international analysis and commentary

La grande sfida: gestire l’Impero cinese

3,189

Dopo la seconda guerra mondiale, il principio guida dell’economia internazionale è stato quello della convergenza su una serie di fondamentali canoni di mercato. Ciò non significa che esista una formula universalmente valida, né che tutte le questioni di politica economica siano state risolte e composte. A ben vedere, tra le economie avanzate OCSE sono rimaste importanti differenze di vedute sul giusto policy mix. Ma i punti di consenso sono stati ben più numerosi di quelli di dissenso. Nel post guerra fredda, tale convergenza si è estesa a quasi tutte le altre economie del mondo. Il caso più importante è quello della Cina, che ha dato avvio alla mercatizzazione negli anni Ottanta e ne ha raccolto i massimi frutti, visto che nei tre decenni precedenti si era tenuta agli antipodi dei meccanismi di mercato. Negli anni Novanta la transizione cinese ha preso ulteriore slancio, traghettando il paese nell’Organizzazione mondiale del Commercio e verso un nuovo ruolo da protagonista nella globalizzazione del terzo millennio. L’asse usa-Cina di questo processo – intellettuale e pratico – ha fornito le fondamenta organizzative e un modello di riferimento per gran parte del mondo.

Oggi è vero il contrario: la crisi della collaborazione Washington-Pechino minaccia di ledere gli interessi economici di tutte le nazioni. Nel corso del decennio passato, per una serie di complesse ragioni, la Cina ha scelto di ridimensionare le aspettative di convergenza con gli indirizzi programmatici dell’OCSE, potenziando tra l’altro il ruolo della mano pubblica e della politica industriale selettiva nell’ambito della propria economia. E gli Stati Uniti, dal canto loro, sotto la guida di Donald Trump hanno smesso di credere che la strada del libero mercato sia quella giusta e, di conseguenza, di investire nella promozione del liberalismo, sposando invece lo sciovinismo nazionale. Entrambe le tendenze sono all’origine dell’odierno clima di imminente “guerra commerciale”.

 

Con una locuzione memorabile, la National Security Strategy statunitense diffusa lo scorso anno ha raccomandato di essere “strategicamente prevedibili, ma operativamente imprevedibili”. Il punto è che negli ultimi tempi Washington non è stata né l’una né l’altra cosa: la sua strategia è poco chiara, e l’opportunismo di breve termine è diventato la norma. In questo scenario, prevedere i nuovi sviluppi della politica internazionale può a volte sembrare impossibile. Eppure, ci sarebbe ancora molto da dire sulla futura direzione della China policy delle economie avanzate – e varrebbe decisamente la pena di preparare una road map per quando l’attuale tempesta sarà passata. Dopo tutto, la maggior parte delle preoccupazioni rispetto alla Cina sono condivise da Washington, Bruxelles, Roma, Berlino, Parigi e altre, più lontane realtà nelle nazioni avanzate di tutto il mondo.

I governi OCSE devono rilanciare i rapporti con Pechino in modo razionale, ponendo nuovamente all’ordine del giorno il tema della convergenza. Al momento, purtroppo, il dialogo multilaterale sulla Cina è una chimera, complice l’assenza di una leadership americana. In attesa del ritorno del multilateralismo intergovernativo, tuttavia, ci si può preparare al futuro. Ecco otto punti cardine per il nuovo corso delle politiche delle economie avanzate nei confronti della Cina.

 

1 – UN PARZIALE DISIMPEGNO CONTROLLATO È NECESSARIO. Nel dicembre 2017 gli Stati Uniti hanno abbandonato la via dell’engagement quale fondamento della loro China policy, optando per la “competizione strategica”. Ciò significa che la forza della Cina è considerata deleteria per gli interessi americani, e per quelli delle democrazie a loro vicine. Molti paesi avanzati, pur non avendo ancora sposato la linea della competizione strategica, stanno adottando a loro volta un approccio più difensivo, incentrato sulla tutela dei propri interessi anziché sull’impegno fine a se stesso.

Da questa prospettiva, gli elementi di apertura verso la Cina che in passato erano visti di buon occhio oggi vengono valutati diversamente, e si rende necessario un parziale disimpegno. È un’operazione meno traumatica di quanto sembri, e può essere ben gestita se tutte le parti in causa prendono atto di non condividere gli stessi obiettivi economici nazionali. Nelle democrazie avanzate, lo scopo è il benessere e la libertà individuale; in Cina è qualcos’altro. Se ieri Pechino poneva l’accento sulla convergenza con i modelli di politica economica delle economie avanzate, oggi rivendica un approccio alternativo. Naturalmente, ciò modifica le implicazioni dei legami economici, e impone un ripensamento tanto in Cina quanto nelle capitali OCSE. Lo si può fare in modo pacifico e misurato, perché nonostante il venir meno della convergenza i rapporti restano sostanzialmente buoni.

