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Fare i conti col terrore

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 La data dell’11 settembre ha assunto un’ulteriore valenza simbolica in questo 2021, facendo coincidere il ventennale dell’attacco terroristico all’America con il ritiro dall’Afghanistan. Il Presidente Biden ha inteso così chiudere idealmente un cerchio tragico e focalizzare l’attenzione su altre sfide, a cominciare da quella globale cinese. Questa scelta offre comunque l’occasione per valutare, con distacco cronologico, l’onda lunga del “9-11”.

Anzitutto, la “guerra al terrore”: questa aveva come obiettivo principale la prevenzione di altri grandi attentati contro gli Stati Uniti, e in tale senso specifico è stata un successo. Certo, ha causato indirettamente una lunga serie di errori di valutazione (in testa l’invasione dell’Iraq) che hanno finito per danneggiare gli interessi e i valori dell’Occidente nel suo insieme, oltre a quelli americani. Ma non si può evitare una conclusione principale, che cioè la visione del mondo propugnata da al-Qaida e dalle sue ramificazioni è rimasta assolutamente marginale, vivendo quasi sempre in una sorta di clandestinità itinerante.

L’obiettivo del gruppo attorno a Osama bin Laden era quasi certamente duplice: umiliare la superpotenza dimostrandone la vulnerabilità, a trascinarla in una escalation militare che l’avrebbe esposta a ulteriori accuse di imperialismo. In questi termini l’operazione dell’11 settembre fu efficace, ma va detto anche che la prospettiva politica jihadista o del “califfato” non sembra oggi in ascesa nel mondo: i potenziali terreni di conquista sono rimasti assai ristretti, nonostante i tentativi fatti in Iraq e in Siria, mentre l’attuale gruppo dirigente che si è installato nuovamente a Kabul sa benissimo cosa accadrà se i suoi rapporti con cellule terroristiche attive diventeranno troppo stretti.

Se cambiamo registro, e guardiamo ai dati economici, l’effetto negativo dell’11 settembre appare davvero come un piccolo flash nella traiettoria della più grande economia planetaria. Sono stati semmai altri mega-trend globali a ridurre gradualmente il peso relativo degli USA. Ma allora è utile ricordare che vent’anni fa molti temettero anche per la tenuta dell’America come sistema politico e sociale. Era una previsione sbagliata, ed erano timori decisamente esagerati.

Vignetta di Guido Kühn

 

E’ vero che quell’attentato, così spettacolare e praticamente in mondovisione, ha contribuito a svelare il volto oscuro della globalizzazione, cioè i vari possibili “shock da interdipendenza” che sono un prezzo delle connessioni globali. Anche da questo angolo visuale, comunque, il “9-11” è stato un episodio, per quanto drammatico, in una serie ampia di fenomeni – e non l’episodio più rilevante, se pensiamo ai danni prodotti dalla crisi finanziaria del 2008 o dalla pandemia del 2020.

Un’altra considerazione che derivò dagli attacchi di vent’anni fa era che le “guerre asimmetriche” sarebbero state da quel momento le uniche possibili o comunque quelle decisive; eppure, stiamo oggi assistendo a un vero riarmo cinese e americano, in un contesto di competizione piuttosto “classica” tra le due maggiori potenze.

La sfida del XXI secolo non è insomma la fine delle guerre tradizionali o la prevalenza di un solo tipo di conflitto: il problema da gestire è proprio l’ibridazione di rischi e minacce diversi, che si muovono simultaneamente a livelli diversi (alta e bassa tecnologia, avversari statuali e non-statuali, modalità cinetica o cyber). L’America non sta affatto cedendo il passo alla Repubblica Popolare di Xi Jinping, e sta anzi investendo cospicue risorse nella competizione tecnologica con Pechino sfruttando i propri fattori di potenza rispetto a un regime autoritario e repressivo per contrastare tutto lo spettro di possibili minacce. Il modo di impiegare la forza militare riflette le caratteristiche della società: in questo senso il quadro globale è davvero molto “asimmetrico”, e non nel senso auspicato dai guerriglieri/dirottatori armati di esplosivo e kalashnikov.

Quanto all’Afghanistan, certamente il lungo intervento a guida americana ha accumulato molti errori di impostazione ed esecuzione, in una complessiva confusione tra obiettivi (non sempre condivisi da tutti i membri della coalizione internazionale) e strumenti (spesso inadeguati, a volte male utilizzati anche quando il dispendio economico e i rischi sono stati ingenti). Eppure, non tutto è stato inutile: sarebbe ingeneroso dirlo, e sarebbe anche storicamente scorretto, visto che proprio in queste settimane le donne afgane stanno protestando contro il regime talebano.

La violenta reazione a cui è esposto chiunque contesti il nascituro governo afgano ci ricorda ovviamente dei pericoli che corre la popolazione civile, ma il fatto stesso che vi siano proteste – ispirate senza ombra di dubbio a valori e aspirazioni che riconosciamo come anche “nostri” – significa che nulla è immutabile. In altre parole, alcuni semi sono stati gettati e forse hanno attecchito nella cultura locale – che non dovremmo vedere come un dato permanente scritto nella dura pietra dell’Indu Kush. Del resto, è proprio la dinamica del cambiamento sociale che spaventa più di ogni altra cosa i movimenti oscurantisti come quello dei talebani o dei loro avversari di “ISIS-K” (una delle ramificazioni del jihadismo); sono dunque avversari ma condividono l’incapacità di affrontare in modo non violento l’evoluzione degli stili di vita.

Un aspetto troppo spesso sottovalutato della parabola che inizia nel settembre 2001 è relativo all’uccisione di Osama bin Laden nel maggio 2011: come ben noto, il blitz delle forze speciali inviate da Barack Obama avviene in territorio pakistano (non afgano). Ciò dovrebbe ricordarci che alcuni governi (e non solo quello di Islamabad) hanno spesso un ruolo molto ambiguo, come “partner problematici” e al contempo fiancheggiatori o sponsor dei nostri nemici giurati. La politica internazionale richiede sfumature di grigio, ma a volte è opportuno fissare linee rosse.

Spostando lo sguardo dall’Asia centrale a New York City, al posto delle Torri Gemelle c’è oggi un monumento ai caduti che sprofonda verso il basso invece di stagliarsi verso l’alto.

Il Memoriale di Ground Zero

 

Quel vuoto è rimasto e non si può colmare, ma la città ha conservato il suo dinamismo, nel bene e nel male. Il trauma, soprattutto per chi viveva allora a Manhattan o a Washington, DC, è probabilmente una cicatrice indelebile. Intanto, il quartiere colpito l’11 settembre è stato in buona parte ricostruito. Gli Stati Uniti sono ancora una superpotenza, e a vivere nel terrore sono soprattutto coloro che hanno la sfortuna di essere a contatto diretto con i dittatori – al potere o aspiranti tali.