Il conflitto in Etiopia e le sue prospettive di espansione
La crisi militare in atto in Etiopia (tecnicamente uno Stato federale) affonda le sue radici nella storia politica nazionale degli ultimi trent’anni, e più precisamente dalla caduta del regime militare di Menghistu Haile Mariam, nel maggio del 1991, provocata dalle forze del Fronte Democratico Rivoluzionario del Popolo Etiopico (EPRDF).
La deriva del post-Menghistu
L’EPRDF costituiva un’alleanza politica e militare formata da quattro partiti etnici regionali: il Fronte di Liberazione del Popolo del Tigray (TPLF), il Partito Democratico Amhara (ADP), il Partito Democratico Oromo (ODP) e il Movimento Democratico del Popolo dell’Etiopia del Sud (SEPDM). La lunga e sanguinosa guerra condotta contro il regime di Menghistu aveva visto l’EPRDF stringere un’alleanza con le formazioni eritree del Fronte di Liberazione del Popolo Eritreo (EPLF), insieme ai quali riuscirono a determinare la caduta del regime militare, promuovendo poi l’indipendenza dell’Eritrea – a Nord, lungo il Mar Rosso.
I due leader militari e politici che avevano condotto questa lunga guerra, l’etiopico Meles Zenawi e l’eritreo Isaias Afwerki, erano legati da una profonda amicizia personale costruita nel corso del sanguinoso conflitto combattuto insieme. Ciononostante, alla caduta del regime (una giunta militare inizialmente di tipo transitorio, nota come DERG) e all’avvio del processo che portò all’indipendenza dell’Eritrea, si determinò una insanabile frattura politica tra i due paesi, che ben presto sfociò in una nuova guerra tra il 1998 e il 2000.
Le dinamiche politiche etiopiche, a partire dal 1991, videro il paese dominato dalle élite dell’EPRDF, e, all’interno di questo, dal preponderante ruolo del partito tigrino TPLF. Meles Zenawi, che fu primo ministro dal 1995 al 2012, avviò un poderoso processo di riforme economiche e politiche, grazie alle quali l’Etiopia riuscì ad affermarsi in breve tempo come uno dei paesi più virtuosi del continente africano.
Alla morte di Zenawi, il suo successore Haile Mariam Desalegn non si dimostrò all’altezza del compito richiesto dal processo di sviluppo in atto in Etiopia, e nel 2016 gravi disordini si verificarono nello stato regionale dell’Oromia, con l’avvio di una violenta repressione che impose nel 2018 l’adozione dello stato d’emergenza.
Emerse in quel frangente un giovane leader politico, Abiy Ahmed, di etnia oromo, ex militare e già direttore dell’agenzia di intelligence per la sicurezza cibernetica, che tra il 2015 e il 2016 aveva ricoperto il ruolo di ministro della Scienza nell’ambito del governo presieduto da Haile Mariam Desalegn.
Sfruttando abilmente la crisi politica, e soprattutto le rivendicazioni dell’etnia oromo – la più ampia e paradossalmente la meno politicamente rappresentata – riuscì ad essere eletto primo ministro nell’aprile del 2018, avviando un generale processo di riforme inizialmente ben accolto soprattutto dalla comunità internazionale.
La vera trasformazione politica dell’Etiopia, tuttavia, era strutturata sulla transizione del potere dell’élite tigrina del TPLF – per quasi trent’anni incontrastata alla guida politica del paese – verso una nuova formazione costruita in termini squisitamente personalistici intorno alla figura di Abiy Ahmed. Questi, infatti, promosse il discioglimento dell’EPRDF attraverso la fusione di tre dei suoi quattro partiti in una nuova formazione denominata Partito della Prosperità. Il TPLF si rifiutò di confluire nel nuovo partito, decidendo quindi di affrontare il processo di trasformazione in atto rafforzandosi su base locale nel Tigrai.
La politica di Abiy Ahimed, intanto, aveva non solo iniziato a destrutturare il trentennale ruolo del partito di governo dominato dai tigrini, quanto più in generale minato alla base il sistema dell’etno-federalismo etiopico, nell’ottica di centralizzare ad Addis Abeba una nuova forma di potere nazionalista capace progressivamente di ridurre il peso e l’autonomia delle amministrazioni etniche regionali.
Sul piano internazionale, invece, la popolarità di Abiy Ahmed crebbe velocemente fino a valergli il premio Nobel per la pace, nel 2019, in conseguenza degli accordi di pace con l’Eritrea e il rilancio di un apparente nuovo corso nella politica regionale.
Il riavvicinamento di Abiy Ahmed con Isaias Afwerki in Eritrea – diventata a sua volta un regime autoritario guidato dal partito del Fronte Popolare per la Democrazia e la Giustizia (PFDJ), sorto dal movimento indipendentista dell’EPLF – venne deciso dal primo ministro essenzialmente per due ragioni. La prima certamente connessa alla promozione della distensione con Asmara, dopo trent’anni di tensioni e conflitti, mentre la seconda più cinicamente espressa dalla volontà di aprire le porte al principale nemico delle élite politiche tigrine del TPLF, nell’ottica di incrementarne l’isolamento.