2 – IMPEGNARSI ANCHE SE L’ENGAGEMENT NON È IL PARADIGMA. Nonostante i cambiamenti a livello di approccio strategico, il processo di coinvolgimento può ancora favorire gli interessi delle economie avanzate, ora e in futuro. Su decine di dossier internazionali – dall’ambiente al commercio agli affari monetari, passando per il controllo delle malattie, la criminalità organizzata, la politica della concorrenza e molti altri temi ancora – la fiducia nell’impegno costruttivo con la Cina sulla base di reciproci interessi comuni si è affievolita. Occorre sostenere e promuovere uno sforzo congiunto sulle grandi questioni legate alla transizione cinese, con i paesi europei al cuore di tale sforzo.

3 – LA RECIPROCITÀ È PIÙ IMPORTANTE POLITICAMENTE CHE ECONOMICAMENTE. Sul piano economico, la reciprocità non è necessaria. Spesso i genitori dicono: “Se tuo fratello si buttasse da un ponte, lo seguiresti?”. Tradotto in linguaggio economico, se questo o quel paese rifiuta gli investimenti, non si è tenuti a fare altrettanto. Lo stesso vale per le risorse umane qualificate, le importazioni competitive e altri flussi vantaggiosi di risorse – purché non vi siano minacce occulte alla sicurezza. Politicamente, tuttavia, la palese iniquità riconducibile all’asimmetria dei rapporti economici si è rivelata micidiale, alimentando lo scontento e gli allarmismi di chi agita spauracchi, come i demagoghi di certe democrazie.

 

La Cina si aspetta di diventare nel giro di qualche decennio la più grande economia del mondo, e i rapporti sino-statunitensi e sino-europei possono essere sani e improntati alla fiducia strategica solo se l’una e l’altra parte convergono verso una maggiore reciprocità. Un fallimento su questo fronte darebbe man forte al dissenso e all’isolazionismo nelle economie avanzate.

4 – GLI SCREENING DI SICUREZZA SONO INDISPENSABILI. L’amministrazione Trump si è concentrata sugli equilibri commerciali, sugli scambi di materie prime come il carbone e l’acciaio e sui dazi doganali, ma le questioni al momento più preoccupanti per i policy makers delle economie avanzate sono legate agli investimenti in infrastrutture critiche e alla proprietà intellettuale. In passato sia le imprese, sia gli economisti europei e americani tendevano a osteggiare un più stringente intervento pubblico sugli investimenti.

Per effetto delle politiche industriali cinesi in patria e della più energica proiezione di interessi all’estero, oggi si è allargata la cerchia di coloro che riconoscono la necessità di maggiori controlli per sostenere la fiducia reciproca sul versante degli investimenti. Gli Stati Uniti hanno appena potenziato il loro sistema di review, mentre la Commissione, il parlamento e il Consiglio ue sono in procinto di avviare negoziati trilaterali su un meccanismo di screening degli investimenti su scala europea. E Stati membri come la Germania, la Francia e il Regno Unito stanno rafforzando i controlli nazionali sugli investimenti esteri. Vi sono altri aspetti del capitolo investimenti ancora tutti da discutere (a partire dalla reciprocità di cui sopra), ma si tratta in ogni caso di cambiamenti permanenti.

5 – MULTILATERALE È BELLO (MA DIFFICILE). Tutti concordano sul fatto che gli approcci multilaterali alla Cina sono i più efficaci. Ma il multilateralismo è impresa ardua, e lo diventa ogni giorno di più. L’ordine postbellico a guida americana si è generalmente ispirato a idee liberali; ma nel corso del decennio passato gli ideali occidentali hanno subito un vulnus profondo, e il fascino del soft power dell’Occidente si è in parte ridimensionato. Nonostante le poco felici condizioni in cui versa in questo momento, il multilateralismo tornerà sicuramente alla ribalta, e per il semplice motivo che è la soluzione migliore. Già oggi gli alti funzionari statunitensi si rivolgono ai loro colleghi stranieri in tono apologetico per tenere la fiammella accesa. Se c’è una cosa che abbiamo imparato, tuttavia, è che il multilateralismo di domani dovrà poggiare su valori condivisi, non sulla disponibilità dell’America ad accumulare un sistematico deficit esterno.

6 – LA CINA È FRAGILE DI FRONTE ALLO STATO DI DIRITTO O IN ASSENZA DI STIMOLI TECNOLOGICI. L’amministrazione Trump è stata uno stress test per tutti, compreso il settore corporate cinese. La gestione del caso ZTE (telecomunicazioni) da parte di Washington – con la minaccia di sanzioni draconiane in un’estrema (seppur legittima) prova di forza giuridica – è stata maldestra. Ma ha rivelato che sotto una superficie coriacea le aziende cinesi in fase di internazionalizzazione spesso nascondono piedi d’argilla.

