Gli shock elettorali di Macron
A urne ancora aperte per lo spoglio, la storia ci ha bruscamente ripresentato sotto gli occhi una delle sue inevitabili lezioni: il destino politico d’Europa e quello della Francia sono intrecciati e indissolubili. Dall’alba, quando il voto dell’Assemblea Nazionale francese, nel 1954, affondò la Comunità Europea di Difesa che avrebbe costituito la base dell’autonomia strategica del vecchio continente. Al tramonto, quando il popolo francese con il suo No nel referendum del 2005 mandò in soffitta il progetto di Costituzione europea, che avrebbe dato all’integrazione economica quella struttura politica e democratica che ancora le manca.
E così il clamoroso risultato francese delle none elezioni europee, con il Rassemblement National di Marine Le Pen e Jordan Bardella ben oltre il 30% dei voti, capace di doppiare la lista macroniana, ferma a un misero 15%, per di più tallonata dal revenant Partito socialista, non poteva non avere conseguenze esplosive. Di fronte alla sconfitta, Emmanuel Macron, che nei suoi sette anni alla presidenza della Repubblica francese dell’Europa si è auto-definito custode, animatore, salvatore, riformatore, ha decretato lo scioglimento dell’Assemblea Nazionale e indetto le elezioni anticipate, con il doppio turno fissato al 30 giugno e al 7 luglio.
Una decisione che avrà effetti a cascata, in varie direzioni. Ed è difficile stimare quali. Cominciamo dall’Europa. Le scintille francesi hanno oscurato in parte un altro dei risultati importanti di questa elezione: la crescita dell’estrema destra in Germania. Doppiato in voti dalla CDU di Manfred Weber e Ursula von der Leyen, e appunto superato pure da Alternative für Deutschland – per di più in uno scenario di alta partecipazione elettorale – il Cancelliere Olaf Scholz esce strapazzato dalla sessione elettorale.
Sia la Francia che la Germania si presentano dunque all’appuntamento per la scelta del presidente della Commissione con la destra radicale che nelle urne ha battuto i rispettivi governi. Sarà il Consiglio – dunque i capi di Stato e di governo dei 27 Paesi membri dell’UE – a proporre al nuovo Parlamento Europeo un nome da accettare o da respingere. Potranno Macron e Scholz fare la scelta della continuità, cioè un secondo mandato per Ursula von der Leyen, dopo una simile doppia sconfessione da parte dei propri elettori? Non sembra scontato. Anche perché, tra i governi degli altri grandi Paesi, né Meloni dall’Italia né Sanchez dalla Spagna appartengono al Partito Popolare Europeo, quello della presidente uscente. E il nome va approvato all’unanimità dai 27.
Il risultato elettorale francese potrebbe così modificare gli equilibri a Bruxelles – dove le elezioni certificano la possibilità di svariate alleanze a geometria variabile o minoranze di blocco. Come in un quadro di Picasso, la faccia della politica europea cambia forma a seconda del punto di vista, senza che ci sia una visione egemone. C’è il gruppo di Paesi in cui hanno vinto partiti legati al Partito Popolare (12 su 27), quello dei Paesi legati all’ortodossia economica frugale, oppure il nucleo delle forze conservatrici moderati o radicali che siano, o la coalizione classica dei partiti tradizionali, o un fronte tecnocratico-riformatore legato a qualche figura di prestigio…
Nel frattempo, però, anzi subito, la Francia potrebbe avere un nuovo governo. Le elezioni anticipate indette da Macron infatti riguardano l’Assemblea Nazionale, cioè il parlamento, non la presidenza della Repubblica. Nel sistema politico francese della V Repubblica, il parlamento ha perso buona parte della sua centralità, ancor di più da quando è stato “addomesticato” al risultato elettorale presidenziale – mentre prima i due mandati avevano durate e calendari differenti. Oggi in Francia si vota per il Presidente, e dopo per il Parlamento, con questa seconda tornata che assume il contorno della passeggiata trionfale dell’eletto nella prima. Un sistema che funziona bene quando le forze politiche sono due, e polarizzate – diciamo tipo destra/sinistra – o al massimo sono accompagnate e alleate a qualche cespuglio minore. Una vince e prende tutto, l’altra va all’opposizione.
