I resilienti think tank di Washington di fronte alla sfida trumpista
Idee e persone: “people are policy”, sostiene il fondatore della Heritage Foundation Edwin Feulner. I think tank occupano uno spazio interstiziale molto specifico nel sistema delle influenze di Washington, nel quale connettono esperti (ovvero idee, conoscenza e competenze), economia e finanza, media e classe politica. Se, a intervalli regolari, si scatta una fotografia dell’ambiente dei think tank della “Washington Belt” – ovvero quelli politicamente e fisicamente più vicini alla stanza dei bottoni – si ottiene un parziale ritorno di quello che accade nella capitale americana: l’agenda di policy del Congresso e del Presidente, la volontà di pressione su questo o quel tema di alcuni gruppi di interesse, gli obiettivi e le preoccupazioni di una componente dell’establishment.
Cosa è accaduto con Trump? In una puntata precedente di questo ragionamento sull’evoluzione dei think tank americani nell’era del “populismo al potere” era apparso evidente che l’establishment di Washington temesse i nuovi arrivati, ovvero il vecchio Bernie Sanders e soprattutto Donald Trump. Con Trump dato a lungo dai sondaggi perdente con Hillary Clinton, le critiche all’outsider che sparava ad alzo zero contro “Washington” – Repubblicani di lungo corso e think tank conservatori compresi – erano state dure e senza compromessi: a distinguersi era stata soprattutto l’American Enterprise Institute (AEI), un think tank conservatore che declina il suo nazionalismo e la sua idea del primato americano all’interno di una cornice liberale tradizionale e fortemente anti-protezionista (per intenderci, nel secco commento dell’AEI al nuovo accordo commerciale con Messico e Canada si dice semplicemente che “Trump ha aggiustato ciò che aveva rotto”).
Con l’American Enterprise Institute lontano dal “circle of trust” del Presidente (anche se i toni sono molto cambiati dalla vittoria a sorpresa del 2016) la storia dell’adattamento di Washington all’arrivo dei “barbari” mostra, altrove, dinamiche sempre sorprendentemente simili a se stesse. Si tratta di un adattamento delle persone che compongono il mandarinato dei think tank di Washington, piuttosto che un adattamento alle idee dell’amministrazione Trump; ma è comunque un adattamento. E ancora una volta, come ai tempi di Ronald Reagan, il think tank che apre le porte di Washington al Presidente del nuovo corso è la pragmaticissima Heritage Foundation: i Presidenti passano, la Heritage resta.
Nonostante la già leggendaria propensione di Donald Trump alla rotazione delle figure di nomina politica dell’Amministrazione, la Heritage ha tenuto fede al motto del suo fondatore: “people are policy”, e ha fatto ciò per cui è nata. Dunque, una volta stabilito su quali e quanti dossier poteva trovarsi in sintonia col Presidente o addirittura ispirarlo, la Heritage ha fornito personale per diversi livelli del sottogoverno federale. Gli affiliati Heritage nel Governo sono quasi 70; all’atto della creazione del transition team di Trump – il transition team è la squadra che gestisce il passaggio di consegne tra l’amministrazione uscente e quella neo-eletta, e che si occupa di compilare le liste delle prime nomine delle figure apicali della macchina federale – l’Heritage fellow Ed Corrigan si è occupato di selezionare i curricula di 10 agenzie federali, mentre alcuni nomi di rilievo dell’Amministrazione sono stati segnalati dalla Heritage (certo, non basta, ma il dato ci permette di farci un’idea della mappa di relazioni di figure di primo piano come Scott Pruitt, Betsy DeVos, Mick Mulvaney, Rick Perry, Jeff Sessions).
Un primo insegnamento sul mondo dei think tank: si può essere considerati relativamente rigorosi nella conduzione della propria attività scientifica – la Heritage non gode della stessa fama della AEI o di centri come la Brookings Institution – ma se si possiede un database di persone selezionate non solo per curriculum vitae ma anche per affidabilità (quello della Heritage conta 3.000 nominativi…) ci si garantisce un delivery di successo. Le rivoluzioni presidenziali raramente hanno la testa su ognuna delle 4.000 nomine in carico alla Casa Bianca; inevitabile che a un certo punto subentri la pratica del sub-appalto, anche nelle amministrazioni populiste.
Il fondatore della Heritage Foundation, Edwin Feulner, avviò la sua impresa nei primi anni ’70 (poco più che trentenne) avendo in mente che le amministrazioni repubblicane che intendessero davvero rovesciare il dominio democratico avrebbero dovuto lavorare sulla macchina gestionale, considerata troppo poco in sintonia con il nuovo conservatorismo dei Goldwater e dei Reagan. L’ossessione era quella della colonizzazione della macchina pubblica con burocrati leali a uno specifico sistema di valori e interessi. L’attitudine oggi rimane la stessa.
Sebbene all’inizio delle primarie repubblicane la Heritage avesse criticato Donald Trump (altre figure in lizza erano più avvezze alla frequentazione di questo think tank, come Mark Rubio e Ted Cruz) e diversi donatori e membri del think tank fossero molto scettici sugli anatemi di Trump contro il libero commercio internazionale, la Heritage ha scelto quasi da subito un profilo conciliante. Non partecipando, per esempio, alla rivolta dei repubblicani anti-Trump del marzo 2016, avviata nel mondo degli esperti di politica estera e di sicurezza: diversi i think tanker firmatari di un appello anti-Trump; nessuno di provenienza Heritage. La risorsa, secondo Feulner (intervistato dal New York Times), era l’assenza di un indirizzo preciso del gruppo di Trump attorno a moltissimi problemi di policy: essergli vicino sarebbe stata “una grande opportunità per fare la differenza”. A cominciare dalla presenza della Heritage nel Transition Team: a oggi il think tank sostiene che il 64% delle sue proposte sia stato acquisito dall’Amministrazione (calcolo azzardato, misurazione complicatissima… ma questo è ciò che sostiene la Heritage nel suo Blueprint for Impact).
C’è però un secondo decisivo insegnamento a proposito dei think tank personali: laddove i vecchi network in cui essi sono inseriti fanno fatica ad accettare il nuovo establishment che arriva in città, un cambio di passo strategico può avvenire grazie si sostenitori economici di un think tank. Un investimento razionale non porta a concedere fondi a un candidato vincente e contemporaneamente a un think tank che vi si oppone.
In conclusione: neanche Donald Trump può fare a meno dell’establishment di Washington, al momento dovuto. A vincere, nei limiti delle intemperanze presidenziali, è l’organizzazione che offre soluzioni, non tanto in termini di proposte di policy quanto di capacità di presidio della malandata e caotica macchina amministrativa. In questo caso, salvaguardando una certa durezza culturale repubblicana grazie a un establishment genuinamente conservatore, certificato Heritage. Come al solito, una capacità di egemonia – anche qui, nei limiti dell’originalità di questo mandato presidenziale – che potrebbe affascinare gli studiosi di Antonio Gramsci.