international analysis and commentary

Europa e Stati Uniti dai dazi alla stabilizzazione

2,188

L’accordo commerciale tra Unione Europea e Stati Uniti, raggiunto in extremis dalla Presidente della Commissione Ursula von der Leyen nel resort di Donald Trump in Scozia il 27 luglio, alla vigilia dell’entrata in vigore dei nuovi dazi, segna una netta cesura rispetto al passato. Criticato da molti per non rappresentare, parafrasando Candido, il migliore degli accordi possibili, per i Ventisette l’intesa costituisce un risultato negoziale limitato, fondato su basi fragili e incerte per le trattative future.

Come molti compromessi, anche quello entrato in vigore il 7 agosto deve essere inquadrato in una realtà del tutto inedita. All’apertura dei mercati e alla rimozione delle barriere tariffarie, le finalità dell’accordo contrappongono infatti un’esigenza, da parte americana, di riequilibrio e stabilizzazione degli scambi, espressione di una visione del commercio globale radicalmente diversa da quella propria del cosiddetto Washington Consensus.

 

Un accordo pieno di incognite

Più in dettaglio, l’accordo siglato al Turnberry Golf Club prevede una tariffa “blanket” del 15%, omnicomprensiva dei livelli pattuiti ai sensi della clausola della nazione più favorita (Most-Favoured-Nation) del WTO, e copre circa il 70% delle esportazioni dell’UE verso gli Stati Uniti, con alcune eccezioni. Rimangono immodificati i dazi al 50% su acciaio e alluminio, adottati ai sensi della Section 232 del Trade Act. È previsto, di converso, un regime di esenzioni su circa 70 miliardi di scambi, che comprende, oltre a prodotti dell’industria chimico-farmaceutica, risorse naturali e materie prime critiche, anche i componenti aeronautici di Boeing e Airbus. Su questo punto, l’accordo segna un raro successo negoziale per entrambe le parti, che mettono al riparo una filiera per anni al centro del più lungo e acceso contenzioso transatlantico in sede OMC.

In attesa di possibili esenzioni negoziate nell’interesse dei singoli Stati membri (in particolare per vino e superalcolici), l’accordo sancisce un tetto vincolante del 15 % per la maggior parte delle merci europee, incluse automobili, semiconduttori e prodotti farmaceutici. Una soglia elevata, applicabile anche agli autoveicoli (senza alcun sistema di quote) e ai semiconduttori, ma che colloca comunque l’Unione europea in una posizione di vantaggio rispetto ad altri partner commerciali degli Stati Uniti, come Cina (30% fino al 12 agosto), Brasile (50%), India (25%) e Taiwan (20%).

Una maggiore incertezza deriva dalla promessa dell’Unione Europea di acquistare gas naturale, petrolio, tecnologie e combustibile nucleare per un valore di 750 miliardi di dollari che potrebbe, in prospettiva, ridisegnare le catene di valore transatlantiche e allineare Bruxelles a un’agenda industriale di ispirazione americana. Non è chiaro se e come questa cifra si tradurrà in un impegno ufficiale. La mancanza di terminal di rigassificazione in Europa e i limiti dell’industria americana nel garantire tali forniture rendono l’obiettivo più simile a un auspicio di lungo periodo, anche perché gli Stati Uniti dovrebbero quadruplicare gli attuali 75 miliardi di dollari di esportazioni energetiche verso l’UE. È quindi plausibile che la cifra, per quanto evocativa, resti indicativa, con acquisti e licensing distribuiti ben oltre un eventuale secondo mandato di Trump.

 

Leggi anche: Il momento McKinley di Trump

 

Ancora meno chiaro è il modo in cui le imprese europee onoreranno i 600 miliardi di investimenti negli Stati Uniti promessi a Trump, seguendo l’esempio del Giappone, che si è impegnato a investire 550 miliardi di dollari sul suolo americano, a condizioni peraltro meno favorevoli rispetto all’UE. Infatti, se per l’aumento degli acquisti di energia è necessario il coinvolgimento e l’accordo degli Stati membri, per gli investimenti esteri, l’Unione Europea non può vincolare legalmente i soggetti privati a prendere decisioni di tale portata, né tantomeno indirizzarli attraverso i contenuti dell’accordo commerciale, che può al massimo fungere da strumento di moral suasion.

In ultima analisi, il principale limite dell’accordo risiede nell’asimmetria tra Stati Uniti e Unione Europea, con effetti diretti sul piano negoziale.  Negli Stati Uniti, il governo federale rivendica una competenza in materia di dazi, nonostante diverse pronunce giudiziarie abbiano già ritenuto illegittima l’imposizione unilaterale di tariffe senza l’autorizzazione del Congresso sotto l’International Emergency Economic Powers Act (IEEPA). All’interno degli stessi accordi, tuttavia, Washington ha dimostrato di poter legare gli impegni sui dazi dei Partner commerciali a obblighi connessi, come nel caso dell’intesa con il Giappone, che prevede un programma di investimenti da 550 miliardi di dollari, finanziato e gestito da enti pubblici giapponesi, diretto a tutti gli effetti dalla Casa Bianca. L’Unione Europea, invece, concentra le proprie competenze esclusive su commercio, concorrenza e mercato interno. Ambiti cruciali come fiscalità, difesa e investimenti restano prerogativa degli Stati membri, rendendo difficile qualsiasi vincolo senza il loro esplicito consenso.

