Il destino europeo dell’Ucraina: la posta in gioco
Ha senso dare all’Ucraina, come ha raccomandato di fare la Commissione Europea, lo status di paese candidato all’adesione all’UE? Se lo chiedete a un diplomatico dirà che ha poco senso, le procedure sono complicate, l’Ucraina è ancora lontana dal rispetto dello stato di diritto e non si possono fare sconti a Kyiv a scapito dei paesi dei Balcani (fra cui Serbia e Albania) che sono in coda da tempo. E quindi: facciamo pure un gesto simbolico, ma passeranno anni se non decenni prima di accogliere Kyiv nella famiglia europea. Se lo chiedete invece a un esperto di geopolitica pura e dura, risponderà che all’Italia conviene solo fino a un certo punto o per niente: il baricentro dell’Ue si sposterà verso Est, penalizzando l’Europa mediterranea. E ciò si aggiunge allo scivolamento “baltico” della NATO, con il possibile ingresso di Finlandia e Svezia: il fianco Sud dell’Europa resta più scoperto di prima.
Tuttavia Mario Draghi, sponsor primario di questa apertura all’Ucraina fra i grandi paesi europei, non è né un diplomatico né un geopolitico puro e duro. E’ un europeista ispirato e pragmatico al tempo stesso, che ha colto un punto essenziale: se mancherà anche questo appuntamento con la storia – come gestire il ritorno della guerra nel proprio Continente – l’Unione europea finirà per disgregarsi. Una forzatura politica è quindi necessaria: aprire all’Ucraina una prospettiva europea significa riconoscere che l’UE deve ormai pensarsi ed agire come una potenza internazionale e non solo economico-commerciale. E una potenza, per immatura che sia, deve potere prendere decisioni rapide: la politica estera è fatta di valori e interessi, di salti di qualità e non solo di procedure formali.
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La cosa è più chiara se guardiamo al contesto strategico: il conflitto nelle “terre di sangue” (definizione di Timothy Snyder), contese da secoli fra Russia e Polonia, ricadrà comunque sulle spalle dell’Europa. Con tutti i costi che già vediamo ma anche con le responsabilità che ne derivano. Vladimir Putin, nel suo velleitario discorso al Forum di San Pietroburgo il 17 giugno, ha detto che Mosca considera ormai l’Europa una “colonia” degli Stati Uniti, destinata a una crisi terminale dopo avere perso la sovranità e deciso sanzioni che fanno il solletico alla Russia (allora perché preoccuparsene?) e colpiscono invece la propria popolazione. Dalla prospettiva di Mosca, la guerra in Ucraina è parte del confronto con un Occidente che Putin contava di potere dividere.
La brutale aggressione del 24 febbraio ha prodotto semmai il risultato opposto. Ma l’idea è ancora questa: il capo del Cremlino spera che la “fatica per la guerra” – una guerra che sarà lunga, si legge nelle righe del discorso di San Pietroburgo – e l’uso dell’arma del gas dividano i governi occidentali prima di fiaccare la Russia. In modo ancora più diretto, il Vicepresidente del Comitato affari internazionali della Duma, Vyacheslov Nikonov, ha detto che l’Ucraina non “vivrà abbastanza” per vedere il proprio ingresso in Europa. Sulla sovranità dell’Ucraina, quindi, si giocano gli equilibri continentali. E’ del resto chiaro – dopo le proteste di Piazza Maidan nel 2014 per la mancata ratifica dell’accordo di associazione fra Kyiv e Bruxelles, seguite dalla prima fase del conflitto nel Donbass – che il rapporto fra Ucraina e UE preoccupa Mosca quanto o più di un ingresso dell’Ucraina nella NATO, che non è mai stato realistico.
Il timore vero è quello di un contagio democratico, che indebolisca il regime autoritario russo. Si può aggiungere che Mosca non ha mai capito – negando qualunque legittimità a una identità nazionale ucraina distinta dalla Russia – le pulsioni pro-europee di una popolazione ritenuta non solo parte della propria sfera di influenza ma a tutti gli effetti “cosa propria”. Deriva da qui l’errore di calcolo compiuto da Putin il 24 febbraio 2022, che ha ripetuto la sua vecchia tesi secondo cui esistono solo alcune grandi potenze e il resto non conta. In breve: l’evoluzione della crisi ucraina, dal 2014 ad oggi, indica che la relazione fra Kyiv e l’UE è una parte importante del conflitto in corso. La conclusione di Draghi, che certo non piacerà a Putin, è che deve far parte anche della sua soluzione.
Vedremo la prossima settimana, a un Consiglio europeo che richiede l’unanimità per decisioni del genere, se l’UE sia pronta ad accettare questa impostazione. Se lo farà, l’Europa affermerà la propria ragione di esistere come potenza del XXI secolo, in grado di gestire lo spazio che la divide dalla Russia offrendo garanzie di sicurezza e aiuti economici ai paesi che scelgono un destino europeo. Anche al prezzo terribile che stiamo vedendo. Se invece si dividerà, l’Europa offrirà una vittoria parziale alla Russia, indebolirà l’Ucraina e dimostrerà di non essere in grado di reggere a una delle sfide essenziali che ha di fronte.
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La decisione del Consiglio Europeo dovrà essere su questa scelta dirimente, sapendo che l’Europa dovrà poi affrontare gli aspetti giustamente sollevati dai diplomatici e dai geopolitici che citavo all’inizio: come evitare un impatto negativo sui Balcani, che non possiamo certo “regalare” a Russia e a Turchia; come garantirsi che Kyiv compia tutte le riforme indispensabili (dall’anti-corruzione in poi) anche solo per contemplare l’avvio di negoziati; come integrare progressivamente un paese che sta perdendo il controllo di parte del suo territorio. E certo, ci vorranno anni per progressi concreti mentre l’UE dovrà capire come migliorare la sua capacità di assorbire nuovi membri potenziali.
Ma oggi è il momento delle decisioni da tempi di guerra, non da tempi normali. La decisione sullo status dell’Ucraina mette in gioco i confini futuri dell’UE, la nostra relazione con la Russia, gli equilibri di sicurezza continentali. La guerra può averci stancato, ha forti costi anche per noi ma non può lasciarci indifferenti: il suo esito segnerà la linea di demarcazione fra spazio democratico e spazio autoritario nel Vecchio Continente.
*Una versione di questo articolo è stata pubblicata su Repubblica del 18 giugno 2022.