Il collo di bottiglia del Mar Rosso in un quadro regionale complicato
L’aggressione di Hamas contro Israele dello scorso 7 ottobre, e la successiva reazione militare di Tel Aviv contro la Striscia di Gaza, hanno generato conseguenze gravi quanto inaspettate nell’area del Mar Rosso: le milizie di Ansar Allah, meglio conosciute come Houthi, hanno iniziato a sferrare dal territorio yemenita una ripetuta serie di attacchi missilistici e con droni dapprima contro le nevi israeliane o dirette in Israele e poi più ad ampio raggio contro qualsiasi nave considerata espressione di entità ostili.
Gli Houthi, un’organizzazione politica e militare composta in larga maggioranza dalla locale comunità sciita degli Zaidi, sono emersi nel panorama politico dello Yemen ai primi degli anni Novanta dello scorso secolo, assumendo un ruolo di progressiva importanza nel corso dell’ultimo decennio e arrivando di fatto a controllare e governare buona parte del territorio settentrionale del Paese. Con l’emergere del conflitto civile del 2011, e soprattutto in conseguenza dell’intervento militare dell’Arabia Saudita e degli Emirati Arabi Uniti in Yemen (a sostegno del governo preesistente), gli Houthi hanno rinsaldato il legame con l’Iran. Teheran ha progressivamente contribuito ad incrementare le capacità militari dell’organizzazione attraverso la trasformazione e la modernizzazione del cospicuo arsenale militare di era sovietica cui gli Houthi ebbero accesso con la conquista della capitale Sana’a, ma anche fornendo all’organizzazione numerosi nuovi armamenti di produzione iraniana.
Il legame tra gli Houthi e l’Iran, sebbene reputato dai Paesi occidentali come organico al cosiddetto “asse della resistenza” a guida iraniana – che include Hezbollah e Hamas – è al contrario caratterizzato da un elevato grado di autonomia da parte dei ribelli nord-yemeniti, che ha spesso destato il disappunto dei vertici della Repubblica Islamica. Per Teheran il sostegno agli Houthi ha rappresentato un investimento a basso costo e altissimo rendimento nella fase più acuta della crisi che l’ha vista contrapposta all’Arabia Saudita, permettendo di fornire al movimento una capacità militare che non solo ha messo in grave difficoltà la coalizione militare guidata da Riyadh ma l’ha addirittura costretta ad accettare i termini di una sostanziale sconfitta e della partizione di fatto del Paese in due distinte entità statuali. Con la ripresa delle relazioni tra l’Iran e l’Arabia Saudita, tuttavia, l’assertività e l’indipendenza operativa degli Houthi ha determinato di sovente un imbarazzo per le stesse autorità iraniane, incapaci di contenere l’azione indipendente degli Houthi nella condotta del conflitto.
Con il cessate il fuoco del 2023 e l’avvio dei colloqui che dovrebbero idealmente portare a una soluzione della lunga guerra civile yemenita, tuttavia, le priorità degli Houthi e le relazioni con l’Iran sono entrate in una fase ancora una volta nuova. Per Ansar Allah si pone in questo momento il problema di gestire la difficile fase della transizione post-bellica e rispondere alle crescenti rimostranze della popolazione dello Yemen del nord, che lamenta l’incapacità delle autorità nel ripristinare i servizi essenziali, far ripartire l’economia e garantire una soluzione stabile e duratura degli equilibri politici. Gli Houthi, inoltre, vogliono incrementare quanto più possibile il peso della propria partecipazione ai colloqui di pace con i sauditi, ottenendo quei benefici economici che reputano in questo momento necessari per la gestione autonoma del proprio territorio, mentre appare alquanto impervia una soluzione politica capace di ripristinare un’integrità territoriale unica e centralizzata del Paese.
Gli eventi del 7 ottobre scorso e del successivo intervento israeliano a Gaza hanno quindi fornito agli Houthi una duplice opportunità: da un lato, di catalizzare il crescente malcontento intorno alla necessità di fornire una risposta al ruolo di Israele e di sostegno alla causa palestinese; dall’altro, di porsi nel contesto regionale come elemento centrale di una concreta risposta al ruolo di Tel Aviv, colpendone simbolicamente i flussi navali in transito nel Mar Rosso.
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In tal modo, il vertice del movimento ha cercato di incrementare il proprio consenso interno attraverso una postura di stampo nazionalista e di ispirazione pan-araba, trasformando la causa palestinese – non certo una priorità per la società locale – in una sorta di missione, cercando al tempo stesso di catalizzare il sostegno degli altri attori regionali ostili a Israele ma non attivi nel contrasto alle azioni dello stato ebraico.
