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I due Presidenti e la gestione della difficile partnership USA-Cina

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Può un “vecchio amico” venire a patti con un “dittatore”? Le parole hanno un peso, soprattutto se a pronunciarle sono il Presidente americano Joe Biden e l’omologo cinese Xi Jinping. Ancor più se quelle parole vengono pronunciate dopo il primo incontro bilaterale in oltre un anno, e il primo dopo la crisi dei presunti palloni-spia abbattuti sui cieli del Montana in febbraio e additati da Washington come strumenti di spionaggio cinese. Salutato come un “vecchio amico”, l’inquilino della Casa Bianca ha ribadito di ritenere ancora Xi un “dittatore”. D’altronde, non bastano quattro ore di discussioni a porte chiuse per dimenticare oltre un secolo di rivalità, convinzioni ideologiche antitetiche e le reciproche ambizioni (geo)politiche ed economiche, con un confronto di intensità crescente nell’ultima decade. 

Xi Jinping e Joe Biden

 

Ma non è certo per ricevere complimenti che il leader cinese si è recato negli Stati Uniti dopo sei anni. Piuttosto doveva essere (ed è stata) un’occasione – come spiegato dallo stesso Xi – per “trovare il modo corretto di convivere, gestire efficacemente le differenze, promuovere una cooperazione reciprocamente vantaggiosa, e assumersi le principali responsabilità nazionali e promuovere gli scambi interpersonali”. O per dirla con le parole di Biden, per cominciare a “prendere il telefono e chiamarsi”. 

Quello dei “Leader-to-leader talks” (la linea di comunicazione diretta tra i due capi di Stato) è solo uno dei venti accordi siglati dai due presidenti a margine del forum APEC di San Francisco. Xi e Biden hanno convenuto sulla necessità di portare avanti colloqui in vari settori, dai cambiamenti climatici agli scambi accademici fino ai dossier più sensibili: sviluppo dell’intelligenza artificiale (IA), collaborazione scientifica e tecnologica, oltre ai tanto attesi contatti militari, interrotti unilateralmente da Pechino dopo la visita di Nancy Pelosi a Taiwan nell’agosto del 2022. Non solo. Accusata da Biden di violazioni dei diritti umani, la Cina ha saputo barattare maggiori controlli sul contrabbando di fentanyl – proprio da lì arriva la maggior parte della droga che ha scatenato un’epidemia di oppioidi negli Stati Uniti – in cambio di un allentamento delle sanzioni americane sulla repressione nel Xinjiang. 

Suggellando mesi di trattative e incontri ministeriali, l’incontro di San Francisco conferma più o meno tutte le anticipazioni dei media. Compreso l’invio di nuovi panda negli zoo americani. Più inaspettato e spontaneo è stato invece lo scroscio di applausi che mercoledì ha accolto Xi alla cena con Tim Cook di Apple e un’altra quarantina di Ceo americani. Dimostrazione di come anche sull’altra sponda del Pacifico chi ha interessi in Cina auspichi un appeasement, non un decoupling, cioè di una distensione e non di un distacco tra i due sistemi produttivi. Si tratta tutto sommato di un successo forse insperato per Xi, giunto negli Stati Uniti nel pieno di una mini-crisi interna: l’economia nazionale rallenta, gli investimenti stranieri battono in ritirata e l’ennesima campagna anticorruzione attesta come tra la nomenklatura comunista e i vertici dell’esercito ci sia ancora da fare molta pulizia.  

Che l’esito della visita fosse motivo di apprensione per le autorità cinesi lo suggerisce la decisione di confermare il viaggio solo pochi giorni prima della partenza; forse per mettere sotto pressione Biden o forse piuttosto per prevenire l’umiliazione di un altro pretestuoso “pallone-spia” (dopo l’episodio del gennaio scorso). E invece, da una parte, l’accoglienza all’APEC californiano (e nella storica tenuta di Filoli) ha permesso al Presidente cinese di riacquistare punti in madrepatria, dove le difficoltà economiche per la prima volta in diversi decenni rischiano di incrinare la legittimità della dirigenza comunista agli occhi dei cittadini. D’altra, il forum ha fornito l’occasione per rassicurare la comunità internazionale dopo la controversa assenza di Xi al G20 di Nuova Delhi. Intonando il canto delle sirene, il presidente cinese ha ricordato agli investitori americani come “la Cina sia non solo un’economia molto grande ma anche un mercato che conta 1,4 miliardi di potenziali consumatori.”  

