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I dubbi di David Cameron e la tenuta della sua coalizione

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Le Olimpiadi – seguite dalle Paralimpiadi – sono state salutate dai media britannici come un vitalizzante successo nazionale, organizzativo e sportivo. E non a torto. Ma non per questo i problemi di fondo della Gran Bretagna si sono attenuati.

Con il rimpasto annunciato a inizio settembre, proprio a metà del mandato elettorale, David Cameron ha cercato di rilanciare l’azione di governo e risollevare un’immagine appannata dalla crisi economica e dalle tensioni con gli alleati. Il primo ministro si trova a dover gestire una recessione che, giunta sul finire del 2011, persiste nonostante alcuni segnali di ripresa. Aumentano infatti, presso l’opinione pubblica e all’interno del suo stesso partito, le perplessità sulle sue capacità di leadership, mentre i rapporti di coalizione con i LibDem potrebbero ulteriormente complicarsi. Una situazione complessa, che si inserisce nel quadro della crisi dell’eurozona e delle relazioni, sempre più discusse e anch’esse causa di tensioni, tra la Gran Bretagna e l’Unione Europea. È in questo contesto che Cameron si prepara alle elezioni del 2015.

Per cercare di capire in quale direzione andrà il governo nei restanti due anni e mezzo di legislatura occorre guardare ai ministri che sono sopravvissuti al rimpasto (annunciato via Twitter), oltre a quelli che se ne vanno. Il più significativo tra i sopravvissuti è George Osborne, uno dei cancellieri più impopolari della recente storia inglese (fischiato alle Paralimpiadi proprio alla vigilia del rimpasto), ma alleato fedele del primo ministro e, con lui, architetto delle tanto discusse politiche di austerità. Resistendo alle pressioni per sostituire Osborne, Cameron ha confermato la linea del rigore di bilancio, decidendo di insistere sulle misure di tagli alla spesa pubblica e riduzione del debito. Non è però scontato che i LibDem del vice primo ministro Nick Clegg siano d’accordo su questa linea, soprattutto per quanto riguarda la spesa sociale.

Resta, e viene promosso, il controverso Jeremy Hunt, ministro della Cultura uscente accusato dai suoi avversari di tenere rapporti troppo stretti con l’impero di Rupert Murdoch, quando si era trovato nella posizione di supervisionare il tentativo di News Corp. di completare l’acquisizione di BSkyB: si occuperà d’ora in poi di sanità pubblica e in particolare della riforma del sistema sanitario nazionale. Viene rimosso dall’incarico di ministro della Giustizia il moderato Ken Clarke, sostituito da Chris Grayling, conservatore dell’ala destra del partito: da lui molti si aspettano una forte difesa dei tribunali britannici nei confronti delle decisioni della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo e posizioni dure in tema di criminalità e carceri. Molto controversa infine la sostituzione al ministero dei Trasporti di Justine Greening: la decisione fa pensare a un possibile ripensamento da parte del governo sulla questione dell’ampliamento dell’aeroporto di Heathrow, a cui fino ad oggi è stato contrario.

Complessivamente, il giro di vite al governo ha dunque premiato l’ala destra dei conservatori – la più insoddisfatta dei risultati ottenuti dal premier finora – col rischio però di alimentare le tensioni con i LibDem. “Cameron vira a destra”, ha titolato il Financial Times il giorno dopo il rimpasto. Nonostante ciò, è proprio dai delusi del suo partito che Cameron deve guardarsi.

I giornali inglesi hanno recentemente dato notizia di un presunto piano da parte di alcuni deputati Tory per far cadere il primo ministro. Alcuni right-wingers hanno dato vita a un gruppo chiamato “Conservative Voice” con lo scopo di promuovere una svolta thatcheriana nelle politiche del governo – accompagnata da una posizione decisamente severa nei confronti dell’Unione Europea – in prospettiva del voto del 2015. E le critiche da parte dei deputati Tory non sono sottili: Tim Yeo ha esortato pubblicamente il primo ministro a chiedersi se sia “man or mouse“; Nadine Dorries ha detto che al partito serve una “strategia per uccidere Cameron” –   metaforicamente, si intende, ma il commento ha suscitato clamore.

Il sindaco di Londra Boris Johnson, amico-nemico di Cameron dai tempi di Eton e Oxford, è visto da molti come il miglior candidato alla guida del partito, forte del successo delle Olimpiadi. Al contrario di Cameron e Osborne, il sindaco è molto popolare: nella parata nel centro di Londra alla fine dei Giochi la folla ha riservato a lui, e non a Cameron, gli applausi più entusiasti. “I Tories cominciano a temere che Cameron sia un perdente”, ha titolato senza mezzi termini un editoriale apparso sul Sunday Times di Murdoch.

Resta da vedere come il quadro interno influenzerà i rapporti, già tradizionalmente delicati, tra Londra e Bruxelles. La lunga crisi e la prospettiva di maggiore integrazione nel continente preoccupano Londra, e la possibilità di un’uscita dall’Unione, fino a non molto tempo fa irrealistica nonostante la nota avversione britannica verso l’UE, non è più un tabù. L’ala più euroscettica del partito conservatore, che mal sopporta i vincoli europei e teme regolamenti duri che danneggino i servizi finanziari della City, vorrebbe un referendum per decidere se stare dentro o fuori (i sondaggi dimostrano che la maggioranza sarebbe a favore di un’uscita). Di contro, i LibDem hanno una posizione decisamente pro-europea. A sinistra, Ed Miliband, leader del Labour, non ha escluso la possibilità di un referendum, anche se per il momento insiste sulla necessità che l’Europa esca dalla crisi economica e promuova politiche a sostegno della crescita.

Cameron sembra seguire per il momento una linea moderata, ben lontana da quella che lo aveva portato, al vertice europeo di dicembre, a porre il veto al nuovo patto di stabilità, creando una profonda frattura con Germania, Francia e Italia. Oggi il premier inglese, che ha nel frattempo tentato di ricucire i rapporti con i partner continentali, ha posto un freno alla richiesta di referendum in tempi rapidi, sostenendo che una tale consultazione non è al momento nell’interesse del paese. Ha promesso in cambio una revisione dei rapporti con l’Europa, e di tenere sì la consultazione popolare, ma rinviandola a un non specificato futuro.

Il fatto è che l’UE resta il più grande partner commerciale della Gran Bretagna. E il primo ministro lo sa. La via della ripresa economica per Londra passa anche, e non poco, da Bruxelles. E questo è il vero paradosso britannico.