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Il destino di Hong Kong che sembra già segnato

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Le proteste che dall’inizio di giugno hanno infuocato Hong Kong sono state innescate dall’ opposizione a un disegno di legge che avrebbe consentito l’estradizione in Cina per i cittadini della ex colonia britannica. Il timore più diffuso era quello che la legislazione potesse poi essere utilizzata per aumentare il controllo di Pechino verso Hong Kong e, di fatto, cancellare i diritti civili e lo stesso regime speciale del «One country, two systems» – un Paese, due sistemi – su cui si basa la regione amministrativa speciale dal 1997. Un sistema di governance che dovrebbe essere rispettato fino al 2047.

Nonostante il disegno di legge sia stato cancellato settimane fa dalla governatrice Carrie Lam, i manifestanti stanno continuando a protestare, accusandola di essere troppo accondiscendente verso il «padrone cinese».

Le persone scese in strada reclamano il suffragio universale, il principio secondo il quale tutti i cittadini di età superiore ad una certa soglia – in genere maggiorenni – senza restrizioni di alcun tipo, possano partecipare alle elezioni e a tutte le altre consultazioni pubbliche. Il loro intento è quello di poter votare direttamente il «Chief executive», cioè appunto il governatore di Hong Kong. Oggi l’elezione è indiretta e in parte controllata dalla Cina. Oltre a questo, i manifestanti chiedono  un’inchiesta sull’operato – spesso violento – della polizia durante questi mesi di proteste, il rilascio delle centinaia di persone arrestate e la cancellazione delle accuse nei loro confronti.

Le manifestazioni sono iniziate in maniera pacifica (e in gran parte lo sono restate), ma durante questi mesi si sono verificati diversi episodi di violenza: piccoli gruppi si sono scagliati contro le forze dell’ordine e, più recentemente, anche contro i centri di potere e sedi delle multinazionali. Come è successo ad inizio novembre, quando i manifestanti hanno preso di mira la centrale della Bank of China, l’agenzia di stampa cinese Xinhua e le sedi di diverse società. Tra queste troviamo le strutture di Starbucks, che ad Hong Kong sono gestite dalla Maxim’s Caterers, attaccate dopo che Annie Wu, figlia del fondatore dell’azienda locale, ha difeso la polizia e condannato i manifestanti parlando al Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite a Ginevra.

Archi e frecce infuocate sono state tra le armi usate durante le proteste violente di Hong Kong

 

Con l’intensificarsi delle proteste, che hanno portato in diverse occasioni anche alla chiusura dell’aeroporto – centro nevralgico per l’economia della regione, basti pensare che lo scalo di Hong Kong è uno dei più trafficati dell’Asia – si è iniziato a temere per un possibile intervento militare diretto di Pechino. La Cina dalla metà di agosto ha mobilitato gli uomini della Polizia armata del popolo (Pap) – cioè la polizia militare – a Shenzhen, sul confine continentale.

Ad oggi, il sistema giuridico di Hong Kong rispecchia ancora il modello britannico, basato sul giusto processo; e i principi fondamentali dovrebbero essere garantiti dalla costituzione, ovvero la Basic Law, che a sua volta si fonda sulla Common Law anglosassone e che dovrebbe tutelare diritti diversi da quelli in vigore nei territori sotto la giurisdizione di Pechino. Tra questi troviamo anche la libertà di stampa, la libertà di parola e il diritto di manifestare. Hong Kong dovrebbe avere un alto grado di autonomia in tutti i campi – tranne la politica estera e la difesa. Inoltre la Basic Law dovrebbe assicurare «la salvaguardia dei diritti e le libertà dei cittadini», almeno fino a quando la città non verrà riconsegnata completamente all’ormai turbocapitalista dragone cinese.

Nonostante questo, come ci ricorda Oriana Skylar Mastro, analista militare della Georgetown University, «qualora Pechino decidesse di usare la forza contro i manifestanti, vi sarebbero due modi con cui potrebbe farlo secondo la Basic Law di Hong Kong». L’articolo 14, infatti, afferma che «il governo della regione ad amministrazione speciale ha facoltà, quando necessario, di richiedere al governo popolare centrale il sostegno da parte della guarnigione dell’Esercito Popolare di Liberazione al mantenimento dell’ordine pubblico e al soccorso in caso di catastrofe naturale». Pechino, aggiunge l’esperto, «potrebbe incoraggiare Carrie Lam a fare tale richiesta prima che la forza venga effettivamente utilizza, per dare almeno l’apparenza di agire secondo la legge». Ma non solo: la Cina può in ogni caso utilizzare i suoi uomini armati anche senza questo passaggio, se l’Assemblea Nazionale del Popolo dichiarasse lo stato di emergenza – naturalmente, su indicazione dei vertici del Partito.