 

Dal libero scambio al riequilibrio?

Come accennato, la gestazione dell’accordo è stata fortemente condizionata dal contesto negoziale. A metà luglio, lo scenario di un no-deal appariva il più probabile. Il compromesso raggiunto dal Giappone il 22 luglio, poco prima del vertice UE-Tokyo, si è così imposto come unico modello realisticamente percorribile per la maggioranza dei Ventisette. L’intesa negoziata da Ryosei Akazawa, figura centrale della delegazione giapponese, conteneva obblighi molto simili a quelli successivamente imposti da Trump a Bruxelles, ma con condizioni persino più stringenti, anche a causa di una posizione nipponica più fragile rispetto a quella, già debole, della Presidente von der Leyen. All’ipotesi iniziale di un accordo “all’inglese”, fondato su un dazio del 10% e su un sistema di quote per i settori più sensibili, si è quindi sovrapposto un compromesso più ampio, che ha incorporato anche una dimensione politica. Il nuovo assetto ha investito capitoli strategici come energia, difesa e investimenti, accrescendo il costo negoziale per l’UE e marcando una differenza sostanziale rispetto all’intesa raggiunta da Londra, in un primo momento vista persino “al ribasso”.

Le divisioni tra gli Stati membri hanno contribuito ad esasperare una situazione tesa e concitata, nella quale la Commissione, titolare del portafoglio sul commercio, ha operato come terminale formale di una trattativa ben più ampia, condotta su più livelli dai Paesi maggiormente esposti sul piano delle esportazioni, come la Germania. A questa linea si è contrapposta una posizione più assertiva, guidata dalla Francia, motivata non solo dagli squilibri negoziali, ma soprattutto dalla volontà di tutelare un modello di “autonomia strategica” dell’Europa, che rischia di essere ulteriormente compromesso in settori chiave come la difesa, l’energia e digitale, che Parigi considera pilastri fondamentali della competitività del mercato unico. Una frattura che, pur ricomposta nel testo dell’accordo, evidenzia l’assenza di una strategia industriale europea comune e rilancia l’allarme del rapporto Draghi sul crescente divario di produttività e innovazione tra l’Europa e gli altri grandi blocchi economici.

 

Leggi anche: L’Europa vista da Washington: il tramonto dell’Occidente

 

Agli occhi di Bruxelles, un simile deal non può che essere interpretato nel migliore dei casi come una tregua. Un compromesso seppur insoddisfacente, segnato da elementi simbolici che, per le tempistiche ristrette e contenuti, restituiscono la volontà di rovesciare il paradigma liberoscambista promosso in passato dagli Stati Uniti, segnando un netto cambio di passo rispetto agli anni del Washington consensus. La firma di un’intesa commerciale sul green di un golf club contrasta con le lunghe trattative e i negoziati intermittenti del fallito TTIP dell’Amministrazione Obama, e basta a offrire all’elettorato repubblicano la prova che il presidente Trump è riuscito a piegare la debolezza delle istituzioni eredi del vecchio ordine agli interessi americani, comprese quelle europee, che la Casa Bianca considera ormai superate.

 

La crisi del multilateralismo

La rinuncia alla liberalizzazione degli scambi, che per decenni ha rappresentato la ratio del sistema del commercio globale, si accompagna a un’esigenza di riequilibrio promossa dalla Casa Bianca. Trump individua nei dazi uno strumento “equitativo”, capace di correggere gli squilibri percepiti nelle relazioni economiche tra Washington e gli altri attori internazionali, inclusa l’Unione Europea. La definizione dell’intesa in una finestra temporale estremamente ristretta risponde a una logica di anti-escalation, utile a congelare nel breve periodo il rischio di una guerra commerciale e a collocare gli altri Paesi su un terreno difensivo, con la prospettiva, per questi ultimi, di ridurre le asimmetrie in una futura sessione negoziale. Uno scenario, quest’ultimo, che potrebbe concretamente aprirsi solo se gli effetti negativi dei dazi, in primis inflazione e perdita del potere d’acquisto, inducessero l’amministrazione Trump a un ripensamento. Una seconda alternativa, per quanto più improbabile, presupporrebbe invece la soccombenza della Casa Bianca nel contenzioso promosso da alcuni importatori statunitensi contro l’imposizione delle misure, anche nell’eventualità di un giudizio sfavorevole davanti alla Corte Suprema.