Mentre una comunità internazionale da sempre poco attenta alle dinamiche del Corno d’Africa plaudeva quindi alla capacità del primo ministro Abiy Ahmed di promuovere la pace con l’Eritrea e rilanciare sul piano della stabilità regionale, in Etiopia si iniziava il redde rationem tra il primo ministro e la storica gerarchia tigrina del potere.
La crisi politica e militare emerse quindi in tutta la sua portata esattamente un anno fa, quando il primo ministro Abiy Ahmed annunciò di voler procrastinare le elezioni politiche in conseguenza della diffusione della pandemia, mentre il TPLF contestò la decisione e organizzò le sue elezioni regionali, trionfando ai seggi.
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Ne seguì una delegittimazione da parte delle autorità federali e un clima di tensione sfociato poi in un tentativo delle forze tigrine di attaccare le locali guarnigioni dell’Esercito Federale Etiopico (ENDF) e nel controverso lancio di alcuni missili in direzione della capitale dell’Eritrea, Asmara.
Il 4 novembre del 2020, in tal modo, prese avvio un’ampia operazione militare delle forze federali in direzione del Tigrai, occultamente sostenuta e partecipata dalle forze eritree, che si concluse in breve tempo con la conquista dello stato regionale e la fuga delle autorità del TPLF.
L’operazione militare condotta in Tigrai, tuttavia, fu sin da subito caratterizzata da un crescendo di violenze, soprattutto a danno della popolazione civile, che vide coinvolte in prima persona soprattutto le forze militari eritree, la cui partecipazione diretta al conflitto fu negata per oltre cinque mesi, salvo poi essere ammessa dallo stesso primo ministro Abiy Ahmed.
Dopo mesi di feroce occupazione del Tigrai da parte delle forze federali etiopiche, delle milizie regionali Amhara e delle forze militari dell’Eritrea, il TPLF è riuscito ad organizzare una resistenza militare costruita sulle proprie forze armate regionali (le TDF) e sulle migliaia di giovani volontari affluiti nei ranghi della resistenza dalle città sotto il controllo delle forze occupanti, lanciando una poderosa controffensiva che lo scorso 29 giugno ha portato alla riconquista della capitale regionale, Macallè.
La strategia della leadership tigrina, le opzioni di Abiy Ahmed e le conseguenze per l’Eritrea
Dalla caduta di Macallè ad oggi, il conflitto in Etiopia ha subito una vertiginosa accelerazione, determinando un quadro della politica nazionale che rischia concretamente oggi di portare alla dissoluzione della federazione e all’estensione del conflitto nell’intera regione.
La guerra civile e le violenze perpetrate dalle forze federali, amhara ed eritree sulla popolazione del Tigrai hanno avuto come diretta conseguenza non solo la capacità di organizzare una resistenza ed un’opposizione sempre più ampia contro il governo del premier Abiy Ahmed, ma hanno anche fornito il necessario impulso per promuovere ad ogni livello della società tigrina la convinzione che l’unica strada percorribile sia oggi quella dell’indipendenza.
La Costituzione dell’Etiopia – unica nel suo genere – prevede all’art. 39 il diritto alla secessione degli stati che ne compongono la federazione, specificando la possibilità di indire referendum popolari per verificare la volontà popolare in tal senso. Una norma molto innovativa in tema di prevenzione dei conflitti, adottata nei primi anni ’90 del secolo scorso all’indomani della difficile transizione verso la democrazia e, soprattutto, del distacco dell’Eritrea dalla nazione etiope. Una norma, quindi, adottata in un momento di forte coesione nazionale in direzione della ricostruzione e della democratizzazione, quando l’interesse delle singole entità statuali federali era unicamente quello dell’unione e della cooperazione sotto il tetto comune della federazione etiopica.
Nonostante quanto previsto dalla Costituzione, quindi, ogni spinta indipendentista registrata nel corso degli anni per iniziativa di alcune formazioni politiche locali è stata fermamente contrastata dalle autorità centrali, nella ferma e decisa difesa del modello politico costruito sul sistema etno-federalista.
Un sistema a sua volta sbilanciato, in quanto dominato per trent’anni dal ruolo predominante delle forze politiche tigrine, esauritosi poi politicamente nel corso degli ultimi anni di governo del premier Haile Mariam Desalegn, attraverso la frustrazione delle aspettative della gran parte degli stati federali.
La guerra dell’ultimo anno ha ulteriormente acuito il risentimento etnico e il confronto soprattutto con i tigrini, trasformati dal Partito della Prosperità non solo in minaccia esistenziale per la sopravvivenza dell’Etiopia, ma anche e soprattutto disumanizzati nel confronto militare, con il perpetrarsi di violenze inimmaginabili solo sino allo scorso anno.
È quindi comprensibile come nel Tigrai oggi la narrativa indipendentista domini il dibattito politico e sociale, ponendosi come unica possibile scelta per la sopravvivenza del paese e della sua popolazione, per impedire che possa mai ripetersi in futuro uno scenario così drammatico e brutale come quello vissuto nel corso dell’ultimo anno.
