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I quattro messaggi di Donald Trump all’Europa

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La coreografia delle visite di stato non lascia troppo spazio alla spontaneità, e quelle alla Casa Bianca non fanno eccezione; anzi, quando il Presidente e il suo ospite si danno troppo di gomito e si trattano come amiconi non si può fare a meno di pensare a una familiarità espressa solo a beneficio di foto e video. Ben venga dunque qualche imbarazzo, quando è sincero. Ma la grande freddezza percepita ed esibita tra Donald Trump e Angela Merkel nella visita di metà marzo rivela il distacco profondo e inedito tra la Casa Bianca e l’establishment politico europeo.

Il voto britannico contro l’Unione Europea e la crescita del nazionalismo erano stati allarmanti, ma la vittoria di Trump ha terrorizzato le classi dirigenti del Vecchio continente. Il menu elettorale europeo, visto dal novembre 2016, presentava una serie di match point ai partiti anti-UE, che di Trump si dichiaravano araldi: la presidenza austriaca, il governo olandese, la presidenza francese e il cancellierato tedesco.

Contro molte previsioni, i primi due colpi sono stati schivati. A Bruxelles e nelle capitali dell’Unione, soprattutto dopo la sconfitta di Geert Wilders, si è cantato vittoria: “una vittoria per l’Europa”. È restato irrilevante, a quegli occhi, che i laburisti di Jeroen Dijsselbloem, ministro delle Finanze olandese e inflessibile presidente dell’Eurogruppo pro-austerità, siano stati annientati dagli elettori (scendendo al 6% dal 25% della tornata precedente). E che in Austria lo stesso sia capitato ai candidati popolari e socialdemocratici: il nazionalista Norbert Hofer è stato battuto, lo scorso dicembre, solo dall’indipendente Van Der Bellen, affiliato ai Verdi per l’occasione.

Le classi dirigenti europee restano ben lungi dal rivivere l’agognata primavera, anche se dalle celebrazioni per i 60 anni dei Trattati di Roma in poi dovranno ridisegnare e riscrivere le regole di un’Unione che funziona male. Ma la tentazione di lasciare tutto com’è e tornare al business as usual una volta passata la nottata “populista” – specialmente in caso di sconfitta di Marine Le Pen – è già palpabile. Paradossalmente, proprio dalla vicenda dell’anti-establishment per eccellenza Donald Trump potrebbero arrivare alcuni buoni suggerimenti all’establishment europeo su come non commettere questo errore; un errore che l’Europa pagherebbe caro.

L’urgenza di correggere gli squilibri della globalizzazione

Il miliardario newyorchese è diventato presidente del paese-simbolo della globalizzazione proprio grazie a una narrazione anti-globalizzazione: contro il commercio internazionale, l’immigrazione, la libertà di movimento. Una scelta che ha fruttato i voti decisivi per vincere dalle aree industriali e dai distretti produttivi più in crisi.

La classe dirigente europea resta a favore dei trattati che abbattono le barriere commerciali e ammorbidiscono le regolazioni – negli USA criticati prima da Trump e da Bernie Sanders e infine da Hillary Clinton. Nonostante le proteste, la UE ha firmato il CETA con il Canada, e non avrebbe certo “parcheggiato” il TTIP se questo non fosse stato seppellito dagli Stati Uniti – anche se obiezioni e dubbi da parte soprattutto tedesca non mancavano. Fuori da alcune regioni globalizzate che attraggono lavoro e opportunità, però, l’Europa abbonda di aree industriali e di distretti produttivi desertificati anche grazie a un fraintendimento dei processi in corso e a una rinuncia della politica al suo ruolo regolatore. Consentire di spostare i centri di produzione e le catene di distribuzione dei beni prodotti in regioni del mondo con un più basso costo del lavoro ha comportato, in un momento storico in cui il lavoro umano viene sostituito dal progresso tecnologico in tanti settori, l’espulsione di molti cittadini europei dal vecchio mondo del lavoro, senza il biglietto d’ingresso per quello nuovo.

Solo un’Unione Europea profondamente riformata avrebbe la dimensione ideale (quella continentale) e lo strumento adatto (una politica economica e sociale) per risolvere uno squilibrio che ne mina solidità e benessere. Prima che il comprensibile dissenso di questo gruppo sociale coaguli infine in una maggioranza politica anti-UE.

Il valore di un processo decisionale legittimo

La forza dirompente e incontrollata della propaganda di Donald Trump ha fatto credere che la sua elezione avrebbe scombinato il sistema politico-legislativo degli Stati Uniti: il nuovo Presidente avrebbe cambiato politiche, eretto muri, espulso clandestini, riaperto fabbriche, ricostruito strade e ponti, eccetera. La realtà ci ha dimostrato che anche la bulimia di Trump deve rispettare le regole, le istituzioni e le procedure dell’architettura istituzionale americana, e il giudizio di una cittadinanza consapevole. Le leggi, come Obamacare, non possono essere cancellate con un tratto di penna dal Congresso; i decreti, come il Muslim Ban, non possono sorvolare sulla giurisprudenza e sulla Costituzione.