Un ulteriore elemento degno di nota è il ben noto declino, ormai irreversibile, delle istituzioni multilaterali. Dopo una stagione fortunata per il libero scambio, in cui le regole del gioco fissate dagli Stati hanno consentito di raggiungere traguardi significativi come l’istituzione del WTO nel 1995, la mancanza di progressi in aree negoziali strategiche (come i servizi digitali e gli investimenti) e l’incapacità dell’Organizzazione di svolgere efficacemente la funzione di arbitro, ne hanno progressivamente compromesso l’efficacia. Questo ha finito per relegare il WTO a un ruolo marginale. Il blocco dell’Appellate Body, condiviso dalle amministrazioni Trump e Biden, è il simbolo della radicale sfiducia manifestata dagli Stati Uniti nei confronti dei meccanismi di risoluzione delle controversie commerciali.

 

Leggi anche:
Capitalismo di guerra
US-China: Competing in the age of “MAGA” and “China Dream”

 

L’orientamento internazionalista, che per decenni ha ispirato la politica commerciale americana, ha lasciato il passo a una tendenza conclamata al bilateralismo. Una scelta che non appare più come semplice espressione contingente della volontà politica di Donald Trump, ma come la prima parte di una strategia consolidata. L’accordo con l’Unione europea si inserisce in una lunga serie di intese siglate dagli Stati Uniti con partner strategici come Regno Unito e Giappone, che hanno nei fatti svuotato di significato i principi fondanti del WTO. Oggi Washington sembra respingere alla radice gli istituti alla base delle liberalizzazioni degli scambi. Dopo l’introduzione dei requisiti di contenuto locale previsti dall’Inflation Reduction Act di Biden, contrari alla clausola del trattamento nazionale del GATT, è ora la clausola della nazione più favorita a essere superata dalla previsione di due aliquote tariffarie, del 10 e del 15%, adottate come base negoziale per futuri accordi.Le implicazioni per Unione Europea e Stati Uniti

Nonostante il compromesso raggiunto tra Washington e Bruxelles ponga l’Unione Europea in una posizione di vantaggio rispetto ad altri Stati, l’intesa ottenuta da Trump sembra confermare una superiore capacità negoziale degli Stati Uniti. L’onere dei dazi grava in modo sproporzionato sugli importatori di prodotti dell’UE, mentre l’Unione, oltre ad essere stata costretta ad abbassare le proprie tariffe all’importazione, si è impegnata a sostenere ulteriori investimenti nell’economia americana. Quest’ultimo aspetto appare particolarmente paradossale ai fini del riequilibrio della bilancia commerciale, poiché gli investimenti europei negli Stati Uniti comporterebbero un afflusso di capitali verso l’economia americana, contribuendo di fatto non a ridurre, bensì ad aggravare il deficit.

In questo contesto, l’Unione dovrebbe evitare di leggere l’accordo come una Caporetto e tentare di farne il punto di partenza per un confronto strutturato con Washington, volto a definire un modello di scambi realmente alternativo, capace di superare l’attuale logica transatlantica. Una possibile area di convergenza potrebbe essere rappresentata da un impegno congiunto contro la sovrapproduzione, un problema tipicamente cinese che, per ragioni diverse, sia Europa che Stati Uniti hanno interesse a contenere, e che sfugge sempre più a un WTO ormai inadeguato a gestire le distorsioni strutturali dell’economia globale.

Un’ulteriore fonte di preoccupazione riguarda il futuro degli scambi globali. Sebbene il protezionismo non sia un fenomeno inedito, le attuali barriere commerciali non sono paragonabili a quelle viste tra il 2016 e il 2020. I dazi imposti oggi raggiungono livelli mai toccati dallo Smoot-Hawley Tariff Act del 1930, e non è affatto scontato che i grandi esportatori riescano a reindirizzare con successo i propri beni verso mercati alternativi. È il caso della Cina, che riversa la propria sovrapproduzione nel sud-est asiatico, con effetti dirompenti. In Indonesia, ad esempio, il dumping cinese ha spazzato via interi segmenti della manifattura locale, ostacolando la crescita della nuova classe media di Giacarta. Per l’UE invece, il rischio è che la Commissione non sia abbastanza rapida nel concludere nuovi accordi commerciali, limitando le alternative per l’export colpito dai dazi americani.

Più che una parentesi negoziale, l’accordo tra Unione europea e Stati Uniti appare come un passaggio strutturale nella transizione verso un commercio sempre più plasmato da logiche politiche. È in questa chiave che va letta la progressiva marginalizzazione del WTO e la normalizzazione degli accordi bilaterali, come nuovi strumenti ordinari di convivenza economica. L’uso dei dazi come strumento geopolitico riflette infatti la crescente integrazione tra difesa commerciale e obiettivi strategici in settori come sicurezza, energia e tecnologia.

L’Europa può ancora giocare un ruolo, ma solo se saprà superare l’approccio mercantilista che per anni ne ha guidato le scelte economiche, privilegiando l’export a scapito della domanda interna e senza costruire una reale autonomia strategica. Nel settore dei servizi digitali, ad esempio, se l’UE avesse sviluppato per tempo campioni tecnologici propri, disporrebbe oggi di strumenti più efficaci di difesa commerciale e di politica industriale, da utilizzare per imporre contromisure alle big tech statunitensi con un potere negoziale ben maggiore.