Ma il quadro politico francese ormai non è più classificabile in questa estrema semplificazione, voluta da Charles de Gaulle e radicalizzata da Jacques Chirac. Che ha tra le conseguenze quella di rappresentare poco o per nulla chi non vince le elezioni. Già alle presidenziali del 2022 il panorama era frammentato tra centrismo macronista, centro-sinistra moderato, sinistra radicale, verdi, destra tradizionale e destra radicale. Il ballottaggio presidenziale Macron/Le Pen ridusse come sempre a unità la complessità del paesaggio, ma alle elezioni parlamentari il meccanismo semplificatore saltò: pluralismo del Paese riemerse con forza, tanto che le liste di Macron non ottennero nemmeno la maggioranza assoluta. Una vera e propria rivincita del parlamento, che avrà il suo secondo e più intenso momento tra pochi giorni.
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La politica di Macron soffre dunque da molto tempo di una certa mancanza di consenso, coperta però dai meccanismi semplificativi del sistema elettorale e da quelli ultra-semplificativi dell’informazione: per gli stranieri, Macron è la Francia. Ma per i francesi no: il risultato delle elezioni europee non ha stupito nessuno in Francia, dove la popolarità del presidente della Repubblica è in caduta libera da molto tempo. Tuttavia Macron non si è assunto la responsabilità della sconfitta: ha indicato più vagamente “una febbre, un disordine” che avrebbero degradato il dibattito pubblico.
Macron lavorava sull’ipotesi del voto anticipato da settimane, ma senza averlo comunicato nemmeno ai suoi alleati più stretti: l’ex-capo del governo Edouard Philippe, François Bayrou, o l’attuale presidente del Consiglio Gabriel Attal. Perché lo ha indette? Ad esempio, l’altrettanto sconfitto Scholz non l’ha fatto.
“Ho deciso di ridarvi la scelta del nostro avvenire parlamentare con il voto”, ha concesso Macron nel suo videomessaggio, “è un atto di fiducia in voi, cari compatrioti”. “Ho capito il vostro messaggio”, ha aggiunto, riecheggiando il “je vous ai compris” con cui Charles De Gaulle nel 1958 salutò i generali che avevano tentato il colpo di stato per evitare l’indipendenza dell’Algeria, prima di riportarli però dentro l’ordine repubblicano. Macron spera dunque che gli elettori, una volta espresso il loro dissenso alle europee, molleranno stavolta il Rassemblement National “rientrando nei ranghi”? Ma il RN ha già dimostrato di saper coagulare consensi sui suoi candidati (al momento ha 89 seggi); a maggior ragione ora che alla sua destra è nato un nuovo partito, Reconquête, che può fargli da stampella. Per qualcun altro Macron spera invece che il partito di Le Pen vinca, ma senza maggioranza assoluta: Jordan Bardella guiderebbe allora un governo traballante – che lui dalla Presidenza della Repubblica potrebbe ostacolare a piacimento, così crede – in modo che il consenso per la destra tornasse a sgonfiarsi prima delle prossime presidenziali, nel 2027.
“Non è la strategia che mi preoccupa, è lo stratega”, dice una battuta diventata popolare della commedia francese “La cena dei cretini”. L’ipotesi di un’estrema destra come parentesi, usata come materiale da laboratorio da una qualche classe dirigente che la controllerebbe sotto vetro solo per mostrare alla società l’impraticabilità delle sue politiche, e quindi “vaccinarla”, è provata illusoria dall’esperienza. Quando l’estrema destra va al potere, la prima cosa che fa è operare per conservarlo, svuotando per quanto possibile le strutture democratiche di controllo e garanzia. Non bisogna tornare chissà quanto indietro nel tempo per averne una prova: basta guardare alla traiettoria dispotica completa di Viktor Orban in Ungheria, e a quella parziale dei suoi omologhi in Polonia.