 

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Certo, anche Biden può cantare vittoria. La cooperazione cinese sul versante fentanyl può essere usata per rilanciare una campagna elettorale non entusiasmante – anche se la vaghezza degli impegni presi a San Francisco non rassicura completamente. Secondo le indiscrezioni del South China Morning Post, i due leader avrebbero dovuto concordare anche la messa al bando dell’IA nelle armi autonome: ma Biden ha fatto riferimento solo al lancio di future interlocuzioni per discutere del potenziale pericoloso e destabilizzante della nuova tecnologia. Lo stesso attesissimo riavvio dei contatti militari si preannuncia tutt’altro che risolutivo, considerato che anche prima della sospensione degli scambi tra i due Paesi, sotto la presidenza Trump, la Cina era restia a comunicare con le forze di difesa straniere. Né in passato le misure preventive sono bastate a evitare il verificarsi incidenti nel Mar cinese meridionale.

Concretizzare non è mai facile quando manca fiducia reciproca. Come sottolineato dal Global Times, giornale di larga diffusione edito dal Partito Comunista Cinese, “San Francisco è un nuovo punto di partenza, ma la chiave per un altro incontro risiede nell’attuazione di questi accordi da parte degli Stati Uniti. Questa è l’incertezza che i due interlocutori non possono evitare, e mette alla prova la credibilità politica americana”. Ecco il vero problema: ancora una volta Pechino respinge qualsiasi responsabilità per il deterioramento delle relazioni, attribuendo interamente a Washington la colpa. In particolare il governo cinese non accetta di definire il rapporto tra le due potenze “competizione”: sono gli Stati Uniti ad avere una “percezione deviata della Cina, del mondo e di sé stessi”.

Da qui l’appello di Xi a sviluppare “una corretta comprensione” l’uno dell’altro, impegnandosi a favore di una relazione “sana, stabile e sostenibile” basata sui pilastri del “rispetto reciproco, della coesistenza pacifica e della cooperazione vantaggiosa per tutti”. Secondo Xi, la Repubblica Popolare “non esporta la sua ideologia, né si impegna in un confronto ideologico con alcun Paese. Non ha un piano per superare o spodestare gli Stati Uniti e, allo stesso modo, questi non dovrebbero tramare per reprimere e contenere la Cina”. Sarebbe inutile. “Lo sviluppo e la crescita della Cina (…) non verranno fermati da forze esterne”, ha detto Xi invitando l’omologo americano a rimuovere le restrizioni alle esportazioni statunitensi di tecnologie critiche verso la Cina. 

E’ un punto, questo del diritto allo sviluppo, su cui Washington e Pechino continueranno a scontrarsi. Alla richiesta cinese di “interrompere la strumentalizzazione e politicizzazione dell’economia”, la Segretaria al Commercio Gina Raimondo ha risposto che il dialogo non implica compromessi quando di mezzo c’è la sicurezza nazionale. Per pura casualità o per voluto simbolismo, il bilaterale tra Xi e Biden ha coinciso proprio con l’entrata in vigore delle nuove limitazioni sulle forniture di chip americani. 

Ma puntando il dito contro lo “zio Sam” Pechino sembra trascurare il vero motivo del recente disimpegno delle aziende occidentali dal suo mercato: l’introduzione di politiche sui dati digitali e i segreti di Stato che espongono il personale straniero (oltre a quello nazionale) in Cina ad arresti arbitrari e imprevedibili. Né Pechino sembra tenere conto delle preoccupazioni condivise dagli alleati di Washington: le filiere globali diversificano verso il Sud-Est asiatico e l’America Latina, mentre le potenze asiatiche stringono nuovi partenariati militari anche in chiave anti-Pechino. E’ difficile rifilare il mantra della “coesistenza pacifica” a chi fronteggia quasi quotidianamente l’espansionismo cinese nelle acque regionali. 

Persino a migliaia di chilometri di distanza, l’Unione Europea spaccia per “autonomia strategica” misure contenitive di ispirazione americana. Xi spera quindi che l’incontro con Biden contribuirà anche a tranquillizzare i partner europei. Soprattutto in vista dell’imminente trasferta di Ursula von der Leyen in Cina. Dalla natura del rapporto tra Stati Uniti e Cina dipende “il futuro dell’umanità”, ha convenuto il Presidente cinese rimarcando la dimensione internazionale della competizione con Washington. 

Come prevedibile, il vero scoglio tra le due superpotenze rimane Taiwan; la “questione più importante e delicata nelle relazioni Cina-Usa”, la “linea rossa” da non oltrepassare. Come ribadito dal leader cinese, Pechino non vuole una “guerra fredda” e tanto meno una “guerra calda”. Ma la riunificazione resta un trend “inarrestabile”, e stavolta Xi pare avere messo in chiaro a quali condizioni potrebbe diventare necessario l’impiego dei missili. Non basta più solo non sostenere l’indipendenza di Taiwan; Xi ha chiesto a Biden di smettere di armare l’isola. Presupposto inaccettabile per gli Stati Uniti, che sugli impegni presi con Taipei negli anni ‘70 fondano la credibilità delle varie alleanze regionali. 