Ad ora, tuttavia, non sembra esserci l’intenzione di ricorrere all’uso massiccio della forza. Le proteste di Hong Kong, che non sono guidate da un vero e proprio leader, infatti, hanno avuto una notevole eco mediatica, ma non hanno suscitato un gran clamore nei governi occidentali, interessati più agli affari che ai diritti civili. E Pechino, che non vuole certo una seconda Tienanmen, non ha molto interesse ad un intervento diretto, che avrebbe gravi conseguenze dopo i successi dimostrati al mondo con il suo «soft power» commerciale e finanziario.

L’impatto economico di un intervento diretto sarebbe certamente negativo. Pechino, infatti, è il principale partner commerciale di Hong Kong. E la città è soprattutto un polmone economico e finanziario internazionale: le proteste hanno già creato diversi problemi alle grandi multinazionali che vi operano.

Vista notturna su Hong Kong

 

La Camera di commercio americana a Hong Kong ha riferito che alcune società hanno subito «gravi conseguenze», anche per l’interruzione delle catene di approvvigionamento. I voli cancellati, a causa dei blocchi dei manifestanti – circa mille dall’inizio di agosto – hanno rappresentato un grave danno per le compagnie che operano nell’hub finanziario. Basti pensare che l’aeroporto contribuisce per il 5% del PIL. Ma non solo. Il Sole 24 Ore, tra gli altri, registra che «il pesante declino dell’economia delle regione amministrativa speciale ha trovato un riscontro nelle ultime stime ribassate del Fondo Monetario Internazionale, secondo cui solo il buon primo trimestre consentirà al PIL di chiudere l’anno con un modesto +0,3%». La precedente stima era del +2,7%.

Proprio per non peggiorare questa situazione, molto probabilmente ai manifestanti di Hong Kong, almeno a quelli animati da una pura voglia di libertà e cambiamento, verrà lasciata la possibilità di urlare i loro slogan e la loro rabbia. Un grido che però, quasi certamente, non verrà ascoltato da nessuno e per questo è destinato presto o tardi a spegnersi.

Non saranno d’aiuto le elezioni avvenute a fine novembre, dove un trionfo senza precedenti ha premiato i partiti del fronte pro-democrazia e i candidati indipendenti ad esso legati. Le consultazioni, che vertevano sulla nomina di 452 consiglieri distrettuali, ripartiti in 18 piccoli parlamenti, infatti, non daranno agli eletti grandi poteri decisionali.

Molto probabilmente, non servirà neanche la firma di Donald Trump alla legge votata dal Congresso a sostegno dei manifestanti di Hong Kong di fine novembre. La decisione, che in sostanza autorizza il governo americano a produrre un report annuale per valutare il rispetto dell’autonomia della città stato da parte di Pechino e prevede la possibilità di decidere sanzioni per istituzioni e individui che violano le libertà garantite dalla Basic Law, è arrivata sotto la pressione del Congresso e degli stessi rappresentanti del partito del presidente. Ma questo non significa che non si possa bloccare l’azione del provvedimento in un secondo momento. O che sia solo una mossa di facciata. Anche perchè, come sappiamo bene, Trump è molto più interessato a chiudere la «fase uno» dell’accordo commerciale con la Cina.

Bernard Chan, politico e uomo d’affari, nonché Presidente del Consiglio dei servizi sociali della regione autonoma, sul South China Morning Post sostiene che «sarebbe un grande errore immaginare che gli Stati Uniti si preoccupino davvero di Hong Kong». Le nuove misure di Washington, continua, «sono in gran parte simboliche», perchè loro «sono guidati dalla propria politica estera, dai programmi commerciali e nazionali e nient’altro».

E se non farà niente di concreto l’America, non sarà certo l’Europa a rischiare gli enormi affari economici con Pechino per quello che sta succedendo da mesi nella città stato. Accettando di fatto le scelte di Xi Jinping, qualunque esse siano.

Così il destino di Hong Kong sembra già segnato. In attesa del 2047, quando l’ex colonia britannica cesserà di avere standard politici, economici e istituzionali diversi e più autonomi, diventando a tutti gli effetti semplicemente l’ennesima grande metropoli della Cina contemporanea, uno dei tanti ingredienti del cocktail basato sull’ideologia comunista sbiadita di Mao e i più importanti interessi economici globali.