Da questi controlli e contrappesi emana la legittimità di un sistema che dura indipendentemente dalla persona chiamata a guidarlo. Le istituzioni della Germania di Angela Merkel sono un modello dal punto di vista delle garanzie democratiche; l’esame della sua Corte costituzionale, ospitata dalla città di Karlsruhe, diventata famosa anche al di fuori del Paese, ha tenuto sotto scacco molte importanti politiche europee. Ma così non vale per gli altri paesi: ad esempio, le decisioni economico-politiche assunte dal Consiglio (contestate nei paesi mediterranei) e dalla BCE (contestate dai membri mitteleuropei) sono sottoposte a uno scrutinio democratico largamente insufficiente rispetto al loro peso, sia a livello europeo che nazionale. Alla UE manca un sistema di controlli e contrappesi efficiente, e che elimini il doppio livello. Non sorprende che la cittadinanza, quando è chiamata a giudicare, finisca per esprimersi quasi sempre “contro” un sistema politico-decisionale considerato poco legittimo.

L’importanza di ripensare il concetto di confine e quello di unione

“L’immigrazione non è un diritto, ma un privilegio”, ha detto Donald Trump ad Angela Merkel. Una frase che rinnega la storia americana, e che sembra conferire al Presidente l’aura di sovrano quasi assoluto, unico concessore a piacimento di diritti ai suoi sudditi.

L’immigrazione, come sempre nella storia, è utilizzata a piene mani come propellente politico anche ai quattro angoli d’Europa. E la situazione è resa più delicata dalle paure per gli effetti della violenta e lunga transizione in Medio Oriente (rifugiati, terrorismo, conflitti religiosi) e dai malfunzionamenti della UE che impediscono di costruire risposte politiche coerenti e di ampio raggio in un tempo ragionevole. Gli accordi con la Turchia e con la Libia, che chiudono le due principali vie d’accesso dei rifugiati all’Europa, hanno avuto la conseguenza positiva immediata di facilitare l’accoglienza e di raffreddare lo scontro sia tra i partiti e che tra i paesi che rifiutano o offrono transito e ospitalità. Di fatto, però, gli accordi stretti dall’Unione significano un “muro” alla Trump sul confine marittimo meridionale.

Ma una chiusura esterna permanente sarebbe tutt’altro che sostenibile per il continente nel medio e nel lungo periodo, anche se molti Stati la pretendono in cambio del mantenimento della libera circolazione interna. Negli Stati Uniti, l’afflusso di immigrati (15 milioni di latinos solamente tra il 2000 e il 2010, e 6 milioni di asiatici) è tra i fattori che ha garantito la crescita economica del Sud e dell’Ovest negli ultimi decenni – ossia praticamente l’intera crescita del paese. E ha garantito la permanenza delle metropoli americane nell’economia globalizzata durante gli anni della crisi – grazie a una manodopera più variegata, giovane, qualificata e flessibile – rendendo le aree urbane, in più, quasi impermeabili all’ondata xenofoba e nazionalista rappresentata dalla proposta politica di Donald Trump. Inoltre, l’immigrazione conserva gli Stati Uniti un paese giovane: il 34% degli americani ha meno di 25 anni e il 13% più di 65; le stesse proporzioni sono, per gli europei, 21% e 16%.

Crescita economica, resistenza al nazionalismo, inversione di tendenza sull’invecchiamento: tre ingredienti senza i quali l’Europa non ha futuro.

La distinzione tra populismo e democrazia

“A dispetto di ciò che avete ascoltato dalle FALSE NOTIZIE (“fake news”), l’incontro con Angela Merkel è andato ALLA GRANDE. Ciononostante, la Germania deve un sacco di soldi alla NATO e gli Stati Uniti dovrebbero essere pagati di più per la potente e molto costosa difesa militare che offrono alla Germania!”. Maiuscole incluse, questo è il doppio tweet che il Presidente americano ha postato dopo l’incontro con Angela Merkel. Un’applicazione letterale del “populismo” del XXI secolo.

Forse, l’elemento che tranquillizza di più l’establishment europeo in questo inizio di 2017 è aver visto i propri avversari all’opera. Il rifiuto di Germania e Olanda di consentire a membri del governo turco di fare propaganda nei propri territori (dove vivono grosse comunità turche) in favore della riforma costituzionale illiberale di Recep Erdogan ha fatto andare su tutte le furie Ankara, che ha tacciato di nazismo i due paesi. Risultato: balzo in avanti nella popolarità di Angela Merkel e del premier olandese Mark Rutte, che anche grazie a questo episodio ha recuperato punti su Geert Wilders. Lo stesso Trump ha commentato con tanto livore contro i media la visita della Cancelliera perché grazie alle sue proprie idiosincrasie e alla silenziosa ma eloquente espressività di Angela Merkel l’evento si è trasformato in un disastro di immagine: era molto tempo che un politico tedesco non raccoglieva tanta simpatia negli Stati Uniti.

Quindi, la classe dirigente europea potrebbe convincersi della bontà di un consenso richiesto su questa linea di pensiero: noi siamo gli eredi dei padri fondatori dell’Unione, garanzia contro il ‘populismo’; perciò bisogna accettare il nostro disegno politico. Un’asserzione non solo essa stessa populista (e aristocratica), ma anche una contraddizione in termini: ogni costruzione politica democratica nasce monca, senza la partecipazione diretta e consapevole della cittadinanza.

Ciò vale anche per la nuova (eventuale) Unione. Le élite europee hanno disegnato Stati, confini, regole per gli altri, infinite volte, per secoli – finché la storia ha concesso loro di farlo. Altrettante volte, ne hanno contato i danni.