Come già abbiamo detto, siamo di fronte a una nuova giustificazione per lo stesso genere di misura che conosciamo da un anno a questa parte: nuove chiusure. Siamo i primi a sostenere che sarebbe opportuno conoscere meglio i livelli del contagio e l’effettiva estensione dell’epidemia. Questo richiede conoscenze granulari e territorialmente più diffuse. Ma a fronte della difficoltà del tracciamento in presenza di un alto numero di contagi, ci sono anche gli incentivi politici: chi chiude, lo abbiamo visto, trae dall’esperienza l’incentivo a immaginare una diversa gestione dell’epidemia, proprio perché il costo politico delle chiusure è stato molto basso. Passare dalla sua giustificazione con l’appiattire la curva, a giustificarlo con il miraggio “noCovid” o “zeroCovid”, serve solo a tenere sotto controllo quel prezzo politico e l’irritazione delle persone. Che invece avrebbero tutto il diritto di fare domande.

Per esempio: di nuovo, in queste settimane, nell’occhio del ciclone sono entrate le scuole. Quando si dice che le scuole sono “nuovi focolai”, che cosa s’intende? In che misura la diffusione delle varianti è spiegabile in virtù delle particolari caratteristiche dell’ambiente scolastico? In che misura invece riguarda i trasporti pubblici, municipali e regionali? Che cosa si è fatto, davvero, in quest’ultimo ambito? Che cosa si è fatto in termini concreti di organizzazione dell’attività scolastica? Perché, ad esempio, non si concentra la didattica in presenza su quei docenti che “vedono” un numero limitato di classi, spostando in “DAD” invece gli insegnamenti tenuti da chi, per forza, incrocia più classi e sezioni? Come mai si è escluso ogni tentativo di somministrazione massiva di test antigienici nelle università (come si è fatto in tutto il mondo)? Come si pensa che l’organizzazione della didattica possa cambiare, man mano che procedono le vaccinazioni del personale docente e non docente? Dopo un anno di pandemia, la politica dovrebbe avere uno strumentario preciso, che risponde a queste e altre questioni. È chiaro che se si limitano i contatti si limitano anche i contagi: ma ragionare così è un po’ come pensare che il limite di velocità debba essere, ovunque, di 40 km orari, indipendentemente dalle caratteristiche della strada e del traffico.

Una recente manifestazione contro la chiusura delle scuole in Puglia

 

In linea generale, ogni qualvolta ci vengono proposte soluzioni identiche in nome di strategie diverse la nostra reazione dovrebbe essere un po’ di sano scetticismo. Meglio sarebbe chiarire gli obiettivi: mantenere libero da stress il sistema sanitario, monitoraggio dei contagi, evitare di “eradicare” la normalità della vita persone. Su questi obiettivi va valutato il successo del lockdown, prima di riproporlo in nome di obiettivi diversi.

 

 


Una versione di questo articolo è stata pubblicata su Linkiesta il 1° marzo 2021