L’incapacità di tali aziende di osservare (e in qualche caso persino di comprendere) lo Stato di diritto nelle economie avanzate è una grave debolezza. Molte imprese cinesi rischiano contenziosi legati ai diritti di proprietà intellettuale nel momento in cui investono in mercati avanzati. Forse però l’aspetto più sconvolgente emerso dalla vicenda ZTE riguarda la misura in cui i colossi tecnologici cinesi possono dipendere dagli input hi-tech delle economie avanzate. Tutto ciò modifica la logica delle relazioni future: i leader europei in particolare devono essere più consapevoli dei loro vantaggi tecnologici, senza atteggiamenti disfattisti verso una Cina considerata una fucina di innovazione.

7 – LE COSE CAMBIANO, PERSINO IN CINA (LA SOVRACAPACITÀ NE È UN ESEMPIO). In un suo recente discorso, l’ambasciatore cinese Cui Tiankai ha affermato che sarebbe una pia illusione credere che la Cina possa cambiare, politicamente o culturalmente. L’idea di una Cina sempre uguale a se stessa aleggia anche sui negoziati economici con Pechino. Ma è tendenziosa e fuorviante: la Cina è in continua evoluzione. Esiste forse una nazione che abbia visto più cambiamenti nel corso degli ultimi quarant’anni? Ci sono elementi di continuità, certo, ma nulla o quasi è immutabile in Cina. Prendiamo lo spinoso problema della sovracapacità industriale e delle esportazioni. Dal 2011 alla metà del 2016 le esportazioni nette delle eccedenze produttive di acciaio cinese sono aumentate del 521%, spingendo molti analisti e governi di nazioni avanzate a prepararsi a una lunga battaglia contro l’export del Dragone.

 

Nei due anni successivi, tuttavia, i volumi delle esportazioni nette sono calati di due terzi. E questo per effetto delle politiche di Pechino in risposta alle pressioni interne: segno che il cambiamento in Cina è effettivamente possibile.

8 – LA CINA AUMENTA IL RISCHIO SISTEMICO. Finora le preoccupazioni si sono concentrate per lo più sui punti di forza della Cina; la politica di domani, tuttavia, dovrà focalizzarsi anche sui rischi economici posti dal Dragone. Mentre le economie avanzate erano in allarme per il rischio economico sistemico conseguente alla crisi finanziaria globale, e le posizioni consolidate vacillavano, la Cina è a quanto pare diventata sempre più forte.

Ma le performance del paese nel decennio 2008-2018 sono state ottenute al prezzo di un rinvio delle riforme e di un debito senza precedenti. Ciò significa che il futuro si annuncia impegnativo. Dal problema dell’adattamento a una Cina in ascesa si passerà a quello della gestione delle ricadute della sua correzione di rotta.

Probabilmente la Cina farà partire onde d’urto destinate a ripercuotersi sugli assetti commerciali, sulle quotazioni degli asset, sui flussi finanziari, sui mercati del lavoro e sui sistemi politici delle decine di nazioni in via di sviluppo che contano sulla sua generosità. Le nazioni avanzate dovranno monitorare i rischi con più attenzione, e programmare azioni per mitigarne gli impatti. Forse dovranno addirittura aiutare la Cina a superare le difficoltà – e oggi non è certo questo il primo istinto dei falchi della sicurezza.

 

UN’OPPORTUNITÀ DA SFRUTTARE. Negli ultimi anni il mondo delle economie avanzate ha imparato molto in materia di politiche efficaci nei confronti della Cina, a partire dal potenziale di coordinamento tra nazioni affini. Abbiamo imparato anche a perseguire interessi legittimi senza minacciare un contenimento della Cina, sebbene non tutti i paesi stiano mettendo a frutto questa consapevolezza.

Visti e considerati gli istinti unilaterali del presidente Trump, è improbabile che durante il suo mandato si riesca a definire una risposta multilaterale duratura alla Cina. Ma i leader governativi, aziendali, intellettuali e di altri settori possono sfruttare il momento presente non solo per discutere degli obiettivi politici perseguibili oggi, onde far fronte alle incertezze determinate dagli Stati Uniti, ma anche per predisporre la futura linea d’azione nei confronti della Cina.

Il momento di mettere in atto i propositi per il domani potrebbe arrivare prima di quanto pensiamo, e il subbuglio che ultimamente ha fatto perdere il sonno a molti può essere fonte di preziose idee e opportunità.