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Emergenza ambientale e pandemia

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Le strade semi-deserte in questa stagione di shutdown trasmettono un senso di sollievo, di rigenerazione. Come se la città liberata dalla morsa del traffico respirasse, grazie ai malati di coronavirus che nelle corsie e nei corridoi degli ospedali faticano a respirare.

In effetti l’inquinamento è sensibilmente diminuito. Lo mostrano chiaramente le foto scattate da un satellite del programma Copernicus dell’ESA: fra il 14 e il 25 marzo su Roma, Parigi, Madrid, e più ancora  su tutta la pianura padana, le chiazze rosse che misurano la concentrazione di diossido di azoto sono andate sbiadendosi. Lo stesso era avvenuto in Cina nei due mesi precedenti. Secondo alcuni, l’aria pulita salverà tante vite di persone con patologie cardiache e polmonari quante ne sta portando via il Covid-19.

La diminuzione del diossido di azoto (NO2) da marzo 2019 a marzo 2020

 

Ma è una tregua solo parziale, perché i TIR continuano a viaggiare, e di breve durata. Passata l’emergenza vera e propria, torneranno traffico e inquinamento. O forse l’umanità uscirà purificata, rinsavita da questa esperienza, come ci si può sentire dopo un ritiro spirituale in un monastero o dopo una settimana di digiuno a base di mele e tisane? Molti avranno senza dubbio riscoperto il valore della vita di coppia e del tempo dedicato ai bambini, o il piacere della lettura. Assistendo da lontano alla stoica lotta dei medici e infermieri, avranno meditato sulla dimensione etica che era quasi scomparsa dalla nostra civiltà utilitarista, e sull’insensatezza dello shopping compulsivo.

Ma difficilmente questa esperienza cambierà a fondo i nostri stili di vita, rendendoli più compatibili con la svolta verde di cui ha bisogno la malferma salute del pianeta. Passato il peggio, i governi dovranno rilanciare l’economia, sostenendo le aziende, cioè l’offerta, ma anche la domanda, cioè i consumi.

Il ritorno al consumismo e ai comportamenti inquinanti sarà forse attenuato se le buone abitudini acquisite durante questa specie di quarantena avranno attecchito. Potrebbe esserci una maggiore attenzione ad evitare gli spostamenti inutili, utilizzando meglio i mezzi di comunicazione moderni.

Meno conferenze internazionali, sostituite da teleconferencing, meno viaggi di servizio per riunioni, significano meno aerei in volo e quindi minori emissioni di anidride carbonica. L’avrebbero vinta gli ecologisti che si battono in vari paesi contro la costruzione di una terza o quarta pista dei grandi scali internazionali a spese delle foreste. Gli aeroporti di provincia, da sempre antieconomici e chiusi all’inizio della crisi, potrebbero non essere riaperti: i voli fra città che distano meno di 600-800 km sono inutilmente inquinanti e vanno sostituiti dai treni ad alta velocità. Il tele-lavoro sperimentato con successo durante l’emergenza dovrebbe affermarsi su ampia scala, rendendo superflua la costruzione di costosi palazzi di uffici e alleggerendo il traffico di pendolari. Mantenere l’insegnamento telematico decongestionerebbe le aule e i parcheggi delle università di massa. La vulnerabilità di sistemi industriali fondati su global supply chains, cioè su forniture di componenti dalla Cina, vulnerabilità che la crisi ha fatto emergere, porterà a correggere alcuni degli eccessi di delocalizzazione, e quindi a frenare l’aumento del traffico marittimo con l’Estremo Oriente e delle relative emissioni.

A fronte di questi marginali benefici per l’ambiente, la crisi del coronavirus è disastrosa per la campagna contro i cambiamenti climatici perché la fa passare in secondo piano. Le minacce di lungo periodo sono sempre messe in ombra dalle emergenze immediate. I governi dovranno convogliare tutte le risorse disponibili verso il salvataggio delle aziende e la lotta alla povertà, e non vi saranno margini per incentivare le energie alternative e la ricerca finalizzata alla mitigazione del climate change.

La Commissione guidata da Ursula von der Leyen era partita bene facendo dello European Green Deal  la sua massima priorità, ma ora deve dare la precedenza alla ripresa economica e al salvataggio del mercato unico e del sistema Schengen. I Fridays for future che avevano incrinato l’indifferenza delle nostre società consumiste appaiono al momento  un’eco lontana di una stagione di slanci giovanili. Greta Thunberg ha spostato la campagna sul web, ma in questo modo la perdita di visibilità è inevitabile.

Non è solo questione di minore attenzione alle ragioni dell’ecologia. Su un piano più concreto, il drastico calo dei prezzi degli idrocarburi dovuto al lockdown rende meno competitive le energie rinnovabili. Molte persone che meditavano di rottamare l’automobile senza sostituirla per passare virtuosamente all’uso quotidiano di treni e metropolitane hanno ora riscoperto il vantaggio dello spostarsi in macchina, senza pericolo di infettarsi. Negli Stati Uniti la Environmental Protection Agency, uno dei primi enti federali ad essere purgati da Trump e utilizzati per demolire le politiche progressiste dell’Amministrazione Obama, ha annunciato il 2 aprile l’allentamento delle regole sull’inquinamento dell’aria e delle acque per venire incontro alle industrie già duramente colpite dalla crisi: è lasciato alla loro discrezionalità notificare o meno il superamento dei limiti, e non verranno applicate multe; l’EPA si concentrerà sui casi di imminent threat  alla salute pubblica e all’ambiente.

Infine, il governo britannico ha deciso il 1° aprile di rimandare all’anno prossimo la COP 26, la grande conferenza inter-governativa sui cambiamenti climatici che doveva tenersi in novembre a Glasgow. Un appuntamento particolarmente importante perché questa edizione delle annuali Conferences of Parties avrebbe dovuto precisare e aggiornare gli obbiettivi fissati dall’accordo di Parigi del 2015.

La COP dell’anno scorso, spostata da Santiago del Cile a Madrid, si era conclusa con un nulla di fatto, appuntando tutte le speranze su quella del 2020. Un rinvio annunciato ora, quando mancano 7 mesi e nessuno ha ufficialmente preso in considerazione la probabilità di un prolungamento del lockdown fino all’autunno inoltrato, appare dettato non tanto da esigenze sanitarie (prevenzione di contagi) quanto da uno scetticismo circa l’opportunità di affrontare in queste circostanze (crisi economica) il dibattito sull’attuazione degli impegni presi a Parigi, la definizione di obbiettivi più ambiziosi e concreti, la contribuzione dei paesi ricchi al Fondo per il sostegno delle politiche ambientali dei paesi meno sviluppati.

Per concludere su una nota più positiva, possiamo sperare che la Commissione UE, nonostante la priorità delle politiche anti-recessione, rilanci il suo Green Deal; e che, come proposto dal Presidente Macron, vi colleghi l’assegnazione dei fondi per la ripresa economica. Per l’Italia un vasto programma keynesiano imperniato sulle energie alternative e il risparmio energetico, oltre che sula cura del dissesto idrogeologico, sulla sanità e sulla manutenzione infrastrutturale, e non solo su ammortizzatori sociali e salvataggi di banche, sarebbe la ricetta più efficace.