international analysis and commentary

I molti destini legati al voto di Westminster dell’11 dicembre

2,440

Non molti, all’indomani del referendum che sancì l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea, avrebbero potuto pensare che due anni dopo sarebbe stata la politica britannica a finire in pezzi, di fronte al peso e alle conseguenze inesorabili di quel voto. E non quella europea: contro ogni pronostico, la linea politica e negoziale di Bruxelles è rimasta stabile e unitaria, e la coerenza dell’UE ha contribuito certamente all’aumento del caos, o del panico, a Londra.

Il simulacro di accordo (la sua definizione richiederebbe, o richiederà, altri anni) raggiunto tra le due parti, infatti, tutti lo riconoscono, è una sconfitta per il Regno Unito. Theresa May (che aveva fatto una blanda campagna per il Remain) ha avuto il merito democratico di non disconoscere il voto dei suoi concittadini, e di accettarne conseguenze e responsabilità. Ma il prezzo di un accordo tanto duro per Londra, un vero hard deal, è stato già pesante per il Regno Unito, e ancora di più potrà esserlo in futuro.

Skyline a Westminster

 

Il governo di Theresa May ha registrato l’addio dei ministri – favorevoli a una hard Brexit – Boris Johnson e David Davies, campioni di quella parte di elettorato orfano dell’UKIP di Nigel Farage, tra i portabandiera della dipartita dall’UE, primo partito alle elezioni europee del 2014 e oggi lontano dai radar. E’ chiaro che Johnson – ex sindaco di Londra, poi ministro degli Esteri fino alle polemiche dimissioni – vorrebbe scalzare May dalla guida del partito conservatore, accollandole la colpa di un’uscita dall’UE che non assomiglia ai verdi pascoli promessi (dai Leavers) agli elettori: “Theresa May è riuscita in una grande impresa: unirci tutti – Leavers, Remainers, anche Tony Blair – nella convinzione che l’accordo rappresenti un’umiliazione nazionale, che rende la Brexit una caricatura”, continua a martellare l’ex ministro.

Il voto parlamentare che dovrebbe ratificare l’accordo, martedì 11 dicembre, potrebbe ratificare invece la fine del governo e della carriera politica della May*, che in queste settimane, per difenderlo, ha percorso un’impietosa via crucis istituzionale (a cui si è sottoposta con grande flemma e tenacia). A Westminster in effetti non c’è solo l’opposizione dei laburisti che gridano al tradimento, dei liberal-democratici che sono il gruppo più eurofilo, dello Scottish National Party che agita lo spettro della uscita della Scozia dal Regno Unito. Ma contro il governo si è schierato anche il DUP, il partito nordirlandese pro-Brexit i cui 10 deputati sono decisivi per la maggioranza. In più, decine e decine di deputati conservatori hanno manifestato dubbi e contrarietà.

La maggioranza dei deputati non vuole lo scenario che uscirebbe da un voto negativo di Westminster: la rottura unilaterale di tutte le relazioni con l’Unione Europea – accordo o no, l’uscita è stabilita venerdì 29 marzo 2019, alle 23. Un altro accordo, che mandi in soffitta i due anni di trattative appena conclusi, o un altro referendum, sembrano però opzioni che solo un nuovo governo, con un nuovo mandato dai cittadini, potrebbero approntare – senza contare l’imprevedibilità dell’esito di entrambi. Theresa May quindi può contare sull’argomento “o me, o il caos”. Anche perché i sondaggi continuano a dare i conservatori e i laburisti appaiati al 40% delle intenzioni di voto: dalle urne potrebbe uscire un nuovo parlamento bloccato, senza maggioranze definite, che lascerebbe invariate divisioni e indecisioni.

Il Parlamento britannico sembra carico, alla vigilia, di una netta contrarietà, di una gran voglia di scatenare la propria insoddisfazione: anche tra i più critici della Brexit, all’inizio in pochi avevano previsto che uscire dall’UE significasse rimettere in discussione gli accordi storici con l’Irlanda e rialzare un confine doloroso, rischiare di perdere la sovranità non solo sulla piccola Gibilterra ma anche sulla grande Scozia, rinunciare ai molti vantaggi dell’economia finanziaria e della libera circolazione di persone e merci, e non poter allo stesso tempo tornare ad agire per chissà quanto tempo da stato libero, restando condizionato alle regole di Bruxelles. Il tutto, alla modica cifra di 35 miliardi di euro – a tanto ammonta la buonuscita che il governo inglese ha accettato di pagare alla UE.

