L’Europa geopolitica alla prova della presidenza Biden – conversazione con Paolo Gentiloni
Conversazione con Paolo Gentiloni, Commissario UE all'Economia
ASPENIA. La questione che si apre per l’Europa, dopo le elezioni americane, è se il vecchio continente saprà essere un interlocutore credibile di un’amministrazione che sente istintivamente come più affine. In fondo, il fatto che Donald Trump non amasse affatto l’Unione Europea e vedesse l’Europa come un rivale, piuttosto che un alleato, rendeva le scelte più semplici. Con Joe Biden, che certamente farà un gesto iniziale di grande apertura all’ue, si dovrà rispondere in modo concreto e convincente. Dopo la prova di forza di Trump, Biden sarà insomma per l’Europa una prova di maturità. Saremo in grado di superarla?
GENTILONI. Cominciamo dalle affinità. La nuova amministrazione americana, quando finalmente entrerà in funzione il 20 gennaio 2021, sarà per gli europei una novità positiva. È un vantaggio anche per noi. Saremo meno soli nel mondo: Biden segna anzitutto un riavvicinamento culturale fra le due sponde dell’Atlantico. E segna una convergenza possibile su alcuni temi cruciali. Con Donald Trump, era evidente la distanza di approccio alla pandemia o al cambiamento climatico; con l’amministrazione democratica, Stati Uniti ed Europa avranno posizioni più simili. E l’Europa, parlando di prova di maturità, è in grado di dimostrarsi credibile.
La risposta a Covid ha intanto cambiato radicalmente la politica europea: per la prima volta nella storia dell’UE, si è deciso di emettere debito comune per obiettivi comuni; e per la prima volta, come del resto previsto in casi straordinari dai trattati, la Comunità in quanto tale esercita un ruolo di fronte a una emergenza sanitaria. Si vedrà in che modo l’amministrazione Biden, che considera la sfida sanitaria come la prima grande prova da affrontare, collaborerà con l’Europa e l’Organizzazione mondiale della Sanità; ma la distanza dall’approccio di Trump non potrebbe essere più netta.
Sarà anche decisivo un maggiore coordinamento sulla ripresa dell’economia mondiale. Il Next Generation EU è in effetti un grande piano di stimolo europeo: l’obiettivo è di aumentare drasticamente gli investimenti pubblici nei settori – digitale, tecnologie verdi, infrastrutture – che guideranno la crescita futura. Gli Stati Uniti hanno bisogno di approvare un nuovo pacchetto di stimolo; vedremo presto se il rapporto fra amministrazione e Senato permetterà di farlo. In ogni caso: l’Europa è ormai nelle condizioni di essere più forte e competitiva sul piano economico, anche se il rimbalzo americano è per ora più solido di quello europeo.
Conta la traiettoria: sia per l’Europa che per l’America, controllare l’emergenza sanitaria è una delle condizioni della ripresa economica; sia per noi che per gli Stati Uniti, la crescita futura è collegata allo sviluppo tecnologico, agli investimenti in infrastrutture, alla trasformazione digitale a ambientale. Sì, saremo un interlocutore primario. In campo ambientale, fra l’altro, non abbiamo certo lezioni da apprendere. Abbiamo già aumentato al 55% l’obiettivo di riduzione delle emissioni entro il 2030. La climate law europea definirà nel dettaglio obiettivi, limiti, parametri. Stiamo svolgendo un’azione di avanguardia in questo campo. E ciò ha già avuto un effetto internazionale, spingendo perfino la Cina, al di là di tutte le sue contraddizioni, a definire propri obiettivi temporali per la “neutralità climatica”.
Uno dei primi atti della presidenza Biden sarà di tornare nell’Accordo di Parigi sul clima: con un executive order a effetto immediato, e dopo gli adempimenti delle Nazioni Unite, la Casa Bianca potrà invertire in un mese quattro anni di decisioni dell’amministrazione Trump essenzialmente contrarie alle politiche ambientali. Poi certo: l’attuazione della nuova legislazione ambientale, negli Stati Uniti, dipenderà dal grado di cooperazione con il Congresso, il terreno più delicato per Biden in politica interna.
Resta da capire, parlando della svolta della politica economica europea, se si tratterà di una parentesi collegata all’emergenza sanitaria o di una svolta strutturale. Penso per esempio alle regole fiscali in uno scenario come quello che si profila nel dopo-Covid: una quantità enorme di debito pubblico. E quando, fra l’altro, avremo elezioni-chiave in una serie di paesi membri, a cominciare appunto dalla Germania.