A minare la tregua tra il “vecchio amico” e il “dittatore” si aggiungono le presidenziali taiwanesi del gennaio 2024, quando a Taipei potrebbe arrivare un ex “pragmatico lavoratore per l’indipendenza”. Il candidato progressista William Lai, oggi in testa ai sondaggi, rischia di creare qualche grattacapo a Washington. Un conto è contribuire all’autodifesa dell’isola, un altro è dover intervenire direttamente in caso di un’invasione cinese. Uno scenario su cui Biden – interpellato in conferenza stampa – non si è espresso.

 

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Sotto il tappeto restano poi le incomprensioni sistemiche. Su entrambe le sponde del Pacifico permane la consapevolezza che gli interessi economici non bastano ad appianare le divergenze ideologiche. Tracciando un confine netto con l’Occidente, Xi ha sentenziato che la Cina “non seguirà la vecchia strada della colonizzazione e del saccheggio, né quella sbagliata che prevede la ricerca dell’egemonia con forza crescente”. E’ un monito che assume maggiore peso alla luce della guerra in Ucraina e a Gaza, che Pechino attribuisce da una prospettiva storica alle mosse machiavelliche dell’ex “Primo Mondo”. 

Così, mentre Xi si è impegnato a riportare la pace in Medio Oriente – anche intercedendo con l’Iran – è indicativo che “l’amicizia senza limiti” con la Russia non compaia nei rispettivi comunicati ufficiali. Il Presidente cinese sa di non avere molti amici al momento, e quelli che ha se li tiene stretti. “I Paesi occidentali guidati dagli Stati Uniti hanno attuato il contenimento, l’accerchiamento e la repressione a tutto campo della Cina”, ha dichiarato a marzo. Si riferisce alla guerra commerciale con Washington e alla strategia di differenziazione commerciale portata avanti dall’Unione Europea, mirata a non dipendere più da Paesi potenzialmente inaffidabili. Ma va riconosciuto che la tendenza al “disaccoppiamento” sul piano valoriale precede la guerra tariffaria di Donald Trump. Con la compilazione del cosiddetto “documento numero 9”, già nel 2013 l’amministrazione di Xi Jinping, allora appena insediata, dichiarava guerra alla democrazia, al costituzionalismo e alla libertà di espressione. Insomma, all’Occidente.

E, mentre il Presidente cinese smentisce pretese egemoniche, la retorica di Xi (forse inconsapevolmente) lascia oggi intendere piani più ambiziosi: se all’epoca di Obama Pechino invitava Washington alla coesistenza nello scenario dell’Oceano Pacifico, oggi la Cina reclama a pari merito un ruolo globale. “La Terra è abbastanza grande da ospitare entrambi i Paesi”, ha detto all’APEC il Presidente cinese. Non è fuori luogo sostenere che la presenza di Xi a San Francisco doveva servire anche a consolidare quel duplice ruolo di potenza mondiale (accolta in Occidente ancora con il tappeto rosso) e al contempo capofila del cosiddetto Sud Globale. “La Cina rimane divisa, da sempre – fin dall’epoca delle Guerre dell’oppio – fra cinismo/mancanza di fiducia verso il sistema internazionale a guida occidentale e la necessità di interagire con questo per accedere a opportunità economiche e rimanere rilevante a livello internazionale,” conferma ad Aspenia Zeno Leoni, lecturer del King’s College nonché autore di “Grand Strategy and the Rise of China: Made in America”. Il rapporto speciale con un Vladimir Putin traballante non è un viatico sufficiente per un Paese che considera la “mianzi” (reputazione, in mandarino) sopra ogni cosa.

In quest’ottica, riannodare il dialogo e definire le linee rosse serve quindi, sì a evitare che le incomprensioni con Washington debordino in un conflitto. Ma anche a definire le condizioni e i termini della “coesistenza pacifica”. D’altronde, come affermato recentemente da Wu Xinbo, direttore dell’istituto affari internazionali presso l’Università Fudan di Shanghai, a Pechino prevale l’impressione che gli Stati Uniti non vogliano veramente “migliorare” le relazioni con la seconda economia mondiale. Vogliono semplicemente “stabilizzarle”, con l’obiettivo reale di posticipare il sorpasso cinese.