Un azzardo, in termini complessivi, perché percepito come una minaccia non solo dalla comunità internazionale per i potenziali effetti sulla regolarità dei flussi marittimi in uno dei principali chokepoint del pianeta, ma anche dallo stesso Iran. Sebbene rientri pienamente nell’interesse della Repubblica Islamica un ruolo attivo degli Houthi capace di esercitare una costante potenziale minaccia locale contro gli interessi degli Stati Uniti e di Israele, e probabilmente anche dell’Arabia Saudita a dispetto dei più recenti passi di riavvicinamento, un ruolo così marcatamente assertivo e apertamente ostile rappresenta al contrario il superamento di una “linea rossa”: la sequenza di eventi ha infatti già provocato il potenziamento della presenza militare USA nel Mar Rosso e nell’Oceano Indiano e potrebbe sfociare poi in una più estesa escalation capace di spingersi oltre lo Stretto di Hormuz e raggiungere le stesse coste dell’Iran.
Questo dimostra, ancora una volta, come il sodalizio che lega gli Houthi all’Iran – in modo non dissimile dalla gran parte degli altri aderenti al cosiddetto “asse della resistenza” – sia regolato da logiche e dinamiche che collimano solo in parte, restando al contrario fortemente imperniate sulle rispettive agende nazionali dei singoli aderenti. Una dimensione tuttavia ben diversa dalla percezione occidentale, fortemente monolitica, incernierata sulla centralità iraniana dell’asse e sulla comunanza di visioni e azioni con Teheran.
Ulteriori aspetti di interesse nella dinamica di questa nuova crisi sono invece quelli connessi alla reale portata della minaccia da parte degli Houthi al traffico marittimo, alla capacità di Stati Uniti e Gran Bretagna di mitigarne la dimensione e alla percezione della crisi stessa da parte degli attori internazionali.
Il primo aspetto è probabilmente quello più complesso da verificare in questo momento, per diverse ragioni. Sebbene si stimi che l’arsenale degli Houthi sia alquanto vasto, e ampliato nel corso degli ultimi anni dal contributo fornito dall’Iran soprattutto con forniture di droni e missili di varia tipologia, più difficile si presenta la valutazione effettiva sotto il profilo quantitativo degli arsenali e sotto quello qualitativo delle componenti di comando e controllo necessariamente coinvolte nell’impiego degli armamenti. Solo una frazione, ad oggi, di quanto è stato impiegato dagli Houthi contro le navi in transito nell’area di Bab el Mandeb è risultato capace di determinare significativi danni e rappresentare una concreta minaccia, tanto da scoraggiare in certa misura il traffico pur infliggendo danni limitati a un numero ridotto di navi. Questo non esclude che la minaccia possa assumere proporzioni ben maggiori, sebbene l’ingresso nell’area di una consistente presenza navale statunitense ed europea mitigherà sempre più queste capacità, incrementando peraltro il rischio per gli Houthi di vanificare tanto gli obiettivi negoziali sul piano regionale con i sauditi quanto quelli di coesione della popolazione dello Yemen settentrionale.
Nel merito della effettiva possibilità che l’azione militare degli Stati Uniti e della Gran Bretagna possa ridurre la capacità degli Houthi e la volontà di compiere azioni ostili, invece, è probabilmente necessario ricordare come tale organizzazione abbia subito e sostenuto, per quasi sette anni, intensivi quanto indiscriminati bombardamenti da parte della coalizione a guida saudita, registrando certamente un numero enorme di perdite umane e la distruzione di armi e infrastrutture, senza tuttavia risultare né sconfitta né tantomeno sguarnita sotto il profilo degli arsenali. Azioni sporadiche contro le basi di lancio, in tal modo, potrebbero rivelarsi del tutto insufficienti a mutare il contesto operativo e decisionale degli Houthi, alimentando al tempo stesso il rischio di una più estesa area di intervento dell’organizzazione nord yemenita, e soprattutto tornando a rappresentare una minaccia tanto per l’Arabia Saudita quanto per gli Emirati Arabi Uniti.
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Ultimo, ma non meno rilevante, aspetto è quello della percezione della crisi da parte dei principali attori internazionali coinvolti. Era scontata la condanna dell’intervento statunitense e britannico da parte di Russia e Iran, ma deve essere al contrario presa in seria considerazione la posizione critica assunta dalla Turchia e le gravi preoccupazioni nutrite invece dall’Egitto, dall’Arabia Saudita e dagli Emirati Arabi Uniti, che guardano a un’escalation regionale con gli Houthi con il concreto timore di veder compromessi i propri interessi economici e della sicurezza.
Altrettanto allarmata è la Cina, che considera l’ipotesi di una forte riduzione del traffico navale nell’area del Canale di Suez e del Mar Rosso non solo come una pericolosa variabile economica ma anche come una potenzialmente definitiva archiviazione del già fragile progetto One Belt One Road, entrato ufficialmente nel suo secondo sviluppo decennale in forma alquanto diversa (e più limitata) rispetto agli intenti originari. Anche la posizione degli europei, infine, è stata alquanto pragmatica, attraverso il rifiuto della maggior parte dei Paesi dell’Unione di partecipare ad una missione navale a guida USA e caratterizzata da regole di ingaggio estensive, mentre attualmente si cerca di definire in chiave alquanto emergenziale la formazione di una missione a guida europea sul modello della preesistente Atalanta.