Ci sono altri due dati di cui tenere conto: la fretta con cui Macron ha indetto il voto anticipato (mancano venti giorni), oltre ad aver colto di sorpresa i suoi, spinge la sinistra (verdi, radicali, socialisti) a un’alleanza confusa e affrettata. A fare in tre giorni quello che ha penato a fare in trent’anni: le candidature ufficiali vanno presentate il 14 giugno. Inoltre, si dice, la scossa delle elezioni anticipate potrebbe mobilitare gli astensionisti: alle europee ha votato solo il 51%. Peccato che le ricerche demoscopiche dicano che il partito preferito di chi non vota è… il Rassemblement National.
Insomma, il radicamento del voto all’estrema destra non è una sbandata momentanea, da far rientrare in carreggiata con un colpo di volante, ma è il risultato di un’evoluzione politica lunga decenni.
La sua crescita è dovuta anche alla scarsa rappresentatività del sistema politico-elettorale: mentre il centro dell’arena politica si cullava su un consenso in gran parte illusorio, tanto da spingersi a politiche controverse e impopolari che suscitavano movimenti di protesta di ampiezza e durata inedita da decenni, come i gilet gialli o la contestazione alla riforma delle pensioni – che Macron volle infine far passare per decreto – alle estremità si formavano, non viste, coalizioni sociali sempre più sostanziose, rabbiose e determinate. Oggi in grado di espandersi quasi in ogni angolo della società: alle europee, il Rassemblement National è stato votato dal 54% degli operai, dal 40% degli impiegati, dal 39% di chi ha tra i 50 e i 60 anni, dal 29% dei pensionati, dal 26% dei giovani tra i 18 e i 24 anni, persino dal 20% dei quadri.
Numeri piuttosto “orizzontali”, ormai chiaramente usciti dai confini dell’estrema destra, dalla xenofobia e dal razzismo che erano tipici del vecchio Front National: a parte alcune grandi città, il Rassemblement National è arrivato in testa ovunque. Il vero collante dei suoi elettori è la sensazione diffusa di declino e di peggioramento delle opportunità sociali ed economiche nel tempo, e la domanda di uno stato che sappia proteggere e garantire la cittadinanza, di fronte a tendenze economiche internazionali quasi mai percepite come benigne, con cui Macron e la UE sono identificati. Come contrappeso, dall’altra parte dello schieramento, le forze di sinistra totalizzano il 30% dei voti: un patrimonio elettorale anch’esso ricostituito negli ultimi anni, e che costituirà il vero blocco rivale della destra alle elezioni anticipate.
Da qui discende tutta una serie di interrogativi, sulla forma che potrebbe prendere l’intreccio franco-europeo. Macron fu tra coloro che nel 2019 rifiutarono di sancire l’elezione del tedesco Manfred Weber alla testa della Commissione: Weber era il capolista del partito più votato in Europa, il Partito popolare europeo, in teoria il posto era suo. Da quel Consiglio emerse invece il nome di Ursula von der Leyen. Possiamo immaginare che a Macron non dispiaccia pensarsi kingmaker – o “queenmaker”, in quel caso. E ritrovi un certo piacere nelle giocate a effetto, nelle mosse da palcoscenico. Anche se queste riguardano la Francia, o l’Europa: come per esempio l’annuncio estemporaneo, solitario, roboante e ripetuto dell’invio di truppe in Ucraina. Vedendo il risultato elettorale che ne è seguito, Vladimir Putin si sarà fregato le mani dalla felicità.
Siamo dunque in attesa di sapere se saranno di nuovo gli avversari di Macron a fregarsi le mani grazie alle mosse del Presidente della Repubblica francese. Ce lo diranno il risultato del voto anticipato, le decisioni del Consiglio Europeo (c’è già una “cena di lavoro” dei 27 fissata a breve), e il pronunciamento successivo del Parlamento Europeo: un’estenuante olimpiade della politica (ma: “essere francesi è scrivere la storia, non subirla”, ha dettato non proprio modestamente Macron), di cui, come per quelle sportive, Parigi sarà tra i teatri principali. Per la cronaca, il Rassemblement National sbarcherà a Bruxelles con 30 seggi: sarà il partito europeo con la maggiore rappresentanza. A seguire, Fratelli d’Italia con 24, la CDU tedesca con 23, il Partito popolare spagnolo con 22 e il PD con 21. La lotta per l’oro sarà serrata.