Le vie all’indipendenza del Tigrai
Per ottenere l’agognata indipendenza, tuttavia, il TPLF deve vincere la sua guerra anche sul piano militare, risolvendo una volta per tutte il problema con Addis Abeba e soprattutto sconfiggendo Abiy Ahmed e il Partito della Prosperità.
Il TPLF può contare oggi in questo contesto di crisi sul sostegno di numerose formazioni politiche regionali d’opposizione, e in particolar modo quelle dell’Esercito di Liberazione Oromo (OLA), con le quali ha lanciato un’offensiva contro le forze federali e le milizie Amhara che hanno portato i tigrini e gli oromo di fatto a minacciare pericolosamente da vicino la capitale.
Nel corso dell’ultima settimana, inoltre, sette ulteriori formazioni politiche d’opposizione hanno annunciato di aver unito le forze con il TPLF e l’OLA, dando vita ad una vera e propria formazione politica unitaria, con l’obiettivo di provocare militarmente la caduta del governo di Abiy Ahmed.
Un annuncio roboante ma poco più che simbolico, vista la dimensione delle forze delle sette formazioni che si sono unite ai tigrini e agli oromo, le cui formazioni militari sono di gran lunga più numerose e meglio equipaggiate di quelle dei propri partner. Uno di questi, oltretutto, l’Esercito di Liberazione di Gambella, ha di fatto smentito l’autorità della persona che ha siglato l’accordo, sostanzialmente comunicando la propria estraneità alla coalizione.
Sono quindi le milizie del TPLF (il TDF) e quelle dell’OLA a sostenere principalmente lo sforzo militare contro l’esercito federale e i suoi alleati degli stati regionali, perseguendo una strategia che mira oggi a cingere d’assedio la capitale per strangolarla economicamente e determinare quindi il collasso del governo di Abiy Ahmed dall’interno.
Appare altamente improbabile, allo stato attuale, che il TPLF e l’OLA possano – o vogliano – lanciare un’offensiva militare contro la capitale. Offensiva che drenerebbe in breve tempo le capacità militari degli stessi assedianti.
Al tempo stesso, lo scenario che si è andato configurando nel corso degli ultimi mesi non lascia particolari alternative al primo ministro Abiy Ahmed se non quelle di proseguire nel conflitto, cercando di logorare la capacità degli avversari e sperando in un fortuito rovesciamento di fronte.
Uno scenario, pertanto, dove è altamente improbabile ritenere plausibile il ruolo di mediazione della comunità internazionale, delle organizzazioni internazionali e regionali o, in tempi più recenti, dell’iniziativa di alcuni singoli Stati africani.
Il conflitto, in questa sua nuova dimensione, non sembra quindi avere altra possibilità di evoluzione se non quella della continuità sino alla determinazione di un esito certo.
Ciò che desta allarme nell’analisi della crisi etiopica, tuttavia, non è solo l’attuale andamento della crisi e i suoi possibili risvolti militari nel prossimo futuro. Un ulteriore fattore di crisi, infatti, deriva dalle variabili che potranno caratterizzare la politica del Tigrai in caso di una sua vittoria contro il governo federale.
La promozione del referendum per l’indipendenza, infatti, rischia di inimicare al Tigrai tutti i suoi attuali alleati, che considerano l’ipotesi di una secessione di Macallè dalla federazione etiopica come un fattore altamente destabilizzante per il futuro del paese, che si troverebbe in tal modo a gestire una profonda crisi economica con ripercussioni sull’intera struttura del rimanente stato federale.
Non solo. Ad un Tigrai indipendente, senza sbocchi esterni alla regione e confinante con nazioni sostanzialmente ostili, si presenta un’unica possibile opzione strategica: regolare i conti con il regime di Isaias Afwerki in Eritrea.
Una vittoria del TPLF contro il governo di Abiy Ahmed, e una successiva probabile scelta indipendentista del Tigrai, rendono l’ipotesi di un conflitto contro l’Eritrea sostanzialmente una certezza. Il risentimento maturato nel corso del recente conflitto, e la contestuale esigenza di poter contare su un governo amico ed alleato, che offra uno sbocco in direzione del Mar Rosso per l’integrazione dell’economia del Tigrai con il sistema internazionale, non lasciano alcun margine decisionale all’amministrazione tigrina.
In tale contesto, pertanto, l’evoluzione della crisi etiopica in un conflitto regionale esteso all’Eritrea diventa sostanzialmente una certezza, sebbene con esiti di difficile previsione e con conseguenze sul piano sociale e umanitario al contrario facilmente prevedibili.
In tal modo, l’attuale dimensione dello sforzo negoziale della comunità internazionale dovrebbe guardare ad una più ampia linea d’orizzonte, comprendendo come il fattore di crisi nazionale etiopico costituisca solo l’elemento scatenante di una crisi regionale che rischia di coinvolgere anche Eritrea, Sudan e Somalia.