Il fronte pro-accordo può contare su una scappatoia: una disposizione costituzionale offre a Theresa May ulteriori ventun giorni per indire un’altra votazione a Westminster. La premier potrà sperare che, se non il buon senso, almeno il panico sui mercati e le pressioni delle imprese e della finanza riescano a convincere i suoi a sostenerla. In ballo non c’è solo il destino dell’economia inglese: se nessun accordo è raggiunto, in teoria dal 24 marzo in poi le imprese britanniche operanti nella UE si troverebbero nel vuoto normativo, per di più in un momento in cui vari paesi d’Europa sembrano  tornare alla recessione, mentre un rallentamento è già in atto. Gioca un ruolo anche il timore del mondo conservatore, diffuso in una parte sostanziale della società, che il governo successivo sia guidato dal laburista radicale Jeremy Corbyn e dai suoi propositi redistributivi ed egualitaristici.

Corbyn nel 2016 ha fatto campagna per restare nell’Unione Europea. Una campagna “light” che non ha voluto mascherare i dubbi che percorrono il partito. Per una parte della sinistra inglese, la UE rappresenta una delle grandi entità del capitalismo internazionale; lo stesso Corbyn è convinto che con meno immigrazione i salari dei britannici recupereranno potere d’acquisto, perché non saranno esposti alla concorrenza di persone che accettano paghe minori – nel decennio precedente al referendum, l’immigrazione netta nel Regno Unito è oscillata tra le 200 e le 300mila persone l’anno, ma la cifra è molto più alta se si considera solo la forza lavoro. E il giorno del referendum molti feudi laburisti nelle zone più povere del Regno Unito hanno visto il Sì alla Brexit vincere.

Anche se si sta facendo strada una certa narrativa secondo cui i britannici ora sarebbero favorevoli a restare nella UE (ma anche prima del voto del 2016 i sondaggi vedevano vincere il Remain), Corbyn non si persuade a sposare con entusiasmo la causa di un rientro forzato nell’Unione Europea. In effetti, la raccomandazione dell’avvocato generale della Corte di Giustizia UE (emessa il 4 dicembre), per cui l’Articolo 50 che regola la Brexit può essere revocato da Londra senza la ratifica degli altri 27 membri, apre la porta a una marcia indietro mediante un nuovo referendum.

Ma la pronuncia della Corte di Lussemburgo crea al leader laburista più imbarazzi di quanti ne risolva. Corbyn sa che, anche se l’accordo ottenuto dai conservatori è considerato un disastro, anche se forse qualcuno ha cambiato opinione, l’idea di tornare nella UE non scalda i cuori dei suoi elettori più euroscettici. Il voto contro l’Unione Europea aveva avuto varie motivazioni, tra cui nell’elettorato laburista quella di dare un dispiacere all’allora premier conservatore David Cameron; tutti sanno che tornare tra le braccia di Bruxelles – dove il fronte conservatore e le sue politiche di austerità sono egemoni – non risolverebbe i problemi endemici delle classi medio-basse britanniche. Tutto chiedono, queste, tranne che essere mobilitate in favore di istituzioni come quelle comunitarie di cui non gli interessa la logica e il senso.

Un nuovo referendum, insomma, rischia di spaccare la sinistra inglese, che invece da decenni non si sentiva così in salute, così capace di fare il pieno sia tra le classi popolari che in quella parte dell’opinione pubblica stanca dei governi Tory. La strategia di Jeremy Corbyn, perciò, resta prima di tutto quella di far saltare Theresa May e la sua maggioranza, con il fallimento dell’accordo con Bruxelles, e vincere le successive elezioni. Dopo, promette Corbyn, si inizierebbero nuovi negoziati.

Nel rifiuto di un nuovo referendum, Corbyn è dunque in una strana ”convergenza parallela” con Theresa May. Se la decisione della Corte fosse interpretata come un via libera a un nuovo governo che annullasse l’accordo ottenuto da May e riportasse il Regno Unito alla situazione pre-referendum, potrebbe formarsi una nuova maggioranza parlamentare “di scopo” senza nemmeno passare dalle elezioni. Per Theresa May sarebbe la fine. Sono molti i destini politici, personali e generali, appesi al filo del voto parlamentare di Londra dell’11 dicembre.

*Aggiornamento. Nella tarda mattinata del 10 dicembre, proprio per le ragioni esposte in questo articolo, la premier britannica ha deciso di rinviare il voto parlamentare (a data da destinarsi).