Io credo in modo convinto che si tratti di una visione di lungo termine, in particolare perché abbiamo concordato priorità condivise per la trasformazione dell’economia europea, come la sostenibilità ambientale e l’innovazione digitale. Certo, la raccolta di titoli di debito europei per quasi mille miliardi – combinando tutti gli strumenti – è il frutto di una decisione che è stata definita straordinaria. Ma passaggi straordinari che portano risultati positivi diventano un precedente e possono trasformarsi in una base stabile. Le regole di bilancio erano peraltro in fase di revisione già prima della pandemia, e quindi il quadro regolatorio delle politiche economiche continuerà a evolvere.
È un tema divisivo e controverso, senza dubbio; ma su alcuni punti esiste ormai una consapevolezza comune. Su due punti, in particolare: va evitato il rischio che le crisi, in questo caso lo choc contemporaneo dell’offerta e della domanda, portino di fatto ad azzerare gli investimenti pubblici netti (ciò impedirebbe di gestire le transizioni ambientale e digitale); va ragionevolmente preso atto che i trattati sono un termine di riferimento indispensabile, che deve però rapportarsi sempre con la realtà, inclusa la dinamica del debito pubblico e naturalmente le esigenze delle nostre economie.
Una revisione delle politiche fiscali sarà necessaria. Il debito pubblico aumenterà in media, nei paesi europei, a oltre il 100% del pil nel 2021. Non sarà affatto facile costruire un consenso su una revisione dei criteri del Patto di Stabilità e di Crescita; ma sarà necessario. La crisi in corso ci ricorda quanto sostenuto da tempo da Mario Draghi e da Christine Lagarde: servono strumenti di politica economica comune a fianco di quella monetaria. Quando vengono attivati anche strumenti di politica economica, insieme alla politica monetaria, obiettivi comuni si raggiungono, come stiamo vedendo in questi mesi.
Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea, ha sostenuto che l’UE deve diventare un attore geopolitico. E l’Europa persegue l’obiettivo di un’autonomia strategica. L’America è sempre un po’ diffidente di fronte a formule del genere: teme che gli europei, spinti in particolare dalla Francia, puntino a diventare una sorta di “terza forza” nella politica globale, collocandosi in modo ambiguo rispetto alla competizione del secolo, fra Stati Uniti e Cina. Sono timori giustificati? E non si finirà per indebolire la NATO?
L’Europa prende semplicemente atto della realtà. Anche con Biden non si tornerà a un passato in cui gli Stati Uniti erano i soli garanti della difesa collettiva. Gli equilibri del secolo scorso appartengono appunto al secolo scorso. L’America ha comunque spostato l’asse di gravità della propria politica estera verso il Pacifico e deve occuparsi di se stessa: ciò lascia dei vuoti nella sicurezza internazionale. Questo vale in particolare per le crisi alle frontiere meridionali dell’Europa, nel Mediterraneo. I vuoti, nella politica internazionale, vengono sempre colmati: nel caso specifico, come dimostrano i conflitti in Libia e Siria, la Russia e potenze regionali, dalla Turchia ai paesi del Golfo, hanno assunto una influenza primaria.
Biden cambierà stile, metodo, approccio; nella sostanza, tuttavia, asse sul Pacifico e relativo disimpegno dal Mediterraneo potrebbero continuare. L’Europa non può restare a guardare. Deve avere la capacità di muoversi anche in modo autonomo, assumendo responsabilità più dirette per la propria sicurezza, a cominciare naturalmente dalle regioni di maggiore prossimità. Tutto questo non mette in discussione la nato ma semmai la rafforza. Sono del resto gli americani stessi a chiedere che l’Europa aumenti le proprie capacità di difesa.
Certo: ma viste le differenze in politica estera fra alcuni degli Stati europei e vista la concentrazione sul problema della ripresa economica, l’obiettivo di costruire un’Europa geopolitica rischia di slittare nel tempo. Su che basi potrebbe fondarsi la “potenza” europea?
Metterei la cosa in questi termini. L’Europa deve diventare un attore globale: in alleanza con gli Stati Uniti ma in grado di esercitare la propria influenza geopolitica. Per ora non è stato così. Non solo per le divisioni in politica estera fra gli Stati europei ma anche perché gli strumenti economici della “potenza” europea non sono mai stati utilizzati con una visione strategica. In politica estera è necessaria maggiore coesione e la capacità di decidere. Ursula von der Leyen ha parlato della necessità di introdurre il voto a maggioranza qualificata anche in politica estera: cosa controversa, molto difficile, ma auspicabile. E andrà certamente rafforzata la capacità di difesa, anche in campo industriale. Con Brexit, l’Unione Europea ha perso un attore decisivo nel campo della sicurezza e difesa: nuovi accordi con Londra sono necessari.
Ma conterà anche tutto il resto. L’Unione Europea è il principale polo commerciale del mondo; tuttavia, il 60% delle transazioni globali sono ancora denominate in dollari. Le transizioni energetiche, anzitutto, ma non solo. Aumentare il peso relativo dell’euro negli scambi internazionali non è un dettaglio; deve diventare una priorità per un’Europa che voglia avere un peso geopolitico. Lo stesso vale per la politica industriale, che vivrà una fase di rilancio nei prossimi anni; vanno evitate tentazioni protezionistiche ma esistono settori strategici – sanità, tecnologie digitali, intelligenza artificiale – dove dobbiamo favorire la crescita di capacità industriali europee. La crisi Covid lo ha dimostrato: continuiamo a fare leva su catene del valore troppo vulnerabili. L’alternativa a scelte europee, del resto, sono spesso accordi industriali a due, fra Germania e Francia: limitarsi a questi squilibrerebbe il vecchio continente, aumentando la divergenza fra centro e periferia.
Va infine superata una contraddizione evidente: l’Europa è complessivamente il maggiore partner commerciale, e spesso di gran lunga, dell’area mediterranea e dei Balcani occidentali, ma questo peso economico non si traduce in influenza geopolitica. E il vuoto che si è aperto negli equilibri mediterranei non tornerà a essere colmato dagli Stati Uniti: come dicevo, anche una presidenza Biden si concentrerà anzitutto sui problemi interni e sulla competizione con la Cina. Dovremo riuscire a gestire, come europei, il vasto arco di crisi alle nostre frontiere.
Sì, è un ragionamento convincente: le leve della potenza europea sono indubbiamente economiche e vanno viste in modo strategico, per diventare vettori di influenza geopolitica. Ragionando sempre negli stessi termini, il rapporto con gli Stati Uniti si giocherà in buona parte sulla relazione commerciale. Per Trump, il fatto che un paese come la Germania, dipendente dalla garanzia di sicurezza americana, avesse un surplus commerciale importante nei confronti degli Stati Uniti, era più o meno inaccettabile. Con Biden, la relazione con Berlino e con l’Unione Europea in generale tornerà a essere quella fra paese alleati. Ma mi chiedo se esistano le condizioni per il rilancio di un grande accordo commerciale: il TTIP, l’accordo transatlantico su commercio e investimenti, si è arenato negli anni di Obama non soltanto per le resistenze americane su alcuni dossier ma anche per le forti esitazioni europee – soprattutto in Germania. Quali sono gli ostacoli principali per tornare a una trattativa?
Mi sembra difficile che esistano le condizioni per un rilancio a breve termine di un accordo così ambizioso, che pure ho sostenuto in modo convinto quando ero alla guida del governo italiano. Mai dire mai, naturalmente; ma mi pare improbabile, viste le difficoltà interne su entrambe le sponde dell’Atlantico. Un approccio pragmatico è però possibile. Intanto, possiamo cooperare con gli Stati Uniti per riformare e rafforzare l’Organizzazione mondiale del Commercio (WTO): la lunga vicenda Boeing-Airbus, con misure tariffarie reciproche, dipende anche dal blocco del meccanismo di dispute settlement del WTO. In un certo senso, l’arbitro non ha il fischietto, ossia gli strumenti per dirimere la controversia. Si procede così con misure tariffarie reciproche. In realtà, le due grandi aree economiche del mondo occidentale hanno un fortissimo interesse a lavorare insieme; e insieme possono favorire una riforma del WTO. Del resto i metodi unilaterali di Trump non hanno prodotto granché: nei quattro anni passati, il deficit commerciale americano è nel complesso aumentato, nonostante la riduzione relativa del deficit bilaterale con la Cina.
Vedo due test cruciali in questa nuova fase, anche a prescindere dal difficile rilancio del TTIP: uno è appunto legato al futuro del WTO, il secondo è di trovare un’intesa su una digital tax globale. Non sarà affatto facile, anche perché esistono differenze importanti fra le due sponde dell’Atlantico in materia regolatoria. E abbiamo approcci diversi al tema della privacy. Ma è in ogni caso un tema decisivo, che coinvolgerà direttamente l’Italia in quanto presidente di turno del g20 nel prossimo anno.
Assieme alla “digital tax”, anche la “border carbon tax” potrebbe essere di ostacolo a un accordo commerciale Stati Uniti-Europa.
Qui esistono anzitutto sfide tecniche e politiche interne all’UE. Il disegno di questo strumento e i settori che dovrà coprire (tra cui acciaio, cemento, elettricità) non è completo. Il sistema di ETS (emissions trading system) andrà reso compatibile con la protezione alle frontiere, cosa non facile. Ma prevedo che la carbon border tax possa creare più problemi con paesi come Cina, India, la stessa Corea del Sud, che non con gli Stati Uniti – soprattutto se riusciranno effettivamente a perseguire, con la presidenza Biden, una riduzione ambiziosa delle emissioni.
Riusciremo a trovare un’intesa con Washington sulla gestione del problema Cina? L’Europa rischia di essere un teatro della nuova “hi-tech cold war” fra usa e Cina, come viene chiamata dagli osservatori americani. Può essere in parte un termine fuorviante: il peso dell’economia cinese è tale che un “decoupling” dalle economie occidentali è molto difficile e costoso anche per noi. Nulla a che vedere, da questo punto di vista, con la vecchia Unione Sovietica e la vecchia guerra fredda. Ma resta il dato di fondo: l’amministrazione Biden continuerà a vedere nell’ascesa della Cina la principale sfida strategica per gli Stati Uniti e chiederà all’Europa di schierarsi. Riusciremo a bilanciare il nostro interesse economico ai rapporti con la Cina, e questo vale anzitutto per la Germania, con una solida relazione di sicurezza con gli Stati Uniti? Il famoso nodo del 5G ci pone esattamente di fronte a questo tipo di dilemma.
Direi anzitutto che noi europei non possiamo essere spettatori passivi del confronto in atto fra la potenza in ascesa, la Cina, e la superpotenza americana. Non possiamo, semplicemente, permettercelo. Rischiamo di restarne schiacciati perché scontiamo dei ritardi, soprattutto sulle piattaforme digitali. Ma dobbiamo essere più consci dei nostri vantaggi comparati in altri settori importanti, come appunto quello ambientale. Aggiungo che non possiamo neanche adottare un atteggiamento agnostico: valori comuni ci legano storicamente agli USA; la sfida è di restare alleati pur svolgendo un ruolo autonomo e difendendo i nostri interessi nella relazione economica con la Cina.
L’Europa ha anche un ruolo potenziale da svolgere per ridurre la tensione o i rischi globali collegati a uno scontro diretto fra Washington e Pechino. È ormai evidente che è fallita l’illusione degli anni Novanta, secondo cui l’integrazione della Cina nell’economia mondiale avrebbe anche prodotto una evoluzione democratica del suo sistema politico. O avrebbe di per sé trasformato la Cina in un semplice stakeholder del sistema internazionale. In realtà le cose sono andate diversamente: la Cina di Xi Jinping ha aumentato il tasso di assertività nazionale e la competizione commerciale cinese ha colpito la classe media nei paesi occidentali. L’Europa e gli Stati Uniti devono quindi esercitare una pressione congiunta per costruire, nelle relazioni economiche commerciali, condizioni più eque, regole e standard che Pechino dovrà rispettare sul serio: penso per esempio alla reciprocità di accesso ai mercati, agli aiuti di Stato o ai problemi legati alla protezione della proprietà intellettuale. E conteranno gli accordi sugli investimenti esteri, dove l’UE sta ancora negoziando con Pechino.
Esercitare un’influenza sulla Cina, del resto, non è impossibile. Per fare solo un esempio, l’Europa è riuscita nel quadro del G20 a coinvolgere Pechino, inizialmente molto riluttante, nella riduzione internazionale del debito dei paesi del Sud, di molti paesi africani in particolare; è stata una manovra di mediazione, condotta in modo intelligente ed efficace. L’insistenza su un level playing field, nelle relazioni economiche internazionali, ci accomuna agli Stati Uniti: è necessario negoziare un riequilibrio dei rapporti commerciali mentre continuano a crescere gli scambi. E questo maggiore equilibrio è il frutto di scelte politiche, non soltanto delle dinamiche di mercato – come ci illudevamo negli anni Novanta.
Chiudiamo questa nostra conversazione tornando al tema da cui siamo partiti, l’emergenza sanitaria. Ma vediamone adesso la proiezione internazionale. Sul fronte vaccini si potrà aprire una fase di collaborazione o di dura competizione. Cosa prevarrà?
È un segnale importante per l’Europa, intanto, che la Commissione sia stata incaricata di negoziare l’acquisizione di grandi quantità di dosi di vaccini anti-Covid. Nella prima fase della pandemia, i paesi europei sono entrati in competizione fra loro sull’accesso agli apparati medicali, dai ventilatori alle mascherine; ma oggi siamo, da questo punto di vista, in una fase radicalmente diversa e migliore. Quattro grandi multinazionali sono coinvolte negli accordi avviati dall’UE, ponendo le basi per una vasta attività di distribuzione anche al di fuori degli stessi confini europei.
L’Europa, in sostanza, intende ridurre i rischi di forti squilibri internazionali nelle possibilità di accesso ai vaccini. È chiaro che una competizione industriale esisterà; ma la visione europea è che questo sia tipicamente un campo dove i governi devono cooperare. L’America di Biden è sensibile a un messaggio del genere. E la traiettoria europea conferma una tesi ben nota: questo nostro edificio comunitario – non sempre razionale nella sua architettura – si rafforza attraverso le crisi. È in grado di adattarsi e rinnovarsi, esattamente come l’America.
Questo articolo è stato pubblicato sul numero 91 di Aspenia