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Gli accordi mancati sul clima e il contesto economico globale

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La conferenza dell’ONU sulle questioni climatiche di Madrid, o COP25 – che si è chiusa senza risultati il 15 dicembre – ha registrato un problema strategico di fondo con cui si dovranno fare i conti. La mancanza di un accordo politico multilaterale (per aggiornare e precisare gli impegni presi nel 2015) rischia nei prossimi anni di bloccare molte iniziative per il contrasto ai cambiamenti climatici antropici – nella misura in cui, cioè, i mutamenti in corso sono effettivamente attribuibili alle attività umane.

Il motivo dello stallo attuale consiste in alcuni “disallineamenti” e alcune profonde asimmetrie. Anzitutto, c’è una macroscopica asimmetria tra i Paesi tecnologicamente più avanzati – che sembrano disposti a impegnare notevoli quantità di risorse nella trasformazione del proprio modello economico-produttivo – e le grandi economie emergenti – che non intendono in pratica frenare il proprio ritmo di crescita prima di aver eguagliato (o quasi) il reddito pro capite dei Paesi più ricchi.

Si deve qui notare che porsi in posizione “virtuosa” in termini di scelte per il futuro non è certo sufficiente a cancellare i molti decenni passati nei quali i maggiori inquinatori sono stati, di gran lunga, proprio i Paesi occidentali. In sostanza, la quota prevalente di agenti inquinanti e CO2 oggi presenti nell’atmosfera non è affatto stata prodotta da Cina o India o dalle potenze asiatiche di media taglia, che peraltro attualmente ospitano sul loro territorio le porzioni più inquinanti delle filiere produttive di cui noi beneficiamo attraverso le importazioni. Dunque, la tesi di una qualche forma di compensazione a vantaggio degli emergenti ha un certo fondamento storico, pur essendo un ostacolo enorme a ogni possibile accordo per i prossimi anni.

A questa difficoltà di tipo internazionale si aggiunge però un altro divario, potenzialmente altrettanto grave, tra gli obiettivi fissati dai governi e la reale volontà dei cittadini di accettare i relativi costi – volontà che è ancora da valutare: un punto davvero delicato soprattutto se le politiche ambientali sono principalmente perseguite mediante una maggiore imposizione fiscale. E’ vero che il prelievo fiscale dovrebbe, in teoria, servire a finanziare investimenti e incentivi, rimettendo dunque in circolo il denaro dei contribuenti proprio a beneficio dell’ambiente (e dunque della qualità della vita); ma può sorgere nei cittadini il sospetto che questo meccanismo di “travaso” non sarà sempre così diretto e affidabile.

Questa sorta di cortocircuito si è vista all’opera, ad esempio, con le proteste dei “gilet gialli” francesi contro una “tassa ambientale” sui carburanti. E’ assai probabile che situazioni analoghe si possano ripetere anche in altri Paesi europei, a fronte del grande impegno profuso dalla neo-eletta Commissione Von der Leyen per impostare fin da subito una robusta e ambiziosa politica “verde”. E qui arriviamo a un terzo problema politico, specifico del contesto europeo.

Non appena emergono tentativi di alcuni membri della UE di sfilarsi dagli impegni comuni prefigurati – come sta in effetti accadendo – il dibattito a Bruxelles spinge i governi nazionali a diventare più prudenti, e forse le opinioni pubbliche a diventare più esigenti rispetto alla condivisione degli oneri. In altre parole, nel quadro europeo si riproporrà quasi certamente il classico “dilemma dell’azione collettiva” che ha spesso rallentato o perfino impedito l’adozione di politiche comuni di grande impatto sistemico – si pensi alla politica estera e di difesa, o alla gestione comune dei flussi migratori e dei confini esterni.

Nel complesso, la situazione emersa con drammatica chiarezza alla COP25 ha dei tratti paradossali: si potrebbe dire che esiste ormai un largo consenso, in apparenza sospinto proprio da vasti strati dell’opinione pubblica europea (e perfino americana, nonostante le posizioni dell’amministrazione Trump), sull’urgenza di rendere il modello economico sostenibile in termini ambientali, che i governi, le istituzioni di Bruxelles, e perfino diverse grandi aziende, stanno gradualmente recependo. Il problema è ora come rendere una profonda transizione “verde” politicamente sostenibile, quando arriva il conto da pagare. Un difetto ricorrente nelle scelte politiche delle democrazie liberali, infatti, non è tanto l’incapacità di prendere misure d’urgenza, quanto piuttosto l’incapacità di mantenere nel tempo, con coerenza, la direzione di marcia necessaria a raggiungere un dato obiettivo.

Si dovrà quindi monitorare con attenzione lo scarto tra opinioni superficiali (come quelle espresse nei sondaggi) e volontà reale (quella espressa nei comportamenti), verificando l’effettiva disponibilità degli elettori a sostenere i costi della transizione energetica, economico-produttiva, e degli stili di vita che viene prefigurata dai maggiori programmi per la riduzione delle emissioni nocive o ad effetto serra. Ad oggi, in effetti, la spinta propulsiva dell’attivismo civico – con notevole presenza di giovani e molto giovani – si è manifestata soprattutto in chiave di protesta e di eventi collettivi, il che non sorprende visto lo scarso livello medio di fiducia nei governi.

Si tratta però ora di costruire alleanze solide che coinvolgano autorità nazionali, organizzazioni multilaterali, reti transnazionali, e mondo del business. Il tutto con l’appoggio costante della ricerca scientifica, che tuttavia non funziona in base a certezze quasi-religiose codificate una volta e per sempre, bensì in base a un continuo affinamento delle teorie disponibili grazie a nuovi dati e nuove congetture. Ascoltare i climatologi è perciò decisivo, ricordando però che il metodo scientifico richiede una buona dose di scetticismo, pragmatismo e flessibilità – non esattamente i tratti tipici dei grandi movimenti di opinione se questi si tramutano in ideologie.

Tutto ciò premesso, i migliori modelli previsionali disponibili sono piuttosto concordi sui gravissimi pericoli del “climate change” antropico, e i dati confermano che siamo in una fase di cambiamenti accelerati – in molti casi oltre le traiettorie pronosticate. Quale che sia il livello di precisione e affidabilità delle previsioni, diversi interventi collettivi in linea con le indicazioni delle precedenti conferenze ONU sul clima sono una questione di prudenza e di buon senso, se non altro perché l’ecosistema presenta dinamiche non lineari e “tipping points”. Vedremo se il sistema multilatelare sarà all’altezza di una vera sfida planetaria.

Un passaggio necessario, in tal senso, è un bagno di onestà intellettuale: la transizione sostenibile globale richiederà massicce dosi di nuove tecnologie, piuttosto che piccole rinunce individuali di tipo “espiatorio”; richiederà soluzioni creative sul piano politico internazionale per non rendere totalmente vani gli sforzi di pochi Paesi virtuosi; e, soprattutto da parte europea, richiederà maggiore chiarezza sul rapporto tra obiettivi di tutela ambientale e protezioni commerciali (visto che la forte tentazione sarà di sfruttare i primi per perseguire le seconde, in una fase di crescenti tensioni competitive tra giganti del commercio).

In vista della prossima COP, nel 2020, è così che gli europei possono fare la loro parte e forse ambire a una vera leadership nelle